Suburbicon parzialmente usa gli stessi acquerelli di Big Fish da una parte e Velluto Blu dall’altra per dipingere i sobborghi stereotipati del passato conservatore e stolto americano, ma tendenzialmente conserva una propria identità, nello studio hitchcockiano del reale che si contiene perfettamente nella coerenza artistica di Clooney per riferimenti al cinema classico (v. Good Night, and Good Luck), pur ricordandoci, per puro caso, uno dei filoni che temperavano il discorso di Did you wonder who fired the gun? di Travis Wilkerson, visto a Locarno questo stesso anno. Il Gardner Lodge interpretato da Matt Damon, del resto, pur non professando il mestiere di avvocato, è un po’ ricollegabile al protagonista de Il buio oltre la siepe, soprattutto nella metamorfosi antieroica che lo posiziona vicino all’evoluzione del personaggio che conosciamo grazie a Gregory Peck nel romanzo successivo. L’atmosfera parte dallo stesso campo geografico, lo stesso punto d’incontro per la focalizzazione dei cardini e delle coordinate in cui ci si confonde, il sobborgo in cui vive e sopravvive un duro, immotivato razzismo, esemplificato in particolare dalla frase ipocrita: «noi [bianchi] siamo per l’integrazione, ma i negri devono migliorarsi socialmente ed economicamente prima di pensare di poter penetrare nella nostra comunità». La sceneggiatura firmata dal regista insieme ai fratelli Coen ha un po’ la struttura e la follia di Fargo nel delineare i propri personaggi, quando metafore complesse e quando stereotipi del nevrotismo onnipresente nel sottobosco di quella realtà, ma il silenzio da vuoto pneumatico che opprime le sequenze di tensione nei film di Ethan e Joel viene qui sostituito dalla ridondante ma spesso intensa musica di Alexandre Desplat, che qui a Venezia avevamo già sentito come sottofondo costante ed esuberante di The Shape of Water di De Toro. Tra omicidi percepiti attraverso le ombre, crescendo di suspense che esplodono sfiorando tratti quasi surreali, pomposi litigi basati sulla ripetitività di frasi canoniche interrotti da camion che brutalizzano i corpi umani e lenti suicidi involontari, Suburbicon si palesa come un film con difetti di struttura ma con una grande voglia di parlare, comunicare, e sfruttare le potenzialità del mezzo cinematografico per far passare un messaggio.
È chiaro, in realtà, nonostante l’ambientazione cronologicamente sconnessa, l’esplicito riferimento agli Stati Uniti di Donald Trump. Le folle inferocite che si accampano di fronte alle case degli afroamericani non sono forse come i poliziotti ingiusti che sono le principali vittime del movimento liberale “Black Lives Matter”? Quell’ipocrisia razzista che permea l’aria per la maggior parte della durata del lavoro complessivo non è mica la stessa della piccola borghesia democratica che viene presa di mira anche da uno dei più (forse ingiustamente) celebrati horror dell’anno, Get Out? Da questo punto di vista Suburbicon è sia importante sia inutile: importante perché è un film testimonianza, che parte da un umore legato alla contemporaneità e fluisce in un discorso omnicomprensivo su di una visione dell’America che copre decadi e decadi; inutile perché destrutturare la famiglia americana è un leitmotiv talmente abusato da essere stato coperto anche da autori non statunitensi (v. il secondo Funny Games di Haneke). Certamente ci sono le dovute differenze rispetto ai soliti metodi ironici e parodistici nel trattare il tema, e ciò è probabilmente grazie al cuore e all’umorismo dei Coen, che con questo film hanno sostanzialmente affidato un loro progetto a uno dei loro attori preferiti, sempre interprete di veri e propri “idioti” in alcuni dei loro film più celebri, su tutti Fratello, dove sei? e Ave, Cesare!. E sui (soliti) idioti onnipresenti dei Coen si focalizza in buona parte Suburbicon, denunciando le contraddizioni della società repubblicana in maniera brutalmente sincera ma raffinata, e questo principalmente grazie allo sguardo satirico-storico di Clooney che non si spinge mai verso la retorica spicciola, se non in un finale molto morale ma comunque amaro, ambiguo, e soprattutto non dialogato.
Pur girato in un digitale che rende ancora più pastellate immagini che altrimenti avrebbero avuto, oltre il lavoro satirico, anche una certa classe ed eleganza (come nell’asimmetrico lavoro di Haynes Far from Heaven, colmo di riferimenti al cinema di Douglas Sirk), Suburbicon è un’opera in realtà forse scoordinata rispetto a quello che ci potremmo aspettare dal concorso internazionale veneziano, ed è una parziale delusione rispetto al Clooney che amiamo di più, che è quello di Le Idi di Marzo con i suoi sguardi silenziosi para-politici e le sue sovrapposizioni di corpi e volti con bandiere e vetri di macchine ricoperti dalla pioggia, in un’aura capace di evitare il sensazionalismo e il didascalismo attraverso il puro riconoscimento di simbolismi semplici. È un’esperienza divertente e colma di riferimenti cinematografici, con come principale pregio una regia che nei propri momenti più brillanti lavora in effetti in maniera quasi ineccepibile sul come filmare l’azione. E pure la sceneggiatura, nonostante un secondo atto che sembri un po’ girare a vuoto (dopo il quasi illuminante prologo e prima dell’entrata in scena del meraviglioso personaggio di Oscar Isaac), ha i suoi momenti di densità, nel tema della discriminazione razziale come in un senso più generale di costruzione della scrittura, dei personaggi, dei colpi di scena, dei processi di degradazione della psiche delle marionette sfruttate dalla trama. E allora, insomma, il problema dov’è? Solo e soltanto nella carenza di originalità, sia a livello di contenuto sia, meno, a livello formale. Rimane, nonostante quest’impotenza bulimica e sempliciotta, un lavoro decisamente interessante sul tempo e sui nostri giorni in particolare, e in quanto tale è probabilmente comunque un film da salvaguardare e da accogliere con gli occhi e la mente a ogni stacco di montaggio; il problema sopraggiunge probabilmente più nel momento post-visione, con l’intensità dei momenti cinematografici che sfuma lasciando spazio al raziocinio.
Nicola Settis