C’è uno stacco tra due inquadrature che spiega perfettamente sia i limiti sia le qualità di Blade Runner 2049, e avviene nella seconda parte del film, quando il protagonista del film, dal nome kafkiano K, va nel luogo più radioattivo della zona, alla ricerca di Rick Deckard (storicamente interpretato da Harrison Ford), e si ritrova in un deserto colmo di statue di donne in posizioni succinte. Oltre le statue, avvicinandosi alla villa old school dove abita Deckard, vediamo il suo punto di vista da lontano, con l’inquadratura di spalle rispetto a K, e il rispettivo controcampo, che mostra quello che lui vede nel momento in cui lo raggiunge. Trattasi di una sede di apicultura, con dei blocchi gremiti di alveari e di api in volo, ma da lontano, dal punto di vista di K, sembrano quasi grattacieli, con un gioco ottico forse involontario ma reso maggiormente suggestivo dall’incredibile fotografia di Roger Deakins. Nella prima inquadratura, si ha la percezione quasi di una penetrazione di questo nuovo personaggio in un modo assolutamente lontano dal presente, un mondo che ricorda i grattacieli lanciafiamme delle prime inquadrature del Blade Runner (1982) originale di Ridley Scott. Sembra di penetrare in quella magnificenza, quasi in un tour de force nostalgico, in cui la grandezza, tanto scenografica quanto artistica, di un fantasma del passato sembra resuscitare, anche solo attraverso l’evocazione di forme geometriche e di idee. Quando ci si avvicina troppo, però, la vera natura di questi oggetti è rivelata, e arrivano due sensazioni: da una parte lo stupore per il trovarsi di fronte a qualcosa di inaspettato, le cui caratteristiche erano sospettabili ma non prevedibili dall’inquadratura precedente, oltre che una scelta interessante e originale rispetto all’effetto-nostalgia facilone raggiungibile da un’ipotetica inquadratura che invece davvero riecheggia, senza giochi di prospettiva, le forme dei grattacieli; dall’altra la delusione per il fatto che davvero non si sta entrando di nuovo in quel mondo, in quella logica, in quel collasso di immagini. Certo, Blade Runner 2049 è un grande film simbolico, un turbine di immagini che probabilmente va studiato nel profondo, ma forse non è Blade Runner per come dovremmo conoscerlo a livello tradizionale e viscerale, come uno studio dell’anima dell’uomo attraverso esseri non umani. Ci viene in mente, a livello personale e immediato, il paragone con la terza stagione di Twin Peaks e in particolare con l’impatto immediato e misterioso ottenuto dopo la visione delle prime due puntate in quello storico 20 maggio 2017 – l’allontanamento (momentaneamente solo apparente, ma importante) dalla sfera semantica di Twin Peaks come serie e dalla sfera dialogica e scenografica di Twin Peaks come cittadina-centro di tutto il gioco causa uno straniamento necessario e logico, poiché si sta entrando nel reame del cinema di Lynch, di un mondo a parte, cresciuto e costruito attorno a una poetica simbolica e immaginativa precisa. Ed è un ritorno dopo 25 anni di assenza. Blade Runner invece in 2049 torna ben 35 anni dopo, e non c’è quella sensazione, quella di aprire le porte del cinema di Ridley Scott, perché alla regia, banalmente, non c’è Ridley Scott: i tempi sono cambiati, ma sono cambiati anche i nomi, al massimo si può parlare di un discorso su quel che è successo in 35 anni di fantascienza, ma i riferimenti sono più complessi e meno riconoscibili, non ci sono echi, per esempio, di Blomkamp o di Duncan Jones. L’autore di 2049 è Denis Villeneuve, un manierista con uno sguardo anticonvenzionale ma furbo, mestierante espressionista di un mondo cinematografico modaiolo e strano, che si rifà ad altri autori con una superbia probabilmente involontaria che causa spesso e volentieri piccoli passi semifalsi, tra il mondo à la Fincher in Prisoners (2013), quello à la Lynch stesso in Enemy (2013) e il montaggio conclusivo di un film altrimenti interessante come Arrival (2016) che rimanda troppo alla mente i momenti più retorici del cinema di Christopher Nolan.
I limiti di 2049 si fermano però probabilmente a momenti singoli di cinema, piuttosto che all’operazione in generale da un punto di vista idealistico. Alcuni dialoghi sfruttano scelte dialogiche confusionarie invece di prediligere l’aspetto poetico e minimale del Blade Runner originale, in particolare nelle sequenze con Wallace, l’antagonista assoluto interpretato da Jared Leto; personaggio in realtà interessante, fisicamente cieco, che programma una specie di rivoluzione della tecnica che esclude in maniera assoluta l’anima dell’uomo, mettendo in primo piano le necessità evolutive dell’uomo digitale, per sentirsi Dio. L’uomo, però, non deve sentirsi Dio, deve sentirsi uomo, anche quando l’uomo, difatti, non è uomo, ma replicante: è qui che giunge K, un antieroe neo-noir classico che vaga per le strade di un panorama urbano legato alla classica iconografia del film originale, ma con un rispettoso distacco che non copia ogni singolo elemento scenografico dal capolavoro originale. Lo stolido protagonista, interpretato da Ryan Gosling, che è sempre di più uno degli attori chiave della Hollywood contemporanea, si ritrova in svariate situazioni fantascientifiche archetipali e tragiche, che come mi è stato fatto notare da molti sono più legate alla letteratura di William Gibson che a quella di Philip K. Dick. In un flusso tragico e shakespeariano perfettamente integrato in un’idea del futuro più vicina a quella che possiamo avere noi adesso che a quella che si poteva avere negli anni ’80, l’elemento teorico forse più affascinante è un evento, all’interno della storia pregressa del microuniverso ucronico del film, denominato “il blackout”, che riecheggia l’evento di Carrington al centro di Lo and Behold (2016) di Herzog: un’eliminazione momentanea e programmatica dell’elemento digitale, che ha sconvolto e portato in crisi il pianeta. Un addetto alla corporazione informatico-tecnologica di Wallace dice «Non ho più le mie foto d’infanzia, erano tutte negli hard disk dei miei genitori ma dopo il blackout sono scomparse» – il ricordo, il fattore che ci rende umani perché ci riporta la mente all’esperienza del corpo attraverso l’anima (Platone dixit…), è affidato ciecamente (da qui, forse, la cecità di Wallace) all’esperienza computerizzata, a un “altrove” inesperibile, nero, spaventoso, fuori campo. In questo costante confronto tra il vecchio e il nuovo, in un mondo in rovina in cui la proiezione femminile digitalizzata Joi (la bellissima Ana de Armas) cita praticamente nello stesso istante Fuoco Pallido di Nabokov e Her di Spike Jonze, è inevitabile che ci sia una necessità di cambiamento, di rivolta, una ricerca di una novella figura cristologica e salvifica. Non è più il Roy Batty interpretato da Rutger Hauer a fare l’insurrezionista anarchico per seguire le proprie necessità filosofiche individuali, è un ammasso di riottosi anti-blade runner che cercano di conquistare il mondo, a un livello più spirituale che fisico, ma necessitano che il passato venga ucciso, che Rick Deckard scompaia, che il “simbolo” scolpito dal tempo, col volto di Harrison Ford, lasci lo spazio alla propria prole, alla nuova leva della sommossa dei robot, topòs fantascientifico per eccellenza. Tant’è che la dimora di Deckard è una specie di tempietto al passato, non il passato di Blade Runner ma il passato del ‘900 statunitense, conservato come in un museo della memoria di Pahmuk ma attraverso ologrammi e proiezioni digitalizzate che si scompongono e si frammentano col tempo a livello sia sonoro che visuale. Appaiono Elvis e Marilyn Monroe, in un inseguimento-sparatoria avvincente e perfettamente ritmato in maniera delirante, tra il pop e la nouvelle vague, e si sente Can’t help falling in love: è un atto d’amore? O forse un atto di sguardo? L’occhio di Deckard nell’82 che rifletteva la scenografia angosciante che lo circondava, proiettando e specchiando nella retina le inquadrature aeree apparentemente infinite di un mondo nero inesistente, o ancora la cecità di Wallace (incapacità a vedere), o ancora lo sguardo di K, che non riflette niente perché quella realtà non è più un qualcosa che proiettiamo immaginando il futuro quanto un qualcosa che ormai è appartenente a una mitologia a sé stante, distaccata dal caos dell’ambiente futuribile; è un mondo preciso, o meglio la sua evoluzione digitale e involuzione qualitativa.
2049 è il risultato di un lavoro congiunto, messo a punto da 6 artisti differenti in 6 direzioni differenti: Denis Villeneuve, Hampton Fancher, Michael Green, Roger Deakins, Harrison Ford e Ryan Gosling, ovvero, un regista, due sceneggiatori, un direttore della fotografia e due attori, ognuno giunto a un punto di volta chiave per i rispettivi sentieri artistici. Villeneuve, sempre in bilico tra il regista autoriale e il regista commerciale, con 2049 conferma un sospetto che le opere precedenti, tra esplosioni comunicativamente espressive e viaggi sottotono nel reame della pretenziosità dilatata senza sguardo, potevano evidenziare, ovvero il fatto che l’idea di base del suo approccio registico non è quella di usare uno sguardo per raccontare una storia quanto quello di raccontare una storia magari selezionando quel determinato sguardo. In un certo senso, Villeneuve è stata insospettabilmente la scelta perfetta per mettere in scena la sceneggiatura di 2049 proprio perché è ancora acerbo e impersonale, indefinito, non lontano da Scott ma nemmeno troppo vicino, non nostalgico (e dunque irrimediabilmente moderno) ma senza un’impronta troppo definita da poter subentrare a incasinare la percezione di un mondo distopico così importante a livello di immaginario conscio della collettività. La sceneggiatura, del resto, è stata scritta da Hampton Fancher, probabilmente la persona al mondo che meglio conosce Blade Runner di Scott: ne era, difatti, lo sceneggiatore originale. Al fianco di Fancher però c’è la firma di Michael Green, sceneggiatore principalmente di serial (su tutti American Gods) che può aver dato a Fancher un ausilio da un punto di vista proprio di approccio più contemporaneo, esistenzialista, mitologico: Fancher è probabilmente responsabile dell’approccio filosofico e spirituale, e Green invece dell’approccio più legato alle logiche dell’intrattenimento, per quanto esso sia reso coraggiosamente attraverso una programmatica lentezza che invece non si confà ai dogmi del cinema hollywoodiano contemporaneo. Villeneuve sfrutta questi ritmi dilatati per sfogarsi in impreviste citazioni tarkovskiane – per esempio l’albero, morto, della vita, che subentra per osservare da lontano i corpi in decadenza da una parte; dall’altra il cane che gira attorno a K in posizione fetale, finendo per osservare l’uomo che si allontana, come un tristo fantasma nella Zona di Stalker (1979). Roger Deakins, invece, ha sfruttato la necessità di creare un mondo coerente per utilizzare ogni sequenza come pretesto per una ricerca estetica di tipo differente: le discariche grigie e cupe, la villa di Deckard gialla e arancione come il set di uno western, gli ologrammi pubblicitari (Atari, Coca Cola) sono lisergici espressioni di estemporaneità, l’interno dell’appartamento di K lindo e pulito fino all’inverosimile, quasi come quello del Bateman di American Psycho – e pensiamo più al romanzo di Bret Easton Ellis che al film con Christian Bale. Diventa principalmente un flusso d’immagini digitali che continuano a scozzarsi e a cercare un’indipendenza, una differenziazione grafica ulteriore e superiore alle logiche esterne della narrazione universale. La poesia è cercata attraverso le ombre, le sfocature e la profondità d’inquadratura, o le angolature di macchina non tradizionali che si possono trasformare in quadri estetizzanti. Manca l’anima? Forse manca la profondità di una ricerca nell’anima, ma manca perché manca un personaggio riconoscibile e simbolico, almeno nella percezione che possiamo avere al momento, ché il film è appena uscito. K potrebbe essere destinato a crescere, a diventare un’icona di disperazione come Roy Batty, come dimostrano tre momenti principali: il rendersi conto di essere “erede” di una tradizione profetica cristologica a cui non vuole assolutamente appartenere per il rischio che può subentrare dalla situazione, l’addio alla “sua” Joi, schiacciata dalla tirapiedi di Wallace poco dopo un tragico «Ti amo», e il momento della presa di coscienza riguardo al suo ruolo nel gioco generale delle cose, non davvero salvatore del popolo (dei replicanti) ma inviato di una missione secondaria senza troppi pensieri, senza troppo rilievo, senza un ruolo che non sia quello di essere il se stesso che lui sapeva già, sostanzialmente, di (poter) essere. Il “blade runner”, ancora una volta, è protagonista involontario di un teatrino, di un magna magna che minimizza l’attuale cristallizzazione degli eventi. 2049 procede narrando di due “blade runner”, uno che deve trovare e vivere l’identità sostanziale del proprio ruolo, ovvero K, e uno che invece deve resuscitare a livello di potenza, di necessità, ovvero Deckard. Harrison Ford lavora sulla superficie, il suo volto scavato e colmo di solchi e rughe è ormai soprattutto un sarcofago parlante e semovente di un’idea simbolica del passato, come poteva essere Indiana Jones nel quarto film della saga o Han Solo ne Il risveglio della forza; ma qui la situazione si fa più complessa, perché Deckard non rappresenta la resurrezione di un franchise bensì quella di un simbolo più complesso, storico, filosofico. La sensazione di mummia rediviva permane, ma in un’ottica completamente diversa, ovvero quella del confronto, e nessuno oltre a Ryan Gosling avrebbe potuto perfettamente rappresentare il volto di questo controcampo giovanile, disperato, integrato in una realtà evoluta (o forse sì, involuta), più legata a un presente che lascia pochi sbocchi all’interno dell’universalizzazione dialogica del microcosmo narrativo, mitologico e fantascientifico di Dick. Questo perché Gosling, nella sua stolidità a volte monoespressiva, è ormai epitome del “cool”, tragicomica rappresentazione di un conflitto mediano tra l’indie (v. Half Nelson o The Believer), l’autoriale (Drive e Solo Dio perdona di Refn in primis, ma pure il suo film da regista, Lost River, e Song to Song) e il commerciale (ovviamente La La Land, ovviamente 2049, e poi Come un tuono, Gangster Squad e molteplici altri). La semplicità del suo volto applicabile a qualsiasi contesto eroico o antieroico passa spesso velocemente dalla drasticità del gigioneggiare nevroticamente alla passività, tranquilla e comunicativa in maniera minimale di una recitazione per sottrazione, portando Gosling sicuramente tra i volti più memorabili dell’epoca cinematografica contemporanea: un attore di culto, che sta spianando sempre di più la propria vita verso la memoria collettiva.
In conclusione, 2049 è un film che andrebbe probabilmente studiato e analizzato nel dettaglio, attraverso le raffinatezze nei riferimenti culturali, letterari e cinematografici, tanto da rappresentare un punto di volta importante nella carriera di Villeneuve, tanto da poter anche far sperare bene per il suo prossimo progetto commerciale, un nuovo adattamento cinematografico di Dune dopo il fallimento mediatico e (parzialmente) artistico di Lynch con la sua versione del 1984 – ovvero, un altro lavoro per un pubblico generalizzato, che non richiede il tipo di attenzione “esterna” che invece si esprime quando il prodotto si dirama diventando un oggetto filmico alieno indipendente, autonomo, che prova a essere, e probabilmente esageriamo, d’essai. Il problema, semmai, di 2049 è proprio il diramarsi della sostanza, l’exploit dialogico che fuoriesce dall’interessante idea dello sguardo dell’umano “più umano dell’umano”, dilungandosi in esplicitazioni che distraggono dall’immaginazione, dalla separazione che l’uomo deve ottenere rispetto all’immagine digitalizzata (anche quando c’è un amore, magari esprimibile attraverso un’osmosi tra il corpo digitale e il corpo reale, osmosi che nella propria corporeità trova la distanza semantica – e qualitativa! – rispetto alla simile e irritante scena nel succitato Her di Jonze). Sembra quasi che l’idea sia quella del flusso, quella del costruire un nuovo tipo di stilizzazione commerciale portando gli stilemi del regista di Arrival nelle sfere più alte di quello che l’intrattenimento dovrebbe rappresentare a Hollywood. E non sarebbe male, un po’ più di lentezza e di raffinatezza nel costruire idee e mondi cinematografici, se non fosse che a volte rimane l’idea di una programmaticità superficiale, una sensazione che rimane sensazione più che certezza, considerando la cura con cui Fancher ha preso in considerazione i vari aspetti dei suoi personaggi attraverso la sua costruzione narrativa ribelle, che porta lo spettatore a immedesimarsi con il replicante, stavolta davvero personaggio principale assoluto, con la sua ricerca di quel qualcosa di più, sia esso vitale o exploit extra-vitale, tendenza all’extra-mondo (al fuori campo, all’idealistico noumenico). Non è un film che sprizza vita ma è un film che vuole vita, che vuole discussione, che vuole esplicitare un cambio nell’approccio, un cambio di sguardo, un cambio di cinema. Facciamo sempre parte dello stesso ‘jeu’, quello di una destrutturazione dogmatica, ma sono passati 35 anni. I simboli devono sopravvivere, e lo faranno anche attraverso Villeneuve, motivo per cui è impossibile per noi davvero bocciare 2049 o esplicitarne troppo le perplessità, più contenutistiche che formali. Ciò non toglie che la profondità di sguardo di Scott rimane un miraggio lontano, come il riflesso dei grattacieli nella retina. E il ‘jeu’ finisce male se le regole non rimangono scritte a caratteri cubitali nell’inconscio di chiunque giochi. È tempo, forse, non di morire, come diceva Roy Batty, ma di toccare davvero quel vetro, cercando un futuro, un qualcosa di “altro” verso cui tendere in maniera più definitiva, più profonda e intensa. Il film comincia con K e finisce con Deckard: che la risposta al futuro sia in realtà un recupero del passato? Non attraverso il citazionismo ruffiano ma attraverso una riscoperta effettiva di quei valori? Dov’è, davvero, che comincia il discorso e finisce il ‘jeu’, o viceversa? Il dubbio rimane oscurato dalle nuvole del virtuosismo e dell’espressività, il cinema sopravvive e soprattutto resuscita, anche se parzialmente.
Questo è 2049: uno studio di un mondo, forse approssimativo ma con svariati punti di contatto con una sfera autoriale (più di Fancher e di Deakins che non di Villeneuve, che è al suo apice in particolare nella scena d’azione conclusiva in cui K cerca di salvare Deckard dall’acqua, con tanto di controcampo sfocato da sotto la superficie liquida). Provando ad aprire gli occhi per vederlo meglio, per capirlo meglio, per capirsi meglio e abbracciare i nostri sguardi, profondi o piatti, umani o no, nel dubbio del futuro, nell’ologramma nostalgico dell’invisibile lontano.
Nicola Settis