11 Luglio 2017 -

VELLUTO BLU (1986)
di David Lynch

Quando Bernie Wayne e Lee Morris nel 1950 composero Blue Velvet e la fecero cantare l’anno successivo a un nemmeno trentenne Tony Bennett, non si sarebbero minimamente immaginati, probabilmente, che sarebbe giunta una versione di Bobby Vinton nel 1963, e che sarebbe stata quella versione a rendere il brano davvero popolare. Un testo che va per immagini evocative, raccontando una specie di amore impossibile, perso tra le nuvole, nel mezzo della notte. Eppure Vinton, forte del successo ottenuto l’anno precedente con l’album Roses Are Red e in particolare con la canzone Lonely, tutt’oggi riconoscibilissima e citata ovunque, tramutò questa specie di mistero sentimentale, morboso, tattile e oscuro, così tenebroso nella propria profonda tristezza, in una specie di inno ad un’immaginaria felicità impenetrabile. Non comprendendo, forse, le potenzialità della canzone, mise attorno a esse una facciata, in cui regnava il romanticismo dell’America dell’epoca, basato sui buoni sentimenti che dovevano contrastare la nascita delle controculture sinistrorse, pacifiste e anarchiche. Quando uscì la canzone, fu un successo commerciale insospettabile, una vera baraonda nel pop. Roy Orbison, Elvis Presley, i Drifters e i Platters stavano scrivendo la storia di una nuova musica, un nuovo pop, un nuovo rock n’ roll o forse un suo fantasma; e in ciò Blue Velvet fu come un piccolo temporale, capace di annullare l’intensità iconica di un genere a favore di un’immagine. Quando la canzone uscì, David Lynch non la apprezzò, o almeno così il regista ha raccontato a Patti Smith nell’incontro organizzato da Cartier nel 2014: la purezza di quel tono lo disturbava, allontanando dalla mente la cupezza che poteva essere implicata. Una sensazione snervante, risponde Patti Smith, che dimostra la possibile incoerenza tra due mondi. Il film del 1986 di Lynch fu per lei una sorta di rivelazione sul perché di quella sensazione. Il regista riascoltò Blue Velvet anni dopo il primo ascolto e trovò in essa l’ispirazione in direzione di tre immagini: delle labbra rosse in una macchina, un prato rugiadoso di notte, un orecchio umano in mezzo all’erba. Idee e immagini che nella testa di Lynch s’erano create ancora prima che Eraserhead (1977) prendesse forma. Un’immagine romantica che è un’immagine noir, un’immagine idilliaca che è un’immagine cupa, e un’immagine horror intinta in un naturalismo che ne mette in risalto l’assurdità e la violenza. Un’immagine di un’America utopistica è quella con cui il film si apre, dopo gli elegantissimi titoli di testa che scorrono su un sipario di velluto blu, chiuso. Questo è il velluto, e siamo invitati a entrare, a capire cosa c’è oltre di esso, oltre questo mondo, questa porta verso un universo nel contempo strano e meraviglioso. Ed è proprio il morboso paradosso della canzone di Bobby Vinton a farci penetrare in questo invito, attraverso rose rossissime che bucano lo schermo, patetici uomini che salutano guardando in macchina, in un “sense of wonder” che sembra essere una stilizzazione quasi parodistica della potenza e dell’eleganza di Douglas Sirk. Come le foglie al vento (1956), all’improvviso, sembra quasi smettere di essere una profonda analisi sulla forza formale del cinema sentimentale hollywoodiano e diventa automaticamente datato, ma non per un suo limite, bensì per una necessità di un suo superamento; le sue descrizioni psicologiche e la sua mesta malinconia vanno in sottofondo, e l’indubitabile grandezza di quel cinema sembra quasi tramutarsi in una grandezza di sola facciata, come nella canzone di Vinton nella sua ipocrisia. Certo, è un tributo, non una presa per i fondelli, quella di Lynch, e Sirk non è demonizzato bensì, semmai, analizzato e demistificato.

Il film uscì in un periodo particolare per il regista di Missoula. Dopo Eraserhead la sua carriera d’artista nel post-New Hollywood aveva subìto un curioso processo di commercializzazione, e dopo The Elephant Man (1980), che coniugò lo stile del suo film d’esordio con una storia drammatica adatta alla sensibilità di un pubblico più ampio (incluso quello dell’Academy), giunse Dune (1984) un kolossal fallimento, un flop, un “box office bomb”, come lo chiamano i critici americani, che causò non pochi problemi alla casa di produzione De Laurentiis. Dune fu causa di grande pentimento da parte di Lynch, che decise dunque di proseguire per la propria strada, e in questa direzione uscì solo due anni dopo, sempre con la produzione di Dino De Laurentiis al massimo del proprio coraggio distributivo, Velluto Blu. Un nuovo inizio, una nuova mediazione tra il cinema “per il pubblico” e lo sperimentalismo dannato, a metà tra il surrealismo e i quadri di Francis Bacon, che caratterizzava i primi cortometraggi dell’autore. Come protagonista, Kyle MacLachlan nel ruolo di Jeffrey, che aveva fatto amicizia con Lynch sul set di Dune; e nei ruoli dei due personaggi femminili principali, una diciannovenne Laura Dern nel ruolo di Sandy ai propri esordi sul grande schermo, e Isabella Rossellini, figlia di Roberto Rossellini e Ingrid Bergman, principalmente nota, all’epoca, per degli spot pubblicitari per la Lancôme, nel ruolo di Dorothy (nome connesso direttamente alla protagonista de Il mago di Oz); come antagonista, un perfido Dennis Hopper, accompagnato da sgangherati sgherri che includono il Brad Dourif nominato all’Oscar per Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) e Jack Nance, protagonista di Eraserhead e tra i migliori amici di Lynch. Se si può definire il cinema di Hitchcock come un cinema di architettura e di sguardo, in cui il mondo passa attraverso varie metamorfosi all’interno dell’occhio umano e in questa mostruosa nostra capacità può manifestarsi l’approfondimento della nostra natura, dalla psicologia freudiana (il treno di Intrigo Internazionale (1959), ad esempio) al metacinema (“Scottie” che in La donna che visse due volte (1958) passa da essere narratore a spettatore attraverso un lento movimento circolare di macchina), in quest’ottica possiamo vedere Velluto Blu come un film post-hitchcockiano, una rilettura dello sguardo omicida dell’uomo 6 anni dopo la morte del maestro dell’orrore inglese. Forse fu per questo che il film colpì tanto il pubblico americano: non si era mai visto un mondo così, attraverso uno sguardo così. I critici statunitensi erano quasi tutti concordi nel dire che qualcosa era cambiato, che qualcosa si era rinnovato. Ma, appunto, quasi tutti. Roger Ebert, che tutt’ora per qualche ragione è considerato da alcuni il più grande critico cinematografico mai vissuto, dopo aver criticato aspramente Dune per la propria confusione e i propri ritmi imbarazzanti, usando toni la cui severità è solo parzialmente comprensibile, diede lo stesso voto e lo stesso crudele trattamento proprio a Velluto Blu, ammirando il coraggio di Isabella Rossellini nella sua interpretazione, ma descrivendo Lynch come un misogino. È un corpo, non può essere trattato così. In direzioni diverse ma con gli stessi intenti di base, Gianluigi Rondi non accettò che il film venisse proiettato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia per non macchiare la memoria di Roberto Rossellini. Il fatto è che per Lynch mettere a nudo la Rossellini non è mai stato un atto di odio, ed è chiaro attraverso l’approfondimento del suo status di vittima incapace di uscire dal proprio ruolo di vittima, in un dilemma tragico in continuo processo di aumento del fattore grottesco. Il corpo diventato riconoscibilissimo attraverso gli spot Lancôme si tramutò in un corpo martoriato da una crisi umana che è la stessa forse dei film di Hitchcock, ma non più filtrata attraverso velati simbolismi: a far capo al corpo stesso è una storia d’amore, di sesso e di morte senza via di fuga, senza via di scampo. È ormai accettato universalmente che Velluto Blu è tra i più grandi film di Lynch, tra i migliori film degli anni ’80, probabilmente tra i più iconici film americani della seconda metà del ‘900 e forse anche tra i migliori film di sempre. Ma Ebert è passato a miglior vita nel 2013, dopo aver presumibilmente rivalutato Lynch visti i voti altissimi ai suoi film più recenti, e il censore del rispetto e del buon gusto Rondi l’ha seguito tre anni dopo; il regista di Missoula, invece, è ancora vivo, e, nonostante venga ancora occasionalmente attaccato per insulse motivazioni etiche che girano dalle parti della totale carenza di comprensione, riesce ancora a parlare di misoginia, a mettere in discussione lo sguardo maschile e maschilista in un continuo inseguimento di perversioni e misteri dell’inconscio, a partire dalla terza stagione di Twin Peaks e dal terrificante personaggio di Richard Horne che ha avuto il suo debutto nelle puntate 5 e 6.

Per mettere in scena il grottesco sottobosco maligno della realtà “da cartolina” del film, Lynch mette in scena un prologo che, con un montaggio espressivo, è registicamente e visivamente impeccabile: il primo movimento di macchina parte dal cielo blu pastello (che si incrocia con il più scuro blu del velluto dei titoli di testa) e va verso il basso, già dimostrando, insomma, una sorta di trasposizione dalla perfezione formale di un’America idealizzata verso un qualcosa di sotterraneo, verso le rose, tanto belle e definite nel rosso del direttore della fotografia Frederick Elmes, quanto pungenti, pericolose. Immagini familiari e stereotipate si susseguono fino a focalizzarsi su un personaggio, il padre del protagonista Jeffrey, il signor Beaumont, che annaffia le piante nel giardino. Sua moglie è seduta davanti alla TV, succube delle immagini di film violenti e noir in bianco e nero, pronta ad accettarne la prepotenza attraverso uno schermo, come stiamo per fare noi in una sua versione più assurda e coraggiosa, meno canonica. All’improvviso, il signor Beaumont ha un ictus. Cade a terra. Prima di questa caduta, svariate inquadrature avvicinate al rubinetto della pompa dell’acqua e alla pompa stessa che si incrocia tra i rami e tra i cespugli, con effetti sonori da incubo, l’elettricità e l’industrializzazione degli oggetti “convenienti” che si diramano nell’America odierna, anch’essi pezzi di incubo, pezzi di mostruosità. Il signor Beaumont è per terra, immobile, con in mano ancora la pompa accesa che spruzza acqua. Un cane vi si avvicina, bestiale, animalesco, cerca di bere l’acqua spruzzata velocemente, si arrabbia e abbaia al rallentatore. Un bambino si avvicina da lontano, ingenuo. In quest’inquadratura, già si ha una specie di prefigurazione dell’antagonista del film, Frank Booth, riassunto attraverso una tripartizione: il bambino, il padre e il cane, l’atteggiamento infantile, quello adulto e quello direttamente animalesco, creando una totale confusione tra Ego, Superego ed Es. La macchina da presa però scende ancora di più verso il basso, anzi verso l’interno, tra i fili dell’erba, con precisione meccanica e crudele, nel mostrare le termiti, gli insetti, il disgustoso mondo auto-cannibalizzante di un’America che nessuno vorrebbe vedere. Questo buio così piccolo e così crudele, insomma, è la genesi buñueliana del mondo sotterraneo, è ciò da cui nasce l’incubo, da cui nasce il kitsch, da cui nasce la fine dei preconcetti e delle certezze, è ciò da cui nasce la necessità dietro Twin Peaks. Il Frank Booth di Dennis Hopper è alle origini del film insomma, appare, in maniera allegorica, anche prima del protagonista: è un incipit illuminante, crudele, che mischia con una sapienza tutt’ora indescrivibile sensazioni contrastanti attraverso riferimenti filmici coltissimi. Da qui può cominciare la storia, che è sempre giusto ripassare, di Jeffrey, che, tornando dall’ospedale del paesino fittizio di Lumberton dove è andato a trovare suo padre, dopo essere stato a lungo in un college fuori città, trova in un campo un orecchio umano in decomposizione. Lo porta a un investigatore privato che conosce, ma Jeffrey è troppo intrigato dal mistero, e mentre comincia a frequentare la figlia del detective, Sandy, origlia un discorso tra poliziotti in cui sente il nome di Dorothy Vallens. Subito la cerca, scoprendo in uno spoglio e squallido appartamento suburbano la vita della donna, cantante in piccoli locali, costantemente ricattata da gangster di vario tipo, capeggiati da Frank, e da un poliziotto corrotto. Quando lei trova Jeffrey che la spia nel suo appartamento, comincia una morbosa relazione segreta tra i due, mentre continuano le indagini e anche Sandy si invaghisce di lui. E Jeffrey si specchia spesso nel buio, nello sporco, ricerca se stesso o una propria immagine per comprendersi e per comprendere la situazione, il mondo, il mistero, il sesso, il riconoscimento del’Io, l’angoscia, come cercandosi in uno specchio per rivoluzionare la propria scissione, come poi Fred in Strade Perdute (1997).

Due cose importanti andrebbero annotate: la prima è il fatto che il film ha una ricca quantità di scene eliminate (più o meno un’ora) che il sottoscritto ha avuto modo di vedere su YouTube qualche anno fa, ma al momento non sono più reperibili sulla piattaforma video, ed è un problema poiché queste scene erano utilissime per l’approfondimento psicologico di Dorothy, una vera icona di sofferenza femminile, una specie di antitesi concreta della sofferenza maschile astratta di Henry in Eraserhead, grazie soprattutto a un’emozionante scena di tentativo di suicidio, e per l’approfondimento di Jeffrey; la seconda cosa che non può non essere nominata è collegata a quest’ultima faccenda, ed è il fatto che Jeffrey, come i gufi, non è quello che sembra. Il viso dolce e giovanile di Kyle MacLachlan è stato usato perfettamente da Lynch in Dune per rappresentare un eroe a tutto tondo e nelle prime due stagioni di Twin Peaks per interpretare l’unico personaggio davvero completamente positivo di tutto il complesso cast, nonostante poi la tremenda duplicità giunta con la scissione dei Cooper della terza stagione: in Velluto Blu c’è la via di mezzo, perché la divisione di Jeffrey non è un taglio netto tra un Bene assoluto e un Male assoluto bensì un delineamento psicologico volutamente ambiguo, che non è neanche troppo atto ad analizzare la personalità e le capacità decisionali del personaggio quanto la sua presa di posizione etica, la sua collocazione in questo mondo assurdo, il suo essere puro e impuro, il suo continuo bisogno di desiderio. Desiderio che è uno dei punti di partenza del film: il desiderio di scoprire la verità, che è una necessità in teoria eroica o perlomeno morale ma che poi dimostra di essere legata a un atto perverso di necessità di immedesimazione in una logica distante da quella in cui Jeffrey è cresciuto, ma anche il desiderio erotico, che si dipana nella relazione con Dorothy, nei bisogno sadomasochisti di lei, in un appartamento che si trasforma nell’ennesimo spazio chiuso e onirico. L’appartamento di Dorothy è come la casa vuota di Ultimo Tango a Parigi (1972) di Bertolucci, un non-luogo permeato da eros e thanatos, in cui la massima espressione dell’atto vitale è l’atto sessuale, attraverso il vuoto, il carnale. Le tende della finestra, rosse come le labbra della Rossellini che sussurrano «colpiscimi», si muovono al vento, in una prima (forse) espressione di quella che sarebbe diventata la Loggia Nera, contribuiscono a dare un tono surreale a un ambiente in verità tremendamente spoglio e mortifero. È un neo-noir morale che si muove sui binari dell’immorale, e Jeffrey, raramente espressivo nelle scene insieme alla Rossellini, è un protagonista di definitiva indefinizione: dove finisce l’urgenza sessuale e dove comincia il dovere civico? Dove finisce l’indagine sull’orecchio e dove comincia l’indagine su se stessi? Con la natura che elimina la figura paterna, anche solo momentaneamente con l’ictus, per lasciare spazio al dipanarsi di un mistero/cinema, deve per forza subentrare un padre “altro” e questo è Frank Booth, che è l’esempio più evidente di ‘padre osceno’, come lo chiamerebbe Slavoj Žižek, nel cinema di Lynch: se prima di Velluto Blu ci sono stati Henry in Eraserhead con il suo desiderio di uccidere suo figlio e il dr. Frederick Treves, sempre a metà tra un padre/amico e un padre/scienziato opportunista per il deforme John Merrick di The Elephant Man, e se dopo ci sono stati l’orrendo Bobby Peru di Cuore Selvaggio (1990), l’esplicito e tragicomico Leland di Fuoco cammina con me (1992) e dintorni e il mr. Eddy di Strade Perdute, Frank è l’apice. È il più cattivo, è il più mostruoso, è quello che più esemplifica la vera e propria assenza/eliminazione del padre, ed è anche quello più psicologicamente torturato e messo in mostra, almeno se prendiamo come esempio quelli che sono veri antagonisti: è un bambino che cerca una mamma, è un predatore che cerca una vittima, ed è un uomo che cerca una donna. Nel mischiare queste tre necessità, tortura psicologicamente e sessualmente Dorothy, forse per mascherare un’omosessualità repressa di cui vi sono pochi indizi, o forse per allontanare una malattia fisica a cui fa solo un breve e mesto riferimento. È l’unico personaggio in tutto il film a dire parolacce, abusando della parola “fuck” («I wanna fuck anything that moves!»). Tenta in continuazione di annullare Jeffrey dimostrando una sua superiorità virile, così come tutti i suoi sgherri, che lo intimidiscono e danzano con serpenti in mano, per esempio urlandogli che la birra che beve, la Heineken, fa schifo e che è meglio la Pabst Blue Ribbon. È una continua sfida, in cui comunque, chiunque vinca, dev’esserci di mezzo la violenza, l’idiozia, un climax mortale amplificato dalla droga proprio come gli orgasmi di Frank – che inala uno strano gas che per Lynch nella sceneggiatura sarebbe dovuto essere elio per creare una voce in falsetto infantile, ma Hopper, conoscitore di droghe di ogni tipo, per eliminare il possibile aspetto comico che non avrebbero voluto creare, ha capito che era meglio inventarsi qualcos’altro e aveva una propria teoria su che droga fosse. E il colpo di scena, svelato da un travestimento plastico e patetico, finisce comunque per rivelare in sé una qualche sorta di orrore e di spavento: il Male è qui, bussa alla porta ed è pronto a essere annientato.

Jeffrey osserva tutto attraverso l’armadio di Dorothy. Vi è nascosto, con la luce che penetra. Chiude gli occhi quando vede un colpo. Vede una figura paterna che si afferma e poi si degrada, in continuazione, si femminilizza. Lo sguardo diventa l’estensione del suo desiderio e allo stesso tempo l’estensione della sua repulsione: c’è quasi più romanticismo nella concezione malata di amore che ha Frank, nel momento in cui sente Dorothy cantare e piange, accarezzando il velluto. Il voyeurismo porta Dorothy, negli occhi di Jeffrey, che nelle scene eliminate del film dimostra una tendenza pregressa a spiare gli amplessi, a diventare un corpo che perde quasi il proprio significato umano, degradato a singola immagine cinematografica erotica, sporca e grottesca. Attraverso l’interpretazione incredibile della Rossellini, Dorothy è come alla ricerca di una propria dignità, di una propria umanità o caratterizzazione, ma rimane succube e vittima dello sguardo sessuale, fino al lieto fine in cui riesce a riconnettersi, anche se forse solo parzialmente, con quello che tentava di recuperare a livello intimo. Alla fine, se sembra solo un corpo disumanizzato la colpa forse è dello spettatore che lo percepisce come tale, a causa degli spot di cui era protagonista l’attrice o dei malintesi accusatori di Ebert. Lynch, nel mostrare questa doppia natura dello sguardo di Jeffrey, discute lo sguardo cinematografico e la sua perversione: la luce che attraversa le persiane è la luce creata dall’obbiettivo, noi siamo Jeffrey (e in quanto tali siamo costretti a mettere in discussione la nostra percezione di quello che lui vede) e il film è l’orrido amplesso che lui osserva. Più che pensare a Powell e al suo Peeping Tom (1960), che invece diventerà chiave metafisica per le prime due puntate di Twin Peaks: The Return, qui dovremmo forse prendere in considerazione Hitchcock, in particolare La finestra sul cortile (1954): siamo immobili come James Stewart, succubi della consapevolezza di aver visto l’assurdo. O meglio, una violenza che progressivamente si fa più irreale, con orrori industriali che proiettano le loro ombre in stile espressionista con in sottofondo canzoni anni ’50, scalcagnate ballerine sovrappeso che si esibiscono sul tetto di una macchina. È più il mondo stesso a diventare metafisico che il subconscio ad ampliarsi, è il mondo cinematografico che svela le proprie potenzialità, in un continuo riscriversi dell’iconica empatia del realismo nei confronti dell’impareggiabile, tragica tensione che solo Lynch riesce a creare. L’apice è nella scena con Ben, l’amico effeminato di Frank, che ospita a casa propria la sua gang con Dorothy e Jeffrey per poi mettersi a cantare In Dreams di Roy Orbison in labiale usando una lampada come microfono. La luce lo colpisce nel volto trasformandolo in una maschera grottesca, Frank lo guarda commosso nella propria assurda perversione, Jeffrey è basito e immobile, gli altri ballano. La canzone è bellissima, e ci si sente trascinati in quei sogni di cui canta Orbison, così dolci e infantili, in quel romanticismo farlocco che non si sta respirando all’interno dell’ampia, strana inquadratura. Sandy cerca di riempire il film di amore e speranza, con l’allegoria degli uccellini e i suoi sogni pieni di luce, e sembra di trovarsi in una scena sentimentale di Secondo amore (1955), ma i veri momenti epocali del film sono nella sua frapposizione di sentimenti, nei suoi conflitti tra audio e video, nel suo surrealismo. E quando Frank canta pochi minuti dopo la stessa canzone a Jeffrey, la luce stessa smette anch’essa di essere proiezione visuale di un qualcosa di assoluto e si tramuta in accentuazione del fattore onirico e osceno, del rossetto, del sorriso, della rabbia, di un bacio mostruoso, un urlo, un pianto, forse uno stupro.

Ciò arriva al punto che è difficile non vedere una qualche sorta di ironia nella letale conclusione del film. Il “male” è stato sconfitto, ma in questo conflitto è stata utilizzata la stessa violenza di Frank. L’immagine che ritorna nel finale fa escludere a Jeffrey lo sfogo sessuale/sentimentale di Dorothy chiudendolo nell’amore complesso e forse ipocrita con Sandy, ma rimangono i simboli del male: l’orecchio, l’insetto, l’apparenza color pastello di un mondo che non esiste davvero. In ciò, Lynch è crudele, mischiando il teorico con l’emotivo in maniera devastante, ma con abbastanza raffinatezza da lasciare agli spettatori più superficiali la speranza di un finale lieto effettivo per i personaggi, nonostante la cosa implicata sia un finale tragico per l’umanità, un’apertura a un continuo gioco di apparenze morbose che può solo portare a fagocitare altro male e altra banalità – temi, questi, che Lynch avrebbe presto approfondito in Cuore Selvaggio e Twin Peaks. Se in questo regista, davvero, ogni film ha la sua importanza e la sua indipendenza al punto che sono tutti equiparabili, possiamo osare strutturare la sua filmografia così: Eraserhead è il film più storicamente influente, The Elephant Man il film più apprezzabile a livello di pubblico universale, Dune il fallimento multimediale più clamoroso (e necessario), Cuore Selvaggio il “cult” definitivo, Fuoco cammina con me (e tutto il progetto Twin Peaks sino a questa nuova stagione) il progetto più stratificato, Strade Perdute il film più teorico, Una storia vera (1999) il film più umano, Mulholland Drive (2001) il film più moderno e INLAND EMPIRE (2006) il film più completo. In questa logica, Velluto Blu forse è semplicemente il più bello, il più puro nella propria carenza macabra di purezza, il più misterioso nella sua finta e cupa nostalgia degli anni ’50 e ’60. È un’opera che può essere gustata sia come un thriller sia come una storia d’amore, sia come un delirio grottesco sia come un viaggio verso lidi sin troppo concreti dell’essenza umana. È una canzone ma è un film, è una melodia ma è una sequela di immagini, è un’opera d’arte che naviga nel cinema di genere e come tale è forse sottovalutata, ma è un pezzo d’inconscio simbolico nel cuore di chiunque ami Lynch, di chiunque ami il suo cinema. Nei misteri dell’amore cantati da Julee Cruise con la musica di Angelo Badalamenti, alla prima di tante collaborazioni col regista, ci si può muovere per sempre, nel suo film più compatto, politico ed eretico, quello in cui i simbolismi più vanno in armonia tra loro, senza troppe sfumature, rimanendo nella pelle di un immaginario egualmente oscuro e idillico di cui innamorarsi perdutamente.

Nicola Settis

“Blue Velvet” (1986)
120 min | Drama, Mystery, Thriller | USA
Regista David Lynch
Sceneggiatori David Lynch (screenplay)
Attori principali Isabella Rossellini, Kyle MacLachlan, Dennis Hopper, Laura Dern
IMDb Rating 7.8

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