14 Luglio 2017 -

UNA STORIA VERA (1999)
di David Lynch

Nel 1997 uscì Strade Perdute, un nuovo inizio per il cinema di David Lynch, una metamorfosi mai così frammentaria della sua idea di narrazione e di doppi freudiani. Un flop per pubblico e critica che portò alla leggendaria e indimenticabile locandina che sopra il titolo portava la frase «Two Thumbs Down? Two more reasons to see…» (“Due pollici in giù? Due ragioni in più per vedere…”). Chi, vedendo Strade Perdute, aveva pensato a un ‘unicum’ nella filmografia di Lynch, si era indubbiamente sbagliato poiché con Mulholland Drive e INLAND EMPIRE il regista di Missoula ha continuato una ricerca narrativa, psicanalitica e metacinematografica in continua evoluzione teorica e emotiva, ma poteva essere all’epoca comprensibile non riuscire a prevedere questo proseguimento del suo cinema, soprattutto in luce del film che Lynch ha portato sul grande schermo a fine secolo: Una storia vera infatti è un inaspettato ritorno a una visione bucolica, pastorale e primitiva dell’America, inedita nell’immaginario degli Stati Uniti che Lynch ha sempre voluto mettere sullo schermo da Eraserhead (1977) in poi. In particolare le prime due stagioni di Twin Peaks avevano consolidato nell’universo omnicomprensivo collettivo del cinema di Lynch un’idea di profonda marcescenza etica nei meandri dell’apparenza estetica dei piccoli paesi dell’America settentrionale, partendo da un’allegoria spiegata in maniera forse più surreale da Velluto Blu (1986) e proseguita da un punto di vista strettamente mentale in Strade Perdute: nei 10 anni abbondanti passati tra un film e l’altro, forse è cambiata anche l’idea di cinema di Lynch, passando da un’idea di voyeurismo che corrompe il corpo a una che invece lo estetizza, in una logica che sembra sempre di più essere, in particolare considerando Fuoco cammina con me (1992), quella di una riflessione sull’accettazione del demone dello sguardo cinematografico e televisivo sempre in agguato sull’intimità del personaggio fittizio. Questo tipo di riflessione in Una storia vera sembra quasi essere eliminato, sostituito da un umanismo che ha poco o nulla di cerebrale e che si fonda solo e unicamente sulla leggera purezza di un tentativo di restituire all’uomo i tempi e i colori di una vita che il cinema tende a non rappresentare con così poca corruzione da parte della Storia. Mai forse nel cinema americano si era vista una visione delle distese rurali statunitensi con così poca violenza o così poca depressione, così poca durezza o così poca guerra.

Una storia vera sfortunatamente non è un titolo adatto per questo film, o, per essere precisi, pur essendo il film tratto da una storia vera, non è potente è geniale quanto il titolo originale: The Straight Story, infatti, è un ‘double entendre’ che si riferisce non solo al protagonista Alvin Straight ma anche al significato della parola inglese “Straight”, che vuol dire dritto, diritto, lineare. Difatti, nel 1994, Alvin, saputo che il fratello Lyle, che abitava a quasi 200 miglia da lui, aveva appena avuto un infarto, decise di andare a trovarlo, ma non essendo nelle condizioni fisiche per guidare ha deciso di raggiungerlo con un lentissimo tagliaerba, di velocità all’incirca sulle 5 miglia orarie. Nel 1996 Alvin è morto per cause naturali. Lynch con questo film l’ha riportato in vita a partire da una sceneggiatura scritta dalla sua compagna dell’epoca Mary Sweeney, addetta al montaggio di svariati suoi film (tutti quelli prodotti da Fuoco cammina con me a Mulholland Drive). Ha riportato in vita la sua lotta contro il tempo e contro la malattia e la sua necessità di ristabilire un contatto con il valore familiare. Alvin è stato interpretato da Richard Farnsworth, all’epoca principalmente noto per il ruolo dello sceriffo Buster McCain in Misery non deve morire (1990) di Rob Reiner: Farnsworth per questo film fu nominato all’Oscar, e dopo una lunga lotta con il cancro alla prostata, l’attore si suicidò con un colpo di fucile nell’ottobre del 2000. Insomma, l’unica oscurità nel sottobosco narrativo dell’operazione di questo film non è riscontrabile all’interno del film bensì nel reale, il che in un certo senso sottolinea certi aspetti del cinema di David Lynch che è sempre pronto a mistificare la realtà e a trarre ispirazione da essa nel creare incubi simbolici e metafisici. Fatto sta che questo forse l’unico caso nella sua filmografia in cui l’incubo metafisico si è manifestato fuori dal film e dopo il film, il che a suo modo è un agghiacciante riprova di come ogni film di Lynch possa avere in sé un qualche pessimismo tragico nonostante esso non possa risultare dall’operazione cinematografica di per sè. The Straight Story è stato co-prodotto dalla Asymmetrical Productions insieme a StudioCanal e a Canal+, ma è principalmente noto per essere l’unico film di Lynch ad avere tra i produttori anche la Disney Pictures, dimostrando come questo sia probabilmente l’unico prodotto nella sua filmografia a richiedere un pubblico davvero ampio, ancora più di The Elephant Man (1980) e Dune (1984). Questo perché è impossibile non commuoversi di fronte a The Straight Story ed è impossibile non vivere come una profonda analisi dell’interiorità questo road-movie, che va da Laurens in Iowa a Mount Zion in Wisconsin con una lentezza strabordante che riempie lo schermo per la propria umiltà con lo stesso ritmo paesano che caratterizza il lirismo di Ernest Hemingway. Come dice Roger Ebert, che evidentemente quasi tre lustri dopo aver criticato aspramente Velluto Blu aveva capito che in realtà Lynch è un grande regista, il film riesce a trovare una condensazione di poesia e verità nei piccoli dettagli, siano essi in primo piano o in sottofondo, siano essi nella struggente e indimenticabile musica di Angelo Badalamenti o nella fotografia di Freddie Francis, che ricorda quella dei primi film di Terrence Malick quando ancora il suo cinema era una riflessione sugli spazi americani del passato nella nuova Hollywood e non un riferimento alla digitalizzazione spirituale della vita e dello sguardo umano nell’epoca postmoderna. La figlia di Alvin, affetta da problemi di disabilità mentale-intellettuale, è interpretata da Sissy Spacek, grande attrice che ricordiamo sia per La Rabbia Giovane (1973) sia per Carrie (1976) di De Palma e che è dal 1974 sposata con Jack Fisk, scenografo che ha collaborato con Lynch sin da Eraserhead in cui aveva un piccolo ma importante ruolo; il fratello Lyle invece è interpretato da Harry Dean Stanton, uno dei più grandi attori americani di sempre, capace in ogni film di immedesimarsi completamente in piccoli ruoli, grotteschi, tragici o comici, svanendo tra le vene del film – anch’egli già apparso in film di Lynch, per la precisione Cuore Selvaggio (1990), Fuoco cammina con me (1992) e Hotel Room (1993), e poi tra i protagonisti dell’immenso cast della terza stagione di Twin Peaks, con prima apparizione nel bellissimo sesto episodio.

Ma cosa c’è dunque di Lynch in The Straight Story? Eliminata la complessità narrativa, il film si muove sui binari di un viaggio-esperienza da percepire in una sola seduta, tanto da portare il regista a non inserire l’opzione “selezione scene” all’interno del DVD, cosa che fece pure per Mulholland Drive anni dopo. E un altro grande pregio di questo film è la capacità di Lynch di restituire umanità ai personaggi di contorno costruendo dunque un’idea di America sempre scomposta e sempre disillusa ma in continua ricerca di un qualcos’altro, sia esso una direzione precisa o una soluzione a problemi intimi o uno sguardo rivolto verso il cielo, verso le stelle, verso un Iperuranio in cui però l’onirismo delle idee è sostituito da una meraviglia illogica senza risposta con poco di divino, nel senso stretto del termine, ma molto di spirituale. È un film familiare senza essere reazionario, senza appartenere a un’idea repubblicana di famiglia americana; ma appartiene comunque al genere detto “Americana”, l’epica campagnola statunitense con cui Lynch ha sempre giocato attraverso l’approccio surrealista, senza troppa retorica, poiché essa è sostituita dal grande desiderio di cercare di capire l’altro, cercare di capire il desiderio dell’altro e cercare di capire come il desiderio dell’altro si può tradurre in sentimento stretto. È emotivo fino ad essere incantevole e inspiegabile. Con questa messa in scena di un mondo che, rallentato, rivela la sua vera natura e la sua meraviglia, il film risulta essere l’opera più umana di Lynch, quella più capace di trovare la propria risposta solo e unicamente nella costituzione di un carattere psicologico definito e buono all’interno di ogni suo singolo personaggio, senza antagonismi, senza necessità di letture psicanalitiche, solamente con lo scopo di andare in direzione di un’univocità narrativa potente, come quella di certi film della nuova Hollywood, dalla quale Lynch non si è mai completamente distaccato nonostante lui sia più appartenente alle correnti di destrutturazioni underground scaturite quando la nuova Hollywood stava già decadendo. È un raro caso di film nel contempo cosmico e semplice, e in questo paradosso sta forse la chiave per la comprensione di come insolitamente riesca a rendere con profondità l’idea di semplicità, rendendola un pregio inestimabile e prezioso. Unico nella filmografia di Lynch, è proprio per questo ancora più importante e tenero come pezzo mancante tra noi stessi, lo schermo e gli altri. Per innamorarsi del cinema, ci vuole anche questo, anche la semplice narrazione, privata di orpelli, completamente lineare, dilatandosi nei ricordi di una vita (o anche di una vecchiaia, di Lynch, o di una morte, di Straight, o di un post-mortem, di Farnsworth) che non avremmo mai potuto vivere.

Nicola Settis

“The Straight Story” (1999)
112 min | Biography, Drama | France / UK / USA
Regista David Lynch
Sceneggiatori John Roach, Mary Sweeney
Attori principali Sissy Spacek, Jane Galloway Heitz, Joseph A. Carpenter, Donald Wiegert
IMDb Rating 8.0

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