Nello scritto che segue, il sottoscritto si troverà costretto a usare personalismi, inglesismi e linguaggi tecnici di YouTube per descrivere un fenomeno che, più o meno alla lontana, riguarda il cinema. Ricordando lo schiaffo alla giornalista di Nanni Moretti in Palombella Rossa (1989) e il seguente «Le parole sono importanti!», chiedo a chiunque mi legga di seguire il discorso cercando di perdonare questo tipo di espressioni che utilizzo a malincuore.
Prima di entrare nel vivo, una piccola parentesi italiana. Di recente, Gennaro Nunziante, regista barese che è stato dietro alla macchina da presa per i primi quattro film con Checco Zalone (Cado dalle nubi, 2009; Che bella giornata, 2011; Sole a catinelle, 2013; Quo vado?, 2016), che hanno già consacrato l’attore tra i principali simboli della nuova commedia popolare all’italiana, ha affermato che, dopo aver iniziato la propria filmografia con dei film di tale successo di pubblico e di botteghino, ha deciso di mettersi alla regia di un film che si auto-definisce “flop”, un film che vuole essere un disastro. Questo film, che dovrebbe uscire l’anno prossimo, si intitolerà Il vegetale e avrà come protagonista Fabio Rovazzi, definito dal regista incapace a recitare, un giovane signor nessuno che recentemente è riuscito a scavalcare le classifiche della musica pop/rap/dance italiana con soli tre singoli: Andiamo a comandare, Tutto molto interessante e l’ultima Volare che, oltre a un featuring vocale dell’immortale Gianni Morandi, ha avuto successo per un video pieno di cammeo di personaggi prominenti della cultura pop-trash italiana. Rovazzi mischia umiltà e completa immodestia nel presentare la propria personalità, attraverso internet quanto attraverso la propria musica, in una vera e propria baraonda di auto-ironia che rischia un completo processo di spersonalizzazione, di perdita d’identità, e se la sua musica ha un fascino per il pubblico forse è anche proprio per questa sua capacità di stare perfettamente a metà tra la consapevolezza dei propri mezzi e la completa assenza di controllo sul proprio impatto. L’amicizia con due mezzi magnati nel genere rap come Fedez e J-Ax sicuramente lo aiuta, come anche l’aura di assenza di serietà che permea ogni sua canzone, da collaborazioni con Enrico Papi a sporadiche apparizioni negli spot della 3 accanto al cast di Stranger Things. Rovazzi, nel commentare il progetto di Nunziante, ha affermato: «Dopo aver completamente rovinato la discografia italiana mi sembra giusto rovinare anche il cinema». Se questa frase può nel contempo far sorridere alcuni per la propria evidente e ostentata ironia e far agghiacciare altri a causa dell’impeto distruttivo sottinteso, rimane il fatto che Rovazzi non ha ambizioni particolari, “sta nel suo”, fa canzoni, si diverte. È un giovane che ha trovato una maniera per fare soldi intrattenendo se stesso e gli altri senza moralismi o pretenziosità. La musica e il cinema sono comunque spesso visti dagli appassionati, come a volte il sottoscritto e certi miei colleghi, come delle sacre icone da non deturpare, delle idealizzazioni di quello che il mezzo artistico può raggiungere ai propri massimi livelli, ma buona parte della popolazione percepisce questi due mezzi, probabilmente i due mezzi artistici più consolidati da un punto di vista mediatico e commerciale, come un qualcosa che rimane nella superficie e che in essa deve permanere. E non c’è niente di male, in ciò: sono punti di vista, lati di una stessa medaglia. Rovazzi non è il nemico, e il suo essere protagonista di un film, che potrebbe essere brutto come no, non rovinerà nulla nel mondo degli appassionati del mezzo cinematografico, alcuni dei quali ormai hanno sviluppato un astio talmente alto (e forse ingiusto) nei confronti del genere commedia italiana, tra i Cinepanettoni e i loro derivati, da non avere niente da ricavare dal prossimo film di Nunziante, sia esso orribile o perla involontaria del genere. Oltremare, tuttavia, c’è un personaggio che, in un certo senso, in maniera strettamente teorica e assolutamente non mediatica o produttiva come il nostrano Rovazzi, sta davvero facendo di tutto per rovinare il medium-cinema e il medium-musica, probabilmente non volendo, ma lo sta facendo: costui è Jake Paul.
Non è la prima volta che il sottoscritto si mette a scrivere di cinema riferendosi a un qualcosa che è considerato anti-cinematografico come la più grande piattaforma video su internet mondiale, ovvero YouTube: in precedenza infatti ho voluto parlare di un lavoro di destrutturazione tragicomica del medium del sito scrivendo di George Miller, omonimo giappo-australiano del regista di Mad Max, che con gli pseudonimi di Joji e Filthy Frank ha prodotto una serie di video umoristici e parodistici con retrogusti disgustosi e pseudo-esistenzialisti, e come riferimento ho preso quello che rimane a mio avviso il suo video più geniale, 100 Accurate Life Hacks. Ma è giusto ribadire che YouTube è diventato, soprattutto per i più giovani, una piattaforma d’intrattenimento di riferimento assoluto, in cui chi lavora comunque appartiene a un sistema lavorativo magmatico, in continua evoluzione e in continua collimazione con altre idee artistiche (musica, cinema, video-arte, etc.): mantenendosi solo sui nomi importanti a livello internazionale e quindi senza navigare anche tra i più piccoli “videomaker” di YouTube italiani, possiamo ad esempio dire che George Miller ha anche una carriera da musicista con due pseudonimi, Pink Guy con cui fa musica satirica e Joji con cui fa musica romantica, rimanendo sempre nell’ambito del rap e delle sue degenerazioni elettroniche e cloud-chill; o anche che lo “youtuber” con più iscritti, PewDiePie, ha scritto un libro e ha collaborato con la Maker Studios, succursale della Disney, per una webserie; e soprattutto che il sito ha aperto una sua sottocategoria a pagamento chiamata YouTube Red sulla quale sono inserite mini-serie di vari generi, dal documentario all’umoristico, messe in atto da individui che si sono creati una carriera dal nulla e che ora grazie a internet sono diventati vere e proprie star, dalla compagnia giornalistica BuzzFeed a Michael Stevens di Vsauce, educatore e appassionato di scienza che sta diventando una specie di sostituto digitale di quello che era Bill Nye negli anni ’90. Insomma, ci pare giusto ricordare che una piattaforma video digitale come YouTube, per quanto possa essere ampia e lontana dalla professionalità che il cinema richiede da un punto di vista produttivo (o lontana dalle necessità di sperimentalismo e innovazione che il cinema richiede per procedere e per cambiare, rivoluzionarsi attraverso gli anni), necessita una sorta di commento, una sorta di spazio: si tratta pur sempre di immagini in movimento, e dunque automaticamente o involontariamente si tratta pur sempre di un intrattenimento di tipo mutevole che necessita analisi. Inoltre, come il cinema ma più velocemente del cinema, è un medium che sta cambiando: il succitato PewDiePie, pur rimanendo sempre in cima alla lista delle celebrità del sito di grandissima lunga, sta perdendo parte del suo pubblico a causa di una (ammessa e consapevole) crisi creativa di riciclaggio del contenuto, e il drastico cambiamento del suo senso dell’umorismo sempre meno politically correct ha decisamente influito su ciò portandolo anche a essere (ingiustamente) accusato di filonazismo per un paio di innocenti e superficiali battute satiriche sulla scia di Filthy Frank o, allontanandosi da YouTube, di South Park o degli altri progetti di Trey Parker e Matt Stone. Inoltre forse è anche necessario ricordare che YouTube non è l’unica piattaforma video online: a parte Dailymotion e Vimeo, che hanno scopi decisamente opposti, ci sono i social network, come Facebook, Instagram e Vine, che hanno partorito una serie di canali d’intrattenimento che hanno adoperato le potenzialità di diffusione dei rispettivi mezzi per cercare (e trovare!) popolarità e spazio all’interno del meccanismo. Con la chiusura di Vine e le strette polizze di censura e “fair use” di Facebook, molti dei videomaker (ormai, chiamiamoli così…) legati a questi due social network si sono spostati su YouTube, cercando una specie di oasi (relativamente) più libera. In particolare, l’esempio che sto prendendo oggi è quello di un “viner”, ovvero di una persona che ha cominciato la propria carriera su Vine, un social network, che non ha mai avuto un vero successo in Europa, la cui idea di base sostanzialmente è quella di fare video di durata massima di 7 secondi, sfidando dunque i suoi membri a riassumere il proprio estro comico in una durata ristrettissima. C’è chi ci riesce e chi meno, probabilmente, e forse tra quelli che ci riescono c’è Chelcie Lynn, che si è creata un rozzo personaggio femminile rozzo e redneck che l’ha portata ad avere il ruolo di Sheila, la compagna di Willem Dafoe, in Cane mangia cane (2016) di Paul Schrader, da sempre lucido autore di riflessioni sul mezzo del cinema e sulle sue evoluzioni e involuzioni, come tale film spesso dimostra in maniera goliardica e pulp. Ma l’esempio che vorrei prendere oggi è appunto quello citato nel titolo e alla fine del paragrafo precedente, ovvero Jake Paul.
Jake Paul è nato in Ohio nel 1997, ed è il fratello minore di Logan Paul, classe ’95, diventato celebre su Vine prima di lui. Si sono costruiti una carriera basata all’inizio su una commedia fisica e slapstick spesso atta a mettere in risalto i loro corpi palestrati e la loro energia scoppiettante, sempre proponendosi come “i buoni” in ogni situazione, quelli che aiutano gli altri e incitano alla positività. Con la chiusura di Vine e lo spostamento su YouTube, entrambi hanno cominciato una carriera anche attoriale: Logan ha avuto un piccolo ruolo in Law & Order: Special Victims Unit nel 2015 e Jake è stato uno dei protagonisti della sitcom Disney per bambini e ragazzi Bizaardvark a partire dalla sua prima stagione nel 2016. Jake è sempre stato, insomma, un po’ l’ombra di suo fratello, ma stanno crescendo insieme, sia come attori che come comici, da un punto di vista di pubblico: milioni di visualizzazioni, milioni di iscritti ai loro canali. La logica di YouTube gira attorno a questi due poli: iscrizioni e visualizzazioni. E da questo punto di vista, i rispettivi canali di comunicazione dei due fratelli sono in continuo sviluppo. Le controversie legate a Jake sono iniziate principalmente intorno all’inizio di quest’anno, quando il più giovane dei biondi fratelli Paul ha fondato un gruppo chiamato “Team 10” insieme ai propri amici, con l’idea di base di produrre musica e video insieme. Da lì in poi, lo stile video di Jake Paul si è suddiviso in tre principali sottocategorie: il video musicale con le sue canzoni insieme agli altri membri del Team 10 o insieme al fratello, con alto budget, macchine da presa di buona qualità, tagli di montaggio e riprese col drone; i meno frequenti video-prank, in cui sono messi in scena scherzi, veri e soprattutto finti, al fratello, ad amici, alla ragazza o a perfetti sconosciuti; e i VLOG, ovvero video-log o video-blog, semplici narrazioni della vita di tutti i giorni in uno stile simil-documentaristico che spesso include anche spezzoni di video-prank – ed è questo il formato che più ci concerne. Tutto è comunque integrato in uno stile egocentrico, narcisistico, autocelebrativo ma soprattutto isterico in questo crescendo edonista di superficialità in continuo conflitto. Basti vedere il video introduttivo del canale, semplicemente intitolato “THIS IS JAKE PAUL“, compilation delle più esplicite assurdità degli altri video di Jake Paul, per capire: Jake che scia tra le pozzanghere legato a una macchina in corsa spruzzando acqua sporca sui passanti, spara a macchine costose in mezzo al deserto, si tatua un fucile sulla gamba, palleggia una palla da basket in mezzo alle macchine creando traffico e confusione, fa casino per strada irritando i passanti, va in motocicletta rumorosamente, si vanta di essere «savage» (in italiano la traduzione più immediata è “selvaggio”, ma forse in questo caso bisogna intenderlo più come “feroce”, esplicito, senza peli sulla lingua, coraggioso). Il 30 maggio 2017, sul suo canale Jake Paul ha caricato un video rappresentante quello che dovrebbe essere il suo singolo più rappresentativo e di punta: It’s everyday bro, suo motto, canzone rap cantata insieme ad altri membri del Team 10 (Nick Crompton, Chance, i fratelli Martinez e Tessa Brooks). In poco tempo, la canzone ha raggiunto quasi 80 milioni di visualizzazioni, ma principalmente con effetti negativi sugli ascoltatori, diventando il settimo video con più “non mi piace” di tutto il sito. Questo perché, forse, anche il pubblico più becero si è reso conto che l’hip hop, piaccia o meno, è una manifestazione di una cultura e di una sottocultura anarchiche e grezze, e che non dovrebbe essere sfruttato in maniera così superficiale da un giovane privo di talento che ne sfrutta i ritmi per vantarsi della ricchezza della propria quotidianità, peraltro con scelte di vocabolario opinabili e ignoranti, sia da parte sua sia da parte dei suoi colleghi e amici – “flip” al posto di “fuck” per non farsi licenziare dalla Disney, e svariate altre cose tra le quali la più memorabile è pronunciata dal britannico Crompton che dice «England is my city», frase di un’idiozia talmente sbandierata da essere diventata immediatamente un tormentone. Ma i fratelli Paul si sono arricchiti, sia a livello di esperienza sia a livello di conoscenza del mezzo, e hanno superato questo fallimento musicale continuando a produrre musica e video quasi come se niente fosse. Jake Paul, in tutto ciò, ha inserito il proprio indirizzo a Hollywood su Twitter e su Google Maps (segnato come “Team 10 house”: ci abita insieme agli altri membri del gruppo), e la dimora è diventata subito un centro d’attrazione per fan e ammiratori di vario tipo. Ciò ha portato Jake a sfoggiare il massimo della propria immaturità, in una serie di esibizionismi rumorosi che hanno portato a svariate telefonate alla polizia e al coinvolgimento dei canali di reportage televisivo californiani, attraendo l’attenzione su di sé come protagonista di un immorale (e illegale) caso in cui l’auto umiliazione e l’auto celebrazione vanno a passeggio nella direzione di una denuncia per disturbo della quiete pubblica. «Facciamo tutto in casa, niente di quello che vi dicono i media e i TG è veritiero!» dice Paul in un video in cui mette in scena un proprio finto arresto solo per manipolare il pubblico e insegnare una lezione, con nel momento del disvelamento dell’illusione un’inquietante scena in cui Jake, ammanettato mentre guarda gli altri membri del Team 10 fuori dalla porta di casa sua, canta It’s everyday bro iniziando con loro un coro che sembra un ossessivo richiamo rituale e animalesco, quasi come in una setta massonica; però nel frattempo ci sono appunto questi cori, le abbaglianti luci blu e rosse delle preoccupanti macchine della polizia, e ci sono video di giornate passate in cui Jake e gli altri urlano per le strade, salgono su furgoni, guidano motociclette per strada sgommando, si fanno fare foto con i fan, mettono musica ad alto volume, svuotano la piscina per riempirla di mobilia e dare a essa fuoco, creando fiammate che superano l’altezza della casa – insomma, prove tangibili della falsità della sua affermazione. E tutto ciò in un rispettabile e imborghesito vicinato losangelino, trasformato in un incubo pop come quello di Project X (2013).
Cosa c’entra, in ciò, il cinema? Beh, innanzitutto, una cosa interessante può essere semplicemente il mezzo del VLOG di per sé, una specie di involontaria evoluzione commerciale del video-diario di Pincus, in cui la documentazione della vita smette di diventare un tentativo catartico e intimo di documentare la realtà attraverso un punto di vista personale e diventa una putrefacente messa in scena di una specie di pubblicità della propria vita, atta apparentemente solo a creare un completo distacco: la sua vita è un eccitante videoclip pieno di sorprese e divertimento, mentre quella di chi vede i video è una vita blanda e stolta, noiosa, in cui l’unico appiglio a questa realtà è in effetti la visualizzazione del video. Tuttavia, ciò implica (per tutti i “vlogger” ma maggiormente per Jake Paul, che mette un video o più al giorno sul sito), un’incoerenza di fondo profonda: se tutto ciò che viene vissuto viene anche filmato, peraltro interpretando un personaggio energetico e isterico che è poco credibile e poco realistico, la vita di fondo è vissuta davvero come un flusso televisivo, non-vitale e non-cinematografico, insincero. Un flusso che peraltro esclude dalla propria messinscena le lunghe sessioni di montaggio che sicuramente Jake Paul vive ogni giorno nel dover rendere i propri video i più appetibili possibile per il proprio pubblico di giovanissimi, presentandoli come ben confezionati nella loro ripetitività. Ma la cosa più inquietante e interessante forse dell’intera operazione è l’aspetto legale e morale legato alle conseguenze dell’apparenza mediatica di Paul come “nemico del vicinato losangelino” negli occhi dei telegiornali, che si può scandire in tre fatti: 1. Jake Paul è andato personalmente a scusarsi con i vicini, nel frattempo filmando da lontano le scene (con indirizzo ben in vista) e indossando un registratore audio; 2. Vedendo che il cantante rap Post-Malone, che ha da sempre detto di disprezzare la sua musica, ha (con esplicita ironia) acquistato magliette ufficiali della musica di Jake, lo youtuber è andato personalmente a casa sua, filmandone l’esterno e invadendo la privacy del musicista solo per portargli le magliette e chiedergli cosa ne pensa di lui; 3. In un VLOG, con un approccio finto-serio misto a goliardia minacciosa, Jake Paul ha detto che le ruote del camper ufficiale del Team 10 sono state svitate causando un quasi-incidente in cui altri membri del gruppo hanno apparentemente rischiato la vita, e ha accusato di ciò i propri vicini, dicendo che hanno tentato di ucciderlo. In un post-scriptum, possiamo anche dire che tutta questa concatenazione di eventi ha portato Paul a essere licenziato dalla Disney, perdendo il posto di lavoro come attore in Bizaardvark. Le interessanti riflessioni che possono scaturire da ciò innanzitutto possono legarsi a una semplice conclusione: citando Anna Oxa, Jake Paul “non vive più la realtà”. Tutto, per lui, è asservito al mezzo del video, alla popolarizzazione e al marchio digitalizzato della propria quotidianità, spogliata di qualsivoglia impatto sul mondo reale, come se fosse solamente un gioco di pixel e confusione spersonalizzata. Lo si può accusare di immaturità, forse, ma ha ormai 20 anni e non più 14 – al che, però, fatto interessante: dopo la pubblicazione di It’s everyday bro un coetaneo su Twitter ha condiviso la canzone scrivendo come didascalia qualcosa sulla scia di (traducendo) «Mia mamma, quand’ero piccolo, vedendomi depresso, mi diceva: “È un bullo, non andrà da nessuna parte”. Ecco dov’è arrivato ora il bullo che mi assillava all’epoca». Comunque, un altro fattore di interesse si può notare nel fatto che, nell’ottica di Jake Paul, non è la vita a influenzare il medium-video, e la vita neanche compone il medium-video, la vita e il medium-video sono due entità forzatamente separate, e lo stile finto documentaristico del VLOG non è che un pretesto per cercare di dimostrare, nella propria routine, una spettacolarità stereotipata più vicina a quella dei film di Fast & Furious. Se non fosse così, perderebbero di significato i ralenti che accentuano l’ascesa alla fama (con implicite cafonate a sfondo sessuale) di Paul; e la sua incapacità di scindere l’autorità dei media di diffusione di notizie dalla propria autorità in quanto “artista” e “comico” sui generis lo porta a un’incoerenza fondamentalmente sbagliata nell’atto di sondaggio della realtà: la denuncia avviene attraverso la macchina da presa, la minaccia pure, e pure l’annuncio di carenza di fiducia nel confronto dei media, con l’ambizione di sostituire i media stessi. Il voyeurismo fa il cerchio, e diventa un osservare se stessi: il malinteso della realtà sconfina verso lidi sconosciuti, in una sorta di avventura in cui l’autoconvinzione della propria assenza di limiti diventa patetico promemoria di un fallimento dell’immagine, che smette di vivere proprio nel momento in cui maggiormente dovrebbe esprimere vita, speranza per il futuro, gioventù. Tutto poi si riduce a un gioco di psicopatia, in un folle magna magna catastrofico e privo di significato, in cui non c’è spazio per la maturazione, in qualsiasi direzione, in un culto dell’immagine purificata che è solo e soltanto maschera ridicola della tragedia implicita.
Tirando le somme, certamente Jake Paul non è il primo giovane ad arricchirsi e a sfruttare i soldi per divertirsi. E non è quell’aspetto a dover essere condannato, sennò probabilmente il nostro apprezzamento nei confronti di film come Spring Breakers (2012) sarebbe completamente ipocrita e fuori luogo, e tutta questa riflessione sarebbe frutto di banale moralismo. Il problema non è neanche l’immoralità o l’illegalità delle sue azioni, che alla fine sono cose legate a un confronto che lui deve effettuare nella propria realtà, e che non concerne gli spettatori. Il problema è che il medium di YouTube, nato quasi come uno scherzo ma poi diventato un colosso del commercio e della diffusione audiovisiva al punto da meritare uno spazio di riflessione anche cinematografica e un pubblico forse più intenso e appassionato del pubblico televisivo, sta già deflagrando, nella direzione di un’autodistruzione definitiva. E non è Rovazzi, con il suo senso dell’umorismo adolescenziale e la sua commercializzazione, a far parte di ciò; ma Jake Paul sì, in quanto è dimostrazione vivente di questo senso di fallimento, di questo bombardamento di immagini che sconfinano nell’annullamento dell’ego, e soprattutto nell’annullamento dell’immagine dell’ego, che a volte pare più importante. Senza immagine, Jake (e probabilmente pure Logan) diventerebbero solo dei fantasmi in cerca di uno spazio, in cerca di un qualcosa che possa pompare la loro sicurezza nei confronti di loro stessi, in cerca di un nuovo tormentone. Insomma, Jake Paul è l’ennesimo esempio di una cristologicizzazione dello star system, forse mai così evidente, ma soprattutto forse mai così effimero.
Nicola Settis