24 Agosto 2017 -

THE CRUCIBLE (1957)
di Raymond Rouleau

I coniugi Rosenberg erano una coppia di comunisti di origine ebraica emigrati negli States. Sospettati di spionaggio in favore dell’URSS, furono incriminati, processati e condannati a morte. Il pesante clima del maccartismo offre la possibilità ad Arthur Miller di produrre una pièce teatrale che prendesse le mosse da quella vicenda, trasposta nell’altrettanto cupo clima della Salem del ‘600, in piena caccia alle streghe, una cupa ambientazione che rispecchia l’atmosfera tesa che si respira nella Hollywood di quegli anni. Con la sua pièce Miller tenta di dar voce ai coniugi perseguitati, ma la paranoia antisovietica è un mostro invincibile, e nonostante il clamore, entrambi i coniugi vedono chiudersi il proprio spiraglio sul mondo. Caccia ai comunisti contro caccia alle streghe: il paragone è palese, e presto di successo. L’eco della vicenda colpisce al cuore una buona parte della scena cinematografica mondiale. Anche ad esecuzione avvenuta, The Crucible rimane interessantissimo, tanto da spingere Simone Signoret e Yves Montard a riadattarlo per il cinema. Affidano la regia a Raymond Rouleau, loro collega e amico di vecchia data, e riescono ad appioppare a Jean-Paul Sartre i dialoghi (forse la parte più toccante e dolorosa del film, assieme alla magistrale interpretazione della coppia Signoret/Montard) e la sceneggiatura.

La trama attiene per molta parte i fatti accaduti nel vero processo di Salem: delle ragazzine e una balia di colore si incontrano la notte per preparare filtri d’amore e parlare con i defunti; pura goliardia, ma nel Massachusetts a maggioranza puritana dell’epoca tanto basta ad essere dichiarati satanici adoratori delle forze oscure, e come tali processati per stregoneria. Non che tutte le autorità del paese siano sprovvedute, tutt’altro; anzi molti di loro non credono nell’esistenza delle streghe, e tentano di sfruttare la situazione per proprio vantaggio politico (siamo poi cambiati così tanto, nel tempo?). Il reverendo Paris vuole strumentalizzare il processo per mettere a tacere tutte le voci contrarie al suo operato, il ricco Putnam utilizza le crisi mistiche della figlia per eliminare i suoi avversari politici, Abigail (Mylene Demongeot) tenta di porre fine al matrimonio dei Proctor per potersi poi risposare con John, suo vecchio datore di lavoro con il quale ha avuto un’avventura. Tutti hanno delle mire particolari, ma nessuno riesce a controllare l’effetto “palla di neve” della situazione, specie dopo l’arrivo del magistrato speciale inviato dalla città per guidare il processo. Gli spietati calcoli di ognuno vengono a scontrarsi con la credulità del giudice, che non esita a credere a qualunque manifestazione del sovrannaturale. Il confine tra realtà e finzione si frantuma, e in poco tempo Salem diventa una città fantasma, i cui cittadini impauriti si barricano in casa e sono pronti alla delazione. In un clima come questo, perfino tentare di comprare una bambola di pezza può essere considerato un atto di stregoneria passibile della pena di morte. I coniugi Proctor non credono a fantasmi e streghe, e sanno che il male si cela in modi molto più umani in mezzo alla gente.

John Proctor si trasforma da proprietario terriero a parabola platonica in un istante: lui è l’uomo della caverna che si affranca dalla cecità impostagli ad un livello di conoscenza superiore, che ritorna nel buio per liberare i suoi compagni di sventura. Sappiamo già dai tempi di Platone come termina la vicenda. Viene processato per stregoneria, condannato ed impiccato. I suoi seguaci si preparano alla battaglia pur di salvarlo, ma con uno stratagemma (dove arriva l’astuzia dello stolto che medita la distruzione) la folla viene stornata in altro luogo e l’inganno viene scoperto solo quando è troppo tardi. Proctor penzola dal cappio, Cristo al contrario, in mezzo a due vecchie. Seguiamo tutto il processo di questo Gesù-Nietzsche, che fin dalle prime fasi del processo, quando tenta inutilmente di smascherare il gioco di Abigail, manifesta tutto lo sdegno nei confronti di quegli insensati accusatori che con involontari ironia gli chiedono di confidare in Dio per far emergere la verità con un perentorio «Dio è morto».

La pellicola è pienissima di riferimenti: filosofici, artistici, religiosi. Tutto il processo di Proctor è una ‘via crucis’ che si snoda tra gli estremi del razionalismo e quelli della incomprensibilità. Il mondo interiore di Proctor viene sconvolto dall’assalto dell’irrazionale; i suoi modi di procedere ci paiono estremamente sensati, ma si scontrano con il kafkiano muro della credulità del giudice: procedendo per piccoli passi, piccole concessioni, si ritrova con la corda al collo senza poter fornire alcuna considerazione che possa riportare alla ragione il magistrato speciale. Soltanto Elizabeth, quando ormai è tardi e John è oramai deposto dalla folla adorante pronta a portarne il corpo in processione, un santo fresco di giornata,  riesce a scrollare il giudice dalle sue certezze. E lo fa sprofondare, con tutto il peso degli omicidi deliberati che ha compiuto. La regia segue la storia, si adatta, ma è quando Proctor viene portato al patibolo che diviene monolitica. Tutta la sequenza finale esplode di richiami cristologici e artistico-storiografici. Il corpo di Proctor viene adagiato su una barella, e inquadrato a partire dal dettaglio dei piedi, il resto fuori fuoco. Poi la camera lentamente si alza e si allarga, scoprendo il resto del corpo e guadagnando fuoco sulle figure di contorno; per un momento, Mantegna è davanti a noi. Entra Elizabeth alle spalle del magistrato, fiero di aver svolto il suo compito, immaginario martire del Bene. La camera apre su di lui, le genti attorno formano un corridoio mentre con movimento verticale ascendente prende spazio la oscura soglia da cui emerge un’accusatrice Elizabeth. Ciò che pronuncia non sono parole di vendetta, tutto ormai è perduto e Proctor è morto, ma di biasimo, pesanti come una condanna.

Siamo fuori dal portale della prigione, mentre il corpo in processione di Proctor viene portato via, la  camera in alto, a giudicare gli astanti. È un film che tormenta l’uomo, lo snuda nella sua bassezza e lo schiaccia sotto il peso del giudizio. E non viene escluso nessuno da questa colpa, tanto meno lo spettatore, colpevole, come tutti gli altri, di aver passivamente lasciato che una tragedia avvenisse senza muovere un dito. È uno spettatore colpevole, nella migliore tradizione esistenzialista, una riflessione sulla non innocenza del guardare, lasciando accadere il peggio. Spettatore e pioniere nel film godono dello stesso identico status: la colpevolezza di aver guardato accadere un dramma, senza penarsi d’intervenire.

Giordano Marconi

“The Crucible” (1957)
145 min | Drama, History | France / East Germany
Regista Raymond Rouleau
Sceneggiatori Marcel Aymé (translation), Arthur Miller (play), Jean-Paul Sartre
Attori principali Simone Signoret, Yves Montand, Mylène Demongeot, Alfred Adam
IMDb Rating 7.3

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