La prima cosa che vediamo entrare in campo sin dalla primissima inquadratura di First Reformed è un crocifisso, posto in cima all’edificio della chiesa che dà titolo al film, una chiesa storica rimasta in piedi per 250 anni e diventata ormai una specie di plastico spazio museale, gremito di tristi barzellette parrocchiali e tenuto in piedi dal parroco protagonista, il Reverendo Toller interpretato da Ethan Hawke. L’inquadratura parte dal nero, e scorrono i titoli di testa, ma la luce del simbolo del Cristianesimo presto comincia a trasparire, mentre viene lentamente suggerito un movimento di macchina, una carrellata in avanti che diventa esplicitazione geografica: questa è la chiesa, il luogo centrale del percorso a cui dobbiamo fare riferimento per tutta la durata del film. Un film che, come molti dei precedenti di Schrader (la cui filmografia, anche quando raggiunge i suoi punti più bassi, può sempre essere una grande fonte di interesse), più che esplicitare un punto di vista esplicita una poetica nella quale penetrare, un mondo da scoprire, delle riflessioni in cui viaggiare carnalmente, specchiandosi attraverso i vari riflessi che il cinema può mettere in campo. I cristologicismi nell’arte spesso possono essere ridondanti o addirittura banali fino all’inutilità, soprattutto nella contemporaneità, in cui abbandonata l’arte strettamente clericale si è giunti nel reame della discussione proto-moderna, moderna e post-moderna di essa stessa, e ciò lo possono dimostrare anche gli svariati autori del neo-cinema spirituale più o meno d’essai, registi di film spesso anche bellissimi e interessanti (pensiamo a Dumont, Reygadas, volendo pure gli ultimi film di Malick) ma che a volte possono darci l’impressione di un utilizzo del simbolismo cristiano e cattolico come pretesto, talvolta new-age, per reinterpretare un determinato tipo di estetica, sia essa quella di Antonioni o di Tarkovskij e via dicendo, con uno sguardo aggiornato, magari senza cognizione di causa e più idee filosofiche che cinematografiche. Schrader lavora invece con la redenzione e con il rapporto tra cristianesimo e immagine cinematografica sin dagli anni ’70, da quell’opera immane che era Hardcore, che mischiava con grazia e crudeltà la percezione della fruizione della pornografia in un mondo post-western indurito dalla caduta dei valori del protestantesimo con un senso di ricerca di redenzione che cominciava con la più totale immersione nella moralità per poi spremersi in maniera sanguigna attraverso l’immoralità. Del resto, ricordiamo, Schrader, prima degli esordi alla sceneggiatura con The Yakuza e soprattutto Taxi Driver, era un saggista cinematografico; il suo testo sulla trascendenza nel cinema, che aveva come principali punti di focalizzazione Dreyer, Bresson e Ozu, magari è un saggio datato, relativamente elementare rispetto a quanto ci si possa aspettare da un regista così incredibile, ma certamente indicativo di un percorso nella sua carriera che magari per gli spettatori meno accorti può sembrare un lato più implicito all’interno della sua visione del mondo cinematografico. First Reformed è probabilmente tra i suoi film quello che entra il più possibile nella religione, o anzi, forse, è meglio dire, nello spiritualismo e nella sua densità – e lo fa girando anche attraverso molteplici altri poli tematici, dalla redenzione al sogno, dall’ecologismo forsennato a un profondo senso apocalittico, dai leitmotiv del cinema di genere a simbologie prese in prestito dal cinema europeo, dall’amore alla morte. E ciò diventa maggiormente interessante nel momento in cui ricordiamo come uno dei più grandi registi americani viventi e in assoluto, Martin Scorsese, sovente collaboratore di Schrader, abbia solo di recente messo in atto attraverso il cinema un’altrettanto dubbiosa e sofferente riflessione sui limiti della religione, quel Silence forse imperfetto ma comunque importante per descrivere il processo di riscoperta di determinati mondi spirituali e grafici all’interno della New Hollywood e dei suoi movimenti succursali, quando trasportati nel presente.
Ma andiamo con ordine. Partendo dal presupposto che sarà difficile (ma, ovviamente, incrociamo le dita) vedere qualcosa di più bello e imponente all’interno della selezione qui al Lido, First Reformed è innanzitutto un film profondamente stratificato non solo per tematiche e stile ma anche per ricchezza dei riferimenti esterni. Schrader, sicuramente, riscrive parte delle soluzioni estetiche più riconoscibili dei suoi film, in particolare di due suoi lavori degli anni ’90: da Lo spacciatore è ripresa la struttura del diario, con tanto di abbandono del diario stesso nel momento del compimento (o del tentato compimento) della propria missione, una missione che il criminale interpretato da Willem Dafoe attua come tentativo di giustizia in un mondo sconcertato e privo di linee guida mentre il nostro Reverendo Toller preferisce mettere in scena provando a scolpire un attentato terroristico nella memoria, una memoria che è sia la propria sia una memoria collettiva, ma che non include l’unica persona per cui prova sincero affetto, la dolce Mary; da Affliction è ripreso lo scenario, immerso in un bianco innevato che nel ’97 incorniciava il volto di Nick Nolte per esaltarne la violenza e il patetismo, e che invece oggi, precisamente vent’anni dopo, sembra più che altro essere un promemoria ironico, poiché la neve non cade mai in campo, è sempre onnipresente ma mai percepita, se non oltre una finestra, in una delle scene iniziali, senza alcuna percezione tattile – un fantasma del freddo in un mondo destinato a essere cannibalizzato dal caldo. Toller deve trovarsi ad allestire una sorta di confessionale psicanalitico per il marito della più fedele partecipante delle sue messe, la succitata Mary, interpretata da Amanda Seyfried con una bellezza e una tenerezza che ammaliano e ipnotizzano per tutta la durata del film. Il marito, Michael, è uno stereotipo di attivista ecologista: è stato in carcere per aver esagerato con gli insulti alla polizia, in Canada, ed è disperato per il fatto che la moglie è incinta e dovrebbe dunque mettere al mondo un pargolo destinato a un’esistenza effimera, triste, a causa del riscaldamento globale. “La vita è la cosa più importante”, ammonisce a più riprese e con diverse soluzioni dialettiche Toller, ma non pare che ne sia troppo convinto. Il dialogo è come una lotta, come dice lui stesso, uno scontro logico fuori dal mondo e fuori dai limiti di una possibile risposta a una qualsiasi domanda, una domanda che probabilmente è identificabile al proprio apice espressivo con il più volte ripetuto «Will God forgive us?» (“Dio ci perdonerà?”), e a cui non si può ottenere risposta neanche con una canzone ambientalista di Neil Young o con la meravigliosa Leaning che faceva da nenia ipnotica in La morte corre sul fiume di Charles Laughton. Attraverso questa serie di quesiti irrisolti, Schrader cerca di analizzare la contemporaneità più che il fondamentalismo religioso, la cui pressione rimane comunque onnipresente nello sguardo spento di Toller, con un volto che a ogni inquadratura sembra sempre più invecchiato e trasformato da rughe, tosse, alcolismo. Se si parte con la disperazione spenta di Affliction, difatti, non si può che continuare il sentiero muovendosi più seguendo i passi di Taxi Driver, quelli di un’ipotetica speranza che comunque si confà al dolore – sì, c’è l’amore, c’è un ipotetico “bene” a cui tendere, ma la manifestazione fisica di questi valori sembra comunque sempre più astrarsi fino a perdere la propria fisicità.
Cane mangia cane si concludeva con una visione post-mortem di un mondo in cui il cinema (il noir degli anni ’50, in una propria metamorfosi lisergica) aveva vinto, aveva posto il proprio accento metafisico e assurdo in un processo di modifica assoluta della realtà, trasformando la nuova realtà in un’appendice esclusiva che sembrava rendere labile se non addirittura inesistente la volgarità digitale e pop delle circostanze relativamente reali, o perlomeno realistiche nella loro idiozia, del mondo in cui viveva il protagonista Troy, interpretato da uno stolido Nicolas Cage convinto di assomigliare ad Humphrey Bogart. E ciò accadeva anche come prosieguo di una riflessione sul mezzo del digitale attraverso The Canyons, a sua volta evoluzione ipotetica del viaggio delirante costituito da Auto Focus. First Reformed, forse anche perché film più autoriale (scritto da Schrader stesso) e non costretto ad adeguarsi a sceneggiature altrui come capitato, appunto, per The Canyons e Cane mangia cane, abbandona la tematica della forma del digitale e del suo rapporto con il cinema ma solamente in parte, poiché attraverso il solo utilizzo del formato 4:3 già parte da riferimenti chiari: il cinema europeo dello spirito, quello appunto dei suoi primi saggi, un chiodo fisso nel panorama estetico del mondo cinematografico a partire dal momento in cui entra in scena la religione. Ma non ci si ritrova di fronte a un citazionismo forsennato al punto da essere privato di qualsivoglia significato, anzi, la maniera con cui Schrader ‘mostra’ il delirio soppresso del caos interiore dei suoi personaggi è più che altro un raffinato e agrodolce attestato, semmai, sull’immortalità di questo tipo di cinema, perlomeno in un mondo formalmente in crisi al punto da portare all’ipotetica impossibilità del cinema stesso – cosa che è portata avanti in particolare, appunto, da The Canyons (l’impossibilità del mélo, del thriller erotico, del trattato metafilmico) e da Cane mangia cane (l’impossibilità del pulp, del noir). Partendo dalla fragile e glaciale lentezza degli spazi freddi, con eterni giochi di campo-controcampo e suggestive inquadrature fisse che si dilatano fino a perdere il proprio senso del tempo, Schrader lentamente procede verso una resurrezione miracolosa e miracolata del mezzo cinematografico. Il contatto umano non è più mostrato attraverso la psichedelia del video di MTV o il bianconero di un incontro estemporaneo in un night club, bensì con una tarkovskiana danza levitante in cui l’aderenza corporea diventa tour de force omnicomprensivo per l’uomo e la/e sua/e ‘histoire(s)’; si passa dallo spazio ai monti, e dalla natura ai copertoni, i mari invasi dal petrolio, in una specie di elogio funebre del mondo filtrato attraverso lo spegnimento dello sguardo di Toller, che chiude gli occhi, come non riuscendo a vedere un’ipotesi di un’immagine trascendente nonostante essa gli si stia prospettando davanti, dietro, attorno. Il sacrificio (e anche qui, ovviamente, torna Tarkovskij) si lega al miracolo, quello di Ordet, quello di una vita di penitenza e dolore che riesce a riscattarsi attraverso un’esclamazione, qua muta e messa in scena attraverso le effusioni, che sembra dire “vita”. Una vita che include in se stessa il martirio, perché include in se stessa il decadimento di uno, due, tre corpi, con una sofferenza che giunge dopo un crescendo di tensione che può sfociare solo verso lidi inaspettati. Il “trip” è digitalizzato, comunque, com’è giusto e coerente che sia, e può solamente creare nuove parentesi e finestre verso nuove dicotomie: disperazione e speranza, grazia e astio, sofferenza e amore assoluto.
Schrader abbandona i ladri, quelli di Pickpocket, per spostarsi su altre figure, altri riferimenti appartenenti al cinema di Bresson: è il ‘curato di campagna’, attanagliato dal tumore allo stomaco, che si ritirava in una dieta fatta di solo pane e vino; e se vediamo questo protagonista archetipale come il nostro Gregor Samsa, allora l’immaginabile scarafaggio che diventa sua diretta interpretazione ulteriore è Toller, che invece annega i propri innegabili dolori fisici gravi con eccessi di alcol che non fanno altro che degradare ancora di più la sua condizione, come seguendo i dettami di Nietzsche sul fallimento del Cristianesimo attraverso l’eccessiva riflessione sul dolore e sull’autocommiserazione. Questo protagonista scarafaggio umano, inetto in quanto incapace di mettere in parole e in atto la giustizia divina che a malapena riesce a comprendere, per diventare Superuomo attua tuttavia un’involuzione fallimentare, che deve dimostrarsi fallimentare (perlomeno se vogliamo seguire la logica di Nietzsche, appunto), poiché non è un cambiamento atto a porre una nuova tavola di valori: tale nuova tavola non scritta è solamente fatta di esagerazioni fuori contesto dei valori precedenti, ri-scritti fino ad attuarsi con il sangue, con l’esplosione sensoriale di quello stesso dolore, auto-inflitto. L’antagonista Balq è sin dal cognome monosillabico un nome-brand che riecheggia il potere di Trump, la forza di un’autorità che sembra volersi sostituire a Dio. Riecheggiando la verbosità di Bergman, il regista della “vita virtuosa” di Mishima riesce tanto a dire con le parole quanto a negare (o ad accentuare) con le immagini, costruendo un discorso di un’attualità mostruosa attorno a pochi collegamenti cinematografici riferiti al passato attorno a una storia con una struttura narrativa in tre atti abbastanza basilare: primo atto mosso dal doppio evento scatenante composto dalla malattia di Toller e dalla richiesta di Mary di aiutare Michael, primo punto di volta costituito dal suicidio di Michael, secondo punto di volta costituito dalla decisione dell’attacco terroristico, conclusione che gira attorno all’evento di quell’abbraccio/bacio animalesco, definitivo miracolo senza epoca. La tensione sessuale che diventa attesa del bacio con l’ipotesi del bacio oscurata dalla caduta dei capelli di Mary, la tensione da batticuore dell’attesa dell’esplosione di violenza interrotta dall’esplosione dell’amore. First Reformed, se vogliamo essere sinceri con noi stessi, è già un punto d’arrivo fondamentale, è già classificabile come tale a prescindere dai possibili movimenti tellurici del cinema del futuro, è già lavoro di destrutturazione e riscrittura interna delle proprie ossessioni con (pre)potenza equipollente a quella con cui Lynch, l’altro grande destrutturatore del post-New Hollywood, sta conducendo Twin Peaks: The Return. Che sia in effetti paragonabile ai capolavori di Bergman, Tarkovskij, Dreyer e Bresson è un qualcosa che probabilmente non possiamo calcolare dopo la prima visione, prima che il film ci entri nella pelle scavalcando le nostre certezze e le nostre incertezze, superando le nostre convinzioni. Ma il suo impatto emotivo e cerebrale è innegabile, al punto da avere, a modo suo, un’ottica fondamentalmente post-storica come lettura del cinema stesso, la nostra cara settima arte, che: lietamente è trapassata, incivilmente zoppica, in amore.
Nicola Settis