Non è un problema strettamente cinematografico, e forse nemmeno contenutistico. La fotografia in 35mm è strabiliante, è chiaro il percorso di sensorialità espansa che il regista vuole affrontare fra le inquadrature claustrofobiche e gli stimoli che arrivano dall’audio, è tutto sommato apprezzabile al di là delle sue iperboli il coraggio della totale libertà narrativa e contenutistica di chi non ha paura di osare e di scardinare le regole del gotico, il gruppo di attori composto da Javier Bardem, Ed Harris, Michelle Pfeiffer e soprattutto la musa Jennifer Lawrence sulla quale il film è costruito tassello per tassello dimostra le proprie qualità, e la metafora (anzi, il nugolo di metafore) messe in scena da Darren Aronofsky nell’ultimo mother! arrivano chiare e lampanti, potenti e stordenti come un pugno diretto sulla faccia. Il problema di mother! sta proprio nel messaggio che queste metafore esprimono, un messaggio misantropico e autocelebrativo, nel quale in una profusione di riferimenti biblici affastellati in maniera troppo spesso caotica e banalizzante emerge come l’uomo abbia in sostanza provocato solo danni e meriti di bruciare per ripartire da zero, e dall’altra parte come l’artista (lo scrittore attorniato dai fan nel personaggio interpretato da Javier Bardem, ma non è difficile scorgere una specularità nella figura dello stesso regista) finisca per coincidere con Dio, beandosi della propria popolarità e pretendendo, con atroce profusione di egoismo ed egocentrismo, costanti segni/pegni d’amore quando è in sostanza incapace di darne. Fra i quali un cuore incenerito e poi cristallizzato, apparente specchio di quel cuore che ad Aronofsky, questa volta, sembra mancare totalmente.
Erano molte le speranze riposte in mother!, nuovo (e tutto minuscolo) lavoro di Darren Aronofsky che torna in concorso a Venezia74 a nove anni dal meritatissimo Leone d’Oro ottenuto con The Wrestler. Nel percorso autoriale del talentuoso e poliedrico regista statunitense, solo il precedente kolossal biblico Noah era stata una vera e propria battuta d’arresto, giunta dopo gli ottimi Pi greco, Requiem for a dream, appunto The Wrestler e Il cigno nero, inframezzati dal problematico e meno riuscito, ma comunque decisamente interessante, The fountain-L’albero della vita. Oggi, ben al di là dei fischi e degli improperi giunti al termine delle proiezioni stampa veneziane, sembra quasi che alla soglia dei cinquant’anni Darren Aronofsky sia regredito a un livello concettuale quasi infantile, lanciandosi in una lettura limitativa e distruttiva ai limiti del censurabile dell’umanità e delle sue ambiguità, dipingendo l’uomo – e il fan – come un mostro che può uccidere e mangiare un neonato per adorarlo, mentre in un’infinita striscia di Moebius e in un percorso a spirale verso l’orrore e l’assurdo si accatastano e si rincorrono allegorie bibliche che vanno da Caino e Abele alla Concezione, dalla cacciata dei mercanti dal tempio al buon pastore, dagli sputi e calci sulla Maddalena al perdono “perché non sia morto invano”, dalla differenza d’età fra Maria e Giuseppe ai doni (che non sono proprio oro, incenso e mirra, ma il senso è lo stesso) che arrivano immediatamente dopo la Natività. Ed ecco che Noah, da passo falso atipico nella carriera che gli avremmo ben volentieri perdonato, sembra essere diventato un punto di svolta, temiamo di non ritorno ma speriamo con tutto il cuore di sbagliare, nel suo percorso autoriale, diventato pretenzioso sino alle soglie del mistico, mentre sta diventando sempre più difficile trovarsi d’accordo con i messaggi che passano. Manca di ironia, mother!, si prende troppo sul serio, e non bastano certo i meriti di messa in scena e linguistici per salvarlo dal progressivo naufragio etico di un cuore arso come un diamante strappato e (troppo poco) gelosamente conservato, in un apocalittico Giardino dell’Eden che nasconde in realtà solo devastazione, in una lettura dell’umanità profondamente crudele, arrogante e priva di sfumature.
La base di partenza per l’immaginario è apertamente dichiarata in una delle (tante, troppe) locandine che accompagneranno l’uscita del film, che cita apertamente il Polanski di Rosemary’s baby e la sua destrutturazione dell’horror. Sin dalle primissime battute, Aronofsky stringe Jennifer Lawrence in stretti e asfittici primi piani, come a toglierle l’aria, come a farle già intuire la spirale di orrore nella quale inevitabilmente la sua vita sta incappando. mother! è un film magniloquente, esagerato, anarchico nell’esercitare il proprio fascino cannibale e nel rifiutare categoricamente ogni regola della narrazione e del blockbuster, senza paura di cadere nella farsa, senza limiti (auto)imposti di alcun genere. C’è l’amore forse unilaterale di lei verso di lui, personaggi privi di nome ma non certo di contraddizioni, c’è una casa pazientemente ristrutturata e curata che diventerà luogo di invasione e di devastazione, c’è una lettura interessante del rapporto fra la musa e l’artista, e ce n’è un’altra sul rapporto fra lo scrittore e il suo stuolo di fan adoranti. Ma poi, purtroppo, ci sono le situazioni bibliche che si affastellano, prive di bussola, pretestuose e scolastiche, banali e infantili, votate a un insormontabile problema etico. Aronofsky, con lo stesso vacuo lamentarsi di un adolescente schifato da ciò che ha intorno, crea tensione palbabile e immedesimazione filmando gli spazi e i volti, sospira all’evoluzione fra rane che saltano e insetti morenti, allude alla ciclicità e al portare avanti la specie fra la struttura circolare potenzialmente infinita e il bambino in grembo, salvo poi, questo bambino/ispirazione/salvatore, farlo uccidere per sbaglio e fagocitare da quell’umanità inutile, dannosa, vampiresca e cannibale che sta alla base dei problemi del film. E questo è inaccettabile, ben oltre le esagerazioni narrative e contenutistiche di un film che ha troppa carne al fuoco, ben oltre il senso di confusione che il film provoca nello spettatore rivelando in sostanza quella di chi l’ha realizzato, ben oltre le macchie di sangue di Abele appena ucciso da Caino che diventano ferite della casa, ben oltre i pretestuosi malesseri della protagonista e le creature impossibili intravviste nel water, e ben oltre pure al kitsch atrocemente perfido di un collo di neonato spezzato proprio mentre orina verso il cielo.
La vita dei protagonisti sembra la normale vita di una coppia di innamorati, lei che si occupa dei lavori di casa, lui scrittore bloccato che non riesce a partorire il nuovo libro. Sarà una visita inaspettata, quella di Ed Harris che si professa dottore alla ricerca di un bed and breakfast ma si rivelerà un fan squilibrato malato terminale che vuole conoscere il suo idolo, l’innesco della tragedia. A breve lo raggiungerà la moglie, Michelle Pfeiffer, e poi i loro due figli, pronti a uccidersi a vicenda per questioni di eredità. La loro è una vera e propria invasione, una completa distruzione della privacy, un appropriarsi degli spazi e degli oggetti della coppia: una sortita totalmente irrispettosa nella vita delle persone che li ospitano che non potrà che aprire a un’eterna Apocalisse, ma mentre Jennifer Lawrence manterrà sempre un minimo di distacco razionale, Javier Bardem sarà sempre più succube delle adulazioni, fino ad assurgere a una sorta di sacerdote, e poi direttamente a Dio che invita le moltitudini, sfama e dona. Anche il proprio figlio. La casa/focolare diventerà il tempio invaso dai mercanti, verrà colpita e distrutta solo per lasciare un segno, a partire da quel cristallo fondamentale come i capelli per Sansone che sarà inevitabilmente destinato ad andare in frantumi. mother! procede fra vertigini e capogiri, fra spazi negati da (s)conosciuti ospiti autoinvitati e dimensioni incubali, fra momenti di passione sulle scale e gravidanze, fra benedizioni e reliquie, fra ex-voto e tappeti di cadaveri, fra ispirazioni per un libro “perfetto” e autografi da firmare a chi “ha fame e sete”. Aronofsky esagera, punta all’eccesso, fino a perdersi in un’ambizione sconfinata che finisce per ridurre la moltitudine di tematiche affrontate a un immaturo bignami, incurante di andare incontro al massacro biblico che puntuale è arrivato sin dalle prime proiezioni veneziane, ma per i motivi sbagliati. Perché mother! è un film indubbiamente deludente, probabilmente il meno riuscito di Darren Aronofsky, eccessivamente magniloquente nelle sue iperboli e ai confini con il ridicolo nell’abbassare al grado zero i suoi riferimenti e le sue istanze, ma sarebbe profondamente sbagliato attaccarlo proprio su quelli che sono i suoi principali punti di interesse, ovvero la sua folle sfacciataggine stilistica e la voluta inconsistenza di parte di una trama onirica, quando il problema è semplicemente la sua visione limitata e distruttiva dell’uomo. È un film “brutto”, con diverse cadute concettuali e contenutistiche, con un finale estremamente fastidioso, eppure complesso, stilisticamente impeccabile e indubbiamente interessante nella sua sistematica e anarchica distruzione delle regole del film di cassetta. Per questo è un film destinato a dividere il pubblico in adoratori e detrattori, per il quale però, come spesso capita, probabilmente la verità sta nel mezzo, fra i pregi e i difetti, fra le moleste esagerazioni, le chiare metafore e i problematici messaggi. Di sicuro, mother! è un film che non può lasciare indifferenti. E del quale, nel (tanto) male ma anche nel (poco, ma qualcosa c’è) bene, si parlerà a lungo.
Marco Romagna