5 Settembre 2017 -

TWIN PEAKS – STAGIONE 3 (Episodi 17 e 18) – FINALE DI STAGIONE – (2017)
di David Lynch

Viviamo dentro un sogno, e quel sogno è finito. Twin Peaks: Il ritorno è l’oggetto più complesso, enigmatico e deflagrante del linguaggio cinematografico recente, una destrutturazione dei ritmi del cinema e della serialità tanto simbolico quanto emotivo, e ormai definitivamente destinato a rimanere nel nostro inconscio come incubo assoluto che risucchia tutto, e tutti. Sarebbe stato ingiusto probabilmente aspettarsi da Lynch qualcosa che potesse rispondere a tutti i quesiti lasciati aperti attraverso la serie, dal 1990 fino ad ora, e infatti così non è stato. Ci sono stati, come al solito, grossi suggerimenti, e dall’altra parte dello spettro anche imprevedibili riscritture tematiche di un magma narrativo in continua rivoluzione copernicana. Non è una presa per i fondelli, ma un coerentissimo e sofferentissimo viaggio nei meandri dell’astratto, dell’indefinizione, della rarefazione. Però la tappa finale di questo viaggio rimane difficile da digerire. Non per motivi qualitativi, ma strettamente per necessità emozionali. Il colpo di scena narrativo, ormai non più definibile come una scoperta o un fatto, è solamente una sensazione, la sensazione di un cambiamento. Il finale di tutta la serie, se presumibilmente davvero il finale assoluto e definitivo è questo, ci dice sostanzialmente che sono due, soltanto due, i personaggi davvero importanti nel nucleo surreale di questo universo fittizio/filmico condiviso: Laura Palmer e Dale Cooper. Uno dei loro due nomi è la risposta alla domanda che Monica Bellucci pone a Gordon Cole nella puntata 14: «Chi è il sognatore?». È Cooper che tenta di giustificare il proprio scompenso morale suddividendo nel proprio subconscio il suo Sé in “parte buona” e “parte cattiva”, creando un mondo sempre sospeso tra moralità e immoralità, mondo che gira attorno a lui stesso e al rimorso di non essere riuscito a salvare Laura Palmer? O è invece Laura che usa la propria mente come palcoscenico per un delirio personale, frutto di un’evoluzione di un ‘angst’ adolescenziale, usando come marionette volti e corpi appartenenti a un immaginario collettivo, che è quello che frutta da tutta la serie originali e dall’opera omnia di Lynch stesso? In realtà una cosa, che per molti è poco scontata e che invece probabilmente bisognerebbe dare per certo, è che tutto è logico, e lo è come lo era in Mulholland Drive – la struttura si apre e si chiude, continua e finisce e poi continua ancora, e i riferimenti pregressi sono tutti strumenti di una collimazione tra piani di realtà e sogno. Però, il simbolo del gufo che inquieta i nostri sogni sin dal 1992 di Fuoco cammina con me, è un simbolo che diviene finalmente, a suo modo, più compiuto: basta arrotondare le forme e spostarle un minimo, che si ottiene la striscia di Möbius. Tutti i film di Lynch, del resto, sono un po’ cicli infiniti che si completano attraverso l’attuazione di una propria struttura, e lo sappiamo di sicuro dai tempi di Strade Perdute se non addirittura di Eraserhead. Il problema è che alla striscia manca una sezione. Quel ciclo infinito eguale che avrebbe dovuto trovare un proprio ritorno alle origini nella serie originale è stato scomposto, è stato assassinato dalle case di produzione quando la seconda stagione è stata troncata sull’iconico «How’s Annie?», e non si può più tornare davvero alle origini. Sono passati 25 anni. Twin Peaks: Il ritorno è una meditata vendetta.

Ma in questa violenza, che occupa la mente dello spettatore come un cancro ossessivo e irrimediabile, cosa può rimanere se non il cuore? Quel cuore che ha sinora spostato tutto in direzione di qualcos’altro, in un illimitato gioco di costruzione e distruzione dei luoghi comuni e interni di Lynch. Se lo vediamo come una dichiarazione d’intenti sulla libertà d’espressione artistica, del resto, Il ritorno diventa automaticamente il manifesto cinematografico dal linguaggio interno e fittizio più complesso esistente. Più complesso anche in quanto partecipe in una costante evoluzione attraverso le arterie del proprio delirio, dalla narrazione all’annullamento dei simboli, un annullamento che all’inizio della stagione sembrava un annuncio di tumulto apocalittico e che invece, or ora, sembra davvero assumere la forma di uno stacco netto verso la morte, verso un rito funerario interiore fatto solamente di pensieri. Come Mulholland Drive riusciva a fare attraverso una scatola blu e qualche dissolvenza, Il ritorno fa con l’intero universo di Twin Peaks solamente nel suo finale già iconico, già vittima di ire ingiustificate, già sconnesso da tutto il resto – viene data la coscienza del dover riconnettere i tasselli ottenuti sino a quel momento come sintomi più che come fatti o eventi, tramutando la logica nella direzione dell’inspiegabile puro e noumenico. La puntata 18, nella stessa direzione ma con forse meno impatto visionario rispetto alla 8, è un vero e proprio atto di eroismo nei confronti dell’intera istituzione dell’audiovisivo. Un eroismo che si traduce attraverso la passione per l’eroe, la ricostruzione dei ritmi e delle intenzioni dell’eroe, con Cooper sempre più vicino a una sorta di atipico John Wayne di Sentieri Selvaggi (1956), capolavoro di Ford che è citato direttamente verso il finale della puntata 17, con come missione la necessità di salvare il continuum spazio-temporale riportando in vita il Bene che può sconfiggere il Male. È tutto basato, un po’, su quest’ingenua credenza, che il Bene e il Male siano entità che devono combattere l’una con l’altra per tentare di prevalere; il problema è che il Bene e il Male necessitano delle sfumature, degli sdoppiamenti, dei passaggi intermedi che servono in funzione della loro coesione e della loro collaborazione intermediatica. È in questa sfumatura, identificabile con il conflitto carnefice-vittima che martoria moralmente la questione sulla morte di Laura Palmer da sempre (sia su di lei sia sul suo assassino), che si sostiene e sopravvive quella che ormai è diventata l’intera ossatura semantica di Twin Peaks in quanto tale. E il Male pare destinato a vincere nel momento in cui è identificato e definito in quanto Male, nel momento in cui esso prende piede e sopraffà la situazione.

La sicurezza del nostro protagonista Cooper non può che chiudersi e spegnersi nel momento in cui l’antagonista svela il vero pericolo e la vera violenza che contiene: non trattasi più di quella di BOB, entità astratta che crea dolore fisico, ma di un qualcosa di più sottile e ben più pericoloso, qualcosa di a suo modo fantascientifico, ovvero il piegare il tempo e lo spazio attraverso la distruzione dei simboli. Laura Palmer, ormai identificato nel nostro inconscio come un simbolo di un Bene ideale da salva(guarda)re per l’attuazione di una sconfitta del Male, è destinata a rimanere vittima sempiterna, è un simbolo che è stato effimero, costretto a essere interrotto e castrato, dalla ABC che nel ’91 non volle continuare la serie e non volle permettere a Lynch di continuare il proprio percorso folle e personale come il regista avrebbe voluto. Fuoco cammina con me, sì, è stato uno sfogo personale precisamente contro quell’istituzione e quel delirio, ma Il ritorno ne supera decisamente il coraggio perché sfrutta il mezzo stesso della serialità televisiva per attaccare il suo sviluppo commerciale, per ri-delineare una relazione tra cinema e televisione in questo folle mondo in cui la televisione sta prendendo sempre più posto e sempre più spazio, sostituendo il mezzo cinematografico. La grande madre/Mother, prima simbolo del dolore materno, diventa simbolo doppio (come sempre, il doppio come risposta alle ambiguità, come svelamento della problematica interna): da una parte la TV che uccide la creatività, dall’altra Lynch stesso, autore di Twin Peaks, che decide di dare una fine, spietata e brutale, al suo mondo irreale. Del resto, il nome dell’entità che tendenzialmente considereremmo equivalere a Mother è Judy, che come spiega parzialmente Gordon Cole è un nome legato a “jiāo dài”, verbo cinese che significa “completare, spiegare”, identificando la forza negativa definitiva, quella che uccide i simboli, senza neanche mostrare il proprio volto, dopo un’infinita e tragica decostruzione della propria forza, con l’esplicare, con la messa in moto di un processo artistico che esclude allo spettatore la possibilità di completare l’immagine con le proprie competenze, il proprio raziocinio, il proprio intelletto.

Ma andiamo con ordine. Se Twin Peaks con le sue ultime due puntate è diventato un prodotto morto (non escludiamo la possibilità di una quarta stagione o di un secondo film per chiudere il cerchio completando i filoni lasciati in sospeso, anche se ci pare molto improbabile data l’attitudine di Lynch a voler/dover lavorare con Frost per proseguire la serie – ma sul set hanno apparentemente litigato, e il libro di Frost che uscirà a novembre pare potrà essere un ultimo passo, chiamato The Final Dossier), significa che la morte comunque è stata un processo graduale. Tutto comincia a Buckhorn, con Gordon e la sua spiegazione molto vaga su Judy e sulla sua esistenza; ci spostiamo alle avventure del doppelgänger di Cooper, e a Benjamin Horne che scopre che suo fratello è finito in Wyoming, nudo come un verme e gonfio come un palloncino, convinto di aver ucciso qualcuno (suo nipote, ma non lo sa) con un binocolo. Il montaggio serrato, che procede in un crescendo di tensione e ripetitività, è interrotto da alcuni stacchi, che includono l’ultima apparizione del Fireman, il Gigante, il Dio dei sogni e degli incubi, che è un Dio del cinema capace di controllare lo spazio e il tempo attraverso uno schermo cinematografico usato a mo’ di iPad con tocchi di touch screen nell’aria. Mentre la testa del maggiore Briggs fluttua, insieme a una cella, il Fireman sposta il doppelgänger di Cooper dalla sua collocazione originale in mezzo ai boschi spostandolo di fronte al dipartimento dello sceriffo, ponendolo di fronte a un mondo in cui vuole entrare per fare del male, ma sapendo che così lo sottoporrà alla forza di cui è capace anche il Bene: Freddie, personificazione del Caso, o forse della premonizione divina. Come a Andy fu riservata la possibilità di salvare Naido, a Lucy è data la possibilità di sparare al doppelgänger di Cooper, ciò mentre Cooper e l’FBI arrivano sul luogo. Freddie, col suo pugno metafisico, sconfigge l’orbo/seme contenente BOB a cazzotti, in una scena d’azione deflagrante e delirante, colma di dissolvenze e di momenti in cui gli oggetti perdono la propria essenza diventando pura forma. L’astratto viene annientato in tutta la sua malvagità, Naido rivela il proprio volto nascosto e diventa Diane – quella vera, purificata, simbolo di un amore irreale e rarefatto poiché Diane, teoricamente, è soltanto la proiezione visiva di un qualcosa che altrimenti non esiste, è interno a un registratore. È qui che appare, in sovrimpressione per svariati minuti, il volto di Cooper. Deve realizzarsi un compimento, un qualcosa per andare oltre la sconfitta di un Male determinato e specifico verso la sconfitta del Male assoluto. Tra una rivelazione e l’altra però la cosa che vediamo in scena è quel volto, che permea tutto, unisce gli altri volti e gli altri corpi e le altre persone in una presa della consapevolezza della fine di un sogno. Si ripete l’antica frase, «Viviamo dentro a un sogno», secondo la traslitterazione di Jeffries/Bowie e non seguendo la frase originale. Lo dice Cooper, che vive, dunque, dentro a un sogno. Quel volto che appare, finalmente, all’interno del sogno (dopo essere rimasto in penombra e parzialmente fuori campo nel sogno di Cole della puntata 14 con tutte le sue implicazioni), spiega già l’essenza stessa di sogno. Forse a livello narrativo è più rassicurante, originale e potente parlare più che altro di un incrocio tra realtà separate che collimano, come una creazione di un nuovo spazio da parte di Mother, spazio che permea buona parte dell’ultima puntata, atto a spaesare Cooper, ormai bloccato in un circolo vizioso di portali tra dimensioni parallele, destinato a perdere la propria certezza. Ma il sogno, appunto, in una chiave à la Mulholland Drive, spiega più cose: chi sono Richard e Linda, il perché nel sogno Richard e Linda in effetti tornano come nomi, volti o concetti (Linda rimane un qualcosa di non visualizzato ma di solamente evocato come Diane che nella serie originale appunto era un registratore, Richard invece appare ed è un antieroe patetico – un’estremizzazione di una condizione futura di Cooper, come il cadavere decomposto di Sé che appare nel subconscio di Naomi Watts nel film del 2001), il cavallo, i cognomi, il nome di Judy che identifica l’ideazione di questa ipotetica disavventura dimensionale parallela e collaterale.

Cooper, poi, deve viaggiare nel tempo, ma non è un viaggio nel tempo fantascientifico bensì puramente simbolico: rientrare nelle origini e nelle ferite di Twin Peaks per salvare Twin Peaks. Salvare Laura Palmer dall’incontro con Leo, Jacques e Ronette che avrebbe portato alla sua dipartita, salvarla dal padre, salvarla da BOB; ma Mother rimane, e Laura è destinata a non rimanere assassinata in maniera tradizionale, per essere ritrovata «wrapped in plastic» la mattina dopo dal pescatore Pete – al cui interprete, Jack Nance, è melanconicamente dedicato l’episodio. È destinata a scomparire, a perdere la propria corporeità attraverso le venature del tempo, diventando semplice simbolo urlante del bosco, il luogo del pericolo supremo, della collocazione della cupezza, dell’horror. Il viaggio nel tempo di Cooper, di per sé, ha dei ritmi e una messa in scena che hanno dell’impossibile: il bianco e nero che ormai identifica il passato, un qualcosa insomma di troppo lontano per poter far parte del nostro ‘credere’, mischia le immagini in pellicola dell’episodio pilota e di Fuoco cammina con me resuscitando inquadrature mai viste prima, come primi piani di Leo, Jacques e Ronette, rimettendo in scena e al mondo quello che il cinema può essere, quello che è stato, quello che può rinascere. Una vocazione, insomma, alla creazione. Cooper tira verso sé Laura, e il mondo torna colorato, Twin Peaks sembra tornare. Il fatto è che il buco nel tempo non giustificherebbe la nascita della serie, diventa un paradosso di eccessi, e il simbolo deve morire. Arriva la bottiglia di vodka che uccide la speranza della vittima che può sconfiggere il carnefice, e Laura in effetti scompare nell’aere, o forse nell’etere, lasciando spazio al suono che prima riempie l’immagine e poi crea lo spazio per un’altra immagine, un ultimo concerto, un ultimo barlume musicale all’interno dell’orrore. Non è più il Roadhouse, altro spazio onirico collocato all’interno di un altro spazio onirico in un baratro in cui è difficile collocare un barlume di speranza, è direttamente uno spazio circondato dai drappeggi rossi che riconosciamo essere quelli della Loggia. Julee Cruise, presente nella serie originale, canta The World Spins, canzone che faceva da sottofondo al melodrammatico e meraviglioso finale di una puntata della seconda stagione, dopo che Leland/BOB uccideva Maddy, con buona parte del cast principale della serie chiuso all’interno del Roadhouse, a riflettere su un evento di cui ancora non c’era una coscienza collettiva, mentre quel «It is happening again» faceva percepire la possibilità di un qualcosa di superiore, di mostruoso. Una scena eterea all’interno di un incubo sentimentale e cupissimo.

La striscia di Möbius con il pezzo mancante svela subito cosa, in effetti, manca, ma allo stesso tempo continua la messinscena di un’assenza di mancanza, di un compimento o di un completamento di un processo che in realtà è destinato a rimanere incompleto, a rimanere amarissimo fino a creare l’orrore. Non sapremo la risposta a molti misteri, attorno ai quali dobbiamo andare solo e soltanto per intuito, cercando spiegazioni soprattutto attraverso le aperture stilistiche e le finestre oltre il tempo cinematografico dell’operazione. Ma alcune cose trovano un proprio compimento aspro o agrodolce, come Dougie che viene ri-creato e può tornare alla propria famiglia creando un lieto fine apparente, poiché l’ultima parole che pronuncia, «Home», sembra riportarlo sul livello di quel rincoglionimento catatonico che lo ha sempre caratterizzato: è ancora un immobile, bloccato in una vita robotica di automatismi psichici (v. Breton). La striscia del resto si manifesta in verticale, come un 8, il numero identificativo di quell’episodio-turbine delirante che annullava la narrazione, creava i veri e propri ritmi di un’assurdità mistica all’interno dell’onirismo. È quello che è rimasto incompleto, è quello che blocca la possibilità di un vero e proprio ritorno all’interno di The Return: il viaggio verso l’esterno, la spiegazione di un’origine del Male. Essa è evocata, non mostrata, è immaginata, non tendenzialmente narrata, è una resa visiva e mitologica, non un’apertura verso una razionalizzazione definibile a tutto tondo che in effetti possa partire dal passato, commentare il passato, ri-creare il passato.

La 18esima puntata, invece, si apre con un’immagine massimalista, un’icona che brucia come una statua, il doppelgänger di Cooper ormai unitosi col fuoco che rappresenta la sua crudeltà. Quell’icona brucia, perché brucia Il ritorno. E poi, rivediamo alcune scene, ritroviamo alcune frasi, ripercorriamo l’episodio 2 ma in una sua versione speculare: l’essere bloccati nella Loggia diventa una condizione più che un evento, una malattia più che un risveglio da essa. L’albero pronuncia le stesse frasi che diceva Audrey, riferendosi a un’immaginaria “storia di una ragazzina che viveva in fondo al viale”, forse la storia delle origini del Male raccontata da Grace Zabriskie, la nostra Sarah Palmer, nel personaggio della visitatrice zingara all’inizio di INLAND EMPIRE. Questa specularità ci fa capire che è ancora tutto sbagliato, tutto incompleto, tutto soggettivo. Da qui in poi, tutta la tensione è legata a tre volti che conosciamo: Kyle MacLachlan, Laura Dern, Sheryl Lee; Dale, Diane, Laura, che allo stesso tempo sono Richard, Linda, Carrie. Qualcosa è cambiato. Si è spostato tutto. Twin Peaks è già morto, e la sua parata funeraria è un viaggio in macchina per interrompere i ritmi della cronologia, in un’ucronia che spezza anche lo spazio geografico, cannibalizzando le certezze, mischiando i nomi e le identità, dando altri piani a edifici altrimenti piatti. E soprattutto, Cooper non è più quello di una volta, e lo dice Diane/Linda in una lettera che gli dedica, chiamandolo Richard (gli indizi del Fireman a inizio del primo episodio della terza stagione sembravano essere indizi per il risveglio, la presa di coscienza, il raggiungimento di un’amarezza priva di speranze che però è la realtà), dicendo: «Non ti riconosco più». Cooper si ritrova ora in quello spazio di sfumature tra il Bene e il Male: è se stesso e quindi tende al Bene, ma ha perso l’espressività, la necessità di catarsi e di purificazione, la passione in questo bisogno, ha perso il volto, ormai plastico mentre viene coperto dalle mani di Diane durante un amplesso carnale e triste, con lei che piange con lo sguardo verso l’alto o verso il cielo, quello sguardo all’assoluto che ha ossessionato Fuoco cammina con me e Il ritorno sinora. Diane vede un suo altro doppio, con il cambio di parrucca stile Strade Perdute, e questo arrivo della percezione di un altro Sé, di un’altra realtà, porta all’abbandono. L’assenza del riconoscimento, la sparizione del corpo (e dell’anima), l’arrivo in un’altra realtà in cui il campo e il controcampo sono destinati a relazionarsi in maniera sempre più aliena, distante, estranea, verso i reami infiniti dell’assurdo.

Non c’è più ironia, c’è solamente il flusso circolare di un viaggio che ormai non ricerca più coordinate precise, vagando in un non-luogo che è anche un non-tempo, che potrebbe essere tanto l’oggi, quanto 25 anni fa, quanto 25 anni prima. Cooper vuole distruggere gli eroi del passato, cowboy diventati antieroi misogini del presente, ma non ha percezione di come si muove il Bene nonostante la propria tendenza verso di esso. Il viaggio si fa spaesante. La Laura Palmer che dev’essere salvata non si chiama Laura Palmer, non sa chi è Laura Palmer e non sa cos’è Twin Peaks, ha un cadavere in casa e una statua di un cavallo bianco che identificano un’ideale contrapposizione tra marciume e purezza. Il volto e il corpo sono quelli di una Laura Palmer invecchiata, ma non c’è la sua essenza, è solo un significante privato di un significato poiché è stata privata del proprio simbolo. «Laura is the one», sì, ma senza la possibilità di un qualcosa che possa essere la risposta a tutti problemi, «Laura is no one». Carrie è come un corpo morto che parla, che viaggia in macchina per quasi tutta l’America in una macchina che sembra immobile, che si ferma a prendere benzina in posti sospesi in un buio al neon che ricorda i quadri di Edward Hopper, con come pericolo principale non più il buio, che ormai ha inghiottito tutto, bensì le luci dei fanali di una minacciosa macchina in sottofondo, che non si sposta mai – e, alla fine, scompare. Come non si sposta quasi mai neanche la macchina da presa, passa da un volto all’altro e poi a tutti e due, creando essa stessa il movimento e lasciando alle macchine effettive il semplice ruolo di contenitori meccanici di tensione. L’arrivo a Twin Peaks non risveglia Carrie come il nome di Gordon Cole che ha risvegliato Dougie, il riconoscimento non c’è più, c’è solamente una casa appartenente a degli sconosciuti, anzi, alla vera padrona di casa della casa di Laura Palmer, come creando uno spiraglio verso una realtà parziale – identificata dal cognome del personaggio, uguale al nome identificativo della nonnetta col nipote in Fuoco cammina con me. Non c’è più il riconoscimento neanche nell’identità e nel tempo. «Che anno è questo?» chiede Cooper, ormai in completa osmosi con lo spettatore. Twin Peaks è morto, ma la morte è un cambiamento, come dice la Signora del Ceppo, e l’incubo continua, e il nome di Laura viene pronunciato un’ultima volta dalla voce distorta di sua madre. Laura urla, la luce di casa sua si accende fulmineamente (una resurrezione, un’apparizione demoniaca di elettroni?) e giunge il buio. Secondi e secondi di schermo nero. La disperazione si fa sempre più viva, l’anima si è persa e il controllo pure, l’ultimo spiraglio di speranza per un nuovo mondo all’interno di questo meccanismo narrativo ormai depresso fino alla stasi cadaverica è proprio quell’urlo, quella possibilità che il simbolo delle vittime del Bene abbia ancora qualcuno che la cerca, qualcuno che necessita la possibilità di questo simbolo. Qualcuno che voglia il riconoscimento. Ma il cerchio è destinato a rimanere incompleto, forse per sempre.

È il più grande sogno nella storia del cinema, e indica la fine drammatica di un’epoca del simbolismo cinematografico, uno specchio buio in cui ritrovare se stessi, in acque profonde. Una sola visione non basta, e probabilmente ci ritroveremo a riscrivere e a rivisitare Twin Peaks: Il ritorno come organismo collettivo, sia intendendo la serie come totale sia intendendo la redazione come totale, in un flusso di discussioni interne per capire, imparare a capire, imparare a vedere. Anche perché, se INLAND EMPIRE di Lynch da una parte e Cosmos di Zulawski dall’altra hanno creato la mappatura per l’estetica e l’etica del nuovo cinema epico del digitale, un cinema cerebrale fatto di strutture da resuscitare e assassinare con riferimenti sempre più interni e sempre più esterni, allora la frase conclusiva di Cosmos è un tassello per le visioni del futuro sempre più necessario: «non c’è più niente da vedere», diceva. Ma con la morte dell’indecifrabile Twin Peaks, che non sappiamo più se è una cosa che ci ha tormentati fino all’emozione o se ci ha destabilizzati fino al desiderio speranzoso di un seguito probabilmente impossibile e non necessario, forse la verità è un’altra, un ultimo pezzo di puzzle, un’ultima risposta alla domanda enigmatica che non riguarda più chi è il sognatore bensì ormai qual è la realtà, e si può solamente dire che, ormai, in questo futuro che è determinato dal passato o in questo tempo che può benissimo essere sia l’uno che l’altro, entrando in noi stessi e sconfiggendo le barriere del mondo esterno come il Festival del Cinema di Venezia, il futuro consiste in un: «non c’è più niente da prevedere».

Nicola Settis

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