“Un’Europa di Stati indipendenti e di popoli liberi è condizione della pace, della libertà e dell’indipendenza per il nostro Paese, non più dominato dall’hitlerismo e non più circondato di popoli frementi di odio e di rivolta, ma di popoli amici interessati alla comune prosperità. L’alto tradimenti di Mussolini ai danni del Paese deve cessare. L’unione del Popolo ha in se stessa gli elementi di forza e di decisione capaci di conquistare la pace e di assicurare l’indipendenza della nazione, la libertà dei suoi figli, il pane dei suoi lavoratori. Noi antifascisti siamo stati a volte distanti dalla valutazione di particolari problemi e situazioni. Oggi, fraternamente uniti per la più santa delle cause, vogliamo concorrere allo sforzo comune per abbattere le barriere che separano fra loro gli italiani, di ideali, di classe, di partiti politici, di religioni diverse, perché tutti hanno in comune l’amore della libertà e della pace, l’amore del loro Paese. Rivolgiamo l’appello alle correnti liberali, democratiche, cattoliche, ispirate da ideali di libertà e fraternità. Ci rivolgiamo anche a tutti coloro che non vogliono più oltre sopportare la terribile responsabilità della politica dell’attuale governo fascista, a tutti coloro che, ingannati dalla propaganda fascista, aprono gli occhi alla realtà, alle grandi masse giovanili che si destano alla coscienza politica di questo tragico momento della Storia italiana”.
Comitato d’azione per l’unione del Popolo Italiano, Appello di Cabirol, Tolosa, 1941
Tiresia l’indovino, che visse per sette generazioni e che nemmeno nell’Ade perse i suoi poteri di prevedere il futuro. Tiresia l’edonista, che ha conosciuto ogni tipo di piacere e lo ha negato ai serpenti. Ma anche Tiresia il cieco, proprio come la cecità imperdonabile che sta intorno al cinema del talentuoso regista ravennate Daniele Pezzi, la cui opera prima Roads ending giace ormai da anni nel limbo dei film pressoché invisibili, ignorato o quasi dai Festival e difficile da scoprire persino per gli addetti ai lavori, e pure questo Tiresias (Un personaggio in tre corpi) ha avuto lunga gestazione e ancor più lunga attesa prima che la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, oasi felice quasi miracolosa in un mondo festivaliero dal retrogusto sempre più stantio, lo selezionasse fra i film presentati nella sezione Satellite, insostituibile vetrina, occasione d’incontro e fucina creativa per tutto quel sottobosco italiano che ancora sa osare, con pochissimi soldi e molta passione, con le immagini e con le lingue filmiche. Esistono almeno due versioni del mito sulle cause della cecità di Tiresia, punito da Era per aver svelato i segreti femminili a Zeus oppure da Atena per essersi spinto troppo oltre con la vista incrociandola nelle sue nudità, ma non è tanto la pre-visione – vedere prima per vedere oltre – in luogo della visione l’aspetto del personaggio mitologico che interessa a Daniele Pezzi, quanto Tiresia che muta corpo, Tiresia che è stato sia uomo sia donna, Tiresia che costantemente si ridiscute, sperimenta, vive in prima persona. Fino, magari, a rendersi conto di essere un personaggio di finzione, che non è mai esistito eppure si propaga per culture millenarie.
Tiresias (Un personaggio in tre corpi) è prima di tutto la costante ricerca di identità in un occidente sempre più di margini e di confini ormai desueti, inutili e polverosi, dove l’uomo è centrale eppure drammaticamente relegato da quella società che egli stesso si è costruito attorno. Tiresias è una fotografa che vaga con la sua Hasselblad, occhio meccanico che incapsula il reale rendendolo illusione, mentre torna dalla natura incontaminata verso la (in)civiltà dell’uomo; Tiresias è un/una transgender, simbolo stesso della mutazione, del ridisegnarsi, della ricerca di identità, ignorato/a mentre il mondo intorno a lui discute di democrazia e integrazione; Tiresias è un contrabbandiere senza volto, ormai conscio della sua natura di finzione e della sua condanna all’eterno vagare, all’eterno mutare corpo e situazioni, all’eterno doversi adattare magari anche al di là della legge, all’eterno attraversare la frontiera ormai abbandonata sui Pirenei, confine senza (più) confine dove le bandiere ormai scolorite della Francia e della Spagna ricordano quanto sia insensato dividersi, e al contempo quanto siano illusorie le prospettive di un’Europa e di un occidente uniti nel momento in cui è l’autodeterminazione dell’individuo a essere venuta meno. Daniele Pezzi mette in scena un film di effimeri mostri solitari, di spaventapasseri lynchani destinati a svelare la loro natura umana, di impersonali creature acefale che gesticolano e si atteggiano, di incubi reconditi destinati a trovare corpo proprio nelle trasformazioni di chi ne ha paura. Si interroga apertamente sull’Europa, Tiresias, sull’occidente, ma anche e soprattutto sul rapporto fra realtà e finzione, perché, come diceva Godard, il cinema è verità a 24 fotogrammi al secondo, e forse è in questo senso proprio la finzione il modo migliore, se non l’unico modo, per rappresentare il vero cogliendone e svelandone la reale natura. Nella sequenza in biblioteca, fra i libri rivoluzionari di Victor Serge e il Dizionario d’Anarchia di Michel Ragon, magari inframezzati da un trattato d’arte di Victor Stoichita, si parla di democrazia come rappresentazione, in un dialogo ricostruito in audio dallo stesso Pezzi in odor de La cinese nel momento in cui la realtà degli studenti di scienze politiche di Tolosa, superficiali al punto di decidere di non registrarne le conversazioni, era troppo banalizzata per essere sufficientemente “vera”. In questo modo, con la brillante intuizione di inquadrare le mani al posto dei volti facendo poi ascoltare parole altrui accuratamente selezionate e filtrate, Pezzi sfrutta l’illusione della finzione come veicolo per una realtà-altra, quasi come se la realtà, quella più intima, si truccasse (anche letteralmente) da finzione per poter emergere nella sua purezza: è il potere del cinema, atto che concretizza quella stessa rappresentazione di cui si parla nei comizi trasformati in dialogo/riunione, mentre il/la protagonista si ritrova ancora una volta solo/sola persino al centro di un collettivo.
Non è certo un caso che il cuore del film, la sua parte centrale, sia ambientata e girata a Tolosa, la patria antifascista, dove già nel 1941 con l’appello di Cabirol si organizzava il Comitato d’Azione per l’unione del Popolo italiano, proteso alla pace separata, al rovesciamento di Mussolini, alla libertà da ogni forma di oppressione. Un luogo simbolico, come fortemente simbolico e straordinariamente stratificato e complesso nella sua apparente semplicità (anti)narrativa è tutto l’impianto di Tiresias (un personaggio in tre corpi), sorta di perfezionamento di Roads ending, con il quale sono molti i fili di collegamento. Prima di tutto ci sono i tre attori/protagonisti, separati e interlacciati dal montaggio nel film precedente, eterne rivoluzioni in costante divenire dello stesso corpo che si passano il testimone in Tiresias. C’è poi la centralità del viaggio, un Canada/non-luogo sempre più incontaminato e contrastato nel precedente e anglofono lavoro, una Francia che parla in francese e ben definita nei suoi spazi, ma altrettanto contrastata e di valenza paradigmatica per l’occidente tutto, in questo. Come sono le medesime le tematiche di riferimento/ossessione, dalla complessità del rapporto natura/uomo/civiltà alla costante ricerca di identità come processo circolare di (im)possibile disvelamento, dalla progressiva marginalizzazione dell’individuo al limitare fra realtà e finzione, dalla crisi dei valori e degli ideali a una lucida riflessione che sa essere al contempo esistenziale e politica. Tiresias è un film di costanti indefinitezze, di domande che non riescono a trovare risposta univoca, di personalità senza volto e di volti senza personalità. È un film di margini percettivi e di emarginati, di esiliati più o meno volontari e di ritorni, di riflessioni sull’uomo, sulla natura, sulla società, sulla politica, sul viaggio come immersione e non certo come mero spostamento, ma anche sul cinema, sulla sua immagine, sulla sua capacità evocativa, sulla sua (non) narrazione, sulla sua capacità di scardinare la coscienza.
Nulla è monolitico, in Tiresias (un personaggio in tre corpi), ma tutto è in divenire, da plasmare costantemente. Come appare ormai anacronistico il confine pirenaico fra i due Paesi uniti da Schengen, così si lima ogni confine, di sesso, di classe sociale, di appartenenza. Tiresias è il geniale reverse che riattacca la barba a chi si sta radendo nel suo passaggio da uomo a donna reso come passaggio da donna a uomo perché nulla è definitivo, è l’umanità marginalizzata che costantemente si ridiscute, è una società ormai distrutta, che non crede più nemmeno alle proprie rivoluzioni, che non riesce a vedere nemmeno il proprio volto, relegato fuori campo o radicalmente modificato dal trucco, nascosto da un sacco di iuta o perso in quegli stessi campi lunghi che immortala sulla pellicola a grande formato. Nel suo costante mutare e ridefinirsi, il personaggio in tre corpi è continuamente costretto ad adattarsi ai cambiamenti culturali e sociali, e forse neppure il cambiamento di sesso è reale ribellione o l’aver trovato una propria via definitiva, ma piuttosto un’autoanalisi, una riflessione sulla propria natura mai realmente definita, costantemente a disagio in una società marcescente nelle sue promesse di giustizia e libertà non mantenute e ormai accantonate, se non addirittura dimenticate. È un viaggio multiforme e mutaforma, Tiresias, un film di illusioni infrante e di quotidiana repressione. È un affresco cinematografico estremamente denso, pervaso di sensi, di adattamenti, di solitudini anche al centro di una sagra paesana, di schiettezza e lucidità politica, dall’ipocrisia della democrazia partecipata in un dibattito che non esiste (più) al fallimento di una società ormai distrutta, autoreferenziale, alla quale non possiamo fare altro che cercare di adattarci per tentare ancora di sopravviverle. Già, sopravvivere. L’ultima forma di Resistenza che ci è rimasta.
Marco Romagna