Decasia parte da un’omonima sinfonia di Michael Gordon, ma il regista americano Bill Morrison, come nel successivo Dawson City: Frozen Time (2016), riesce a strutturarne i ritmi attraverso un complesso lavoro di montaggio. Mentre sintetizzatori, violini, violoncelli e strumenti di ogni sorta si rincorrono in un continuo viaggio sonoro, Decasia si compone e si scompone in continuazione, destrutturandosi con la storiografia, costruendo una narrazione dal nulla, o meglio dal preesistente e dall’ermetico. Quando parliamo in generale dei film di Morrison parliamo tendenzialmente di un lavoro archeologico sul passato del cinema, sulle sue origini, sulla sua natura più profonda e sul recupero dei suoi valori originali. Decasia è una poesia sul passato, che fonda una sua personale e a volte inintelligibile narrazione nelle bruciature e nel bianco e nero invecchiato ed effimero di un qualcosa di talmente lontano nel tempo da essere inclassificabile e forse incomprensibile. Nel cinema, soprattutto in quello appartenente alla Nouvelle Vague o alle correnti contemporanee e successive, tendenzialmente cerchiamo un lavoro di riconoscimento: uno sguardo che si specchia in un altro, oppure magari nello sguardo dello spettatore o comunque in uno sguardo più o meno anticonvenzionale. Trattasi di un lavoro sul campo-controcampo, sull’umanità dello spettatore, sull’umanità dello sguardo cinematografico. È un lavoro complesso. Morrison tratta questo emblematico dilemma sempre ripetuto nelle varie branche del cinema, sia esso sperimentale o di massa, senza pensare all’umanità di un ipotetico personaggio o all’umanità di un ipotetico spettatore, ma pensando a uno sguardo generalizzato, impercettibile o che scompare attraverso la rovina del tempo e del frammento. La sua idea è quella di un viaggio temporale, ma non si pensi a Zemeckis o a Doctor Who, la cosa giusta è invece pensare a entrare in un immaginario museo dell’immagine. Una galleria devastante attraverso la quale comprendere cosa è il reale e cosa è troppo lontano dal reale da essere considerato appartenente alla concretezza che ci circonda e ci scolpisce in continuazione.
Immaginate quello che segue, brevemente, come una pagina di diario: nella sala PalaBiennale del Festival del Cinema di Venezia nel 2016 ebbi l’opportunità di vedere Dawson City: Frozen Time in un’occasione forse unica che mi diede l’opportunità di apprezzare ancora di più il film, tra i più belli dell’anno scorso. Infatti, per tutta la proiezione, fuori dalla sala, risuonava un potentissimo temporale che a fine film era completamente impercettibile se non per le gocce d’acqua sul marciapiede. Si ebbe per me e per altri spettatori l’impressione di aver assistito a una bufera che è la bufera della storia e la bufera dell’inizio del cinema, la roboante catastrofe di una nascita e di una morte, di una rovina, di un cambiamento storico. Per comprendere ciò bisogna capire che in un certo senso tutta la Storia è una storia degli elementi, compresa la storia del cinema insomma, compresa la storia dell’immagine. In questo contorcersi continuo delle certezze e in questa demistificazione di un’immagine altrimenti talmente rovinata dall’essere solo e solamente il riflesso del tempo che passa, Morrison aveva dimostrato di aver composto un qualcosa di appartenente alla Storia del cinema anche solo per definizione. Decasia supera questo problema perché invece di essere un commento sulle origini del cinema pare più che altro essere una poesia sulla scomposizione che quest’arte può in molte sue forme dimostrare. Le inquadrature sono rallentate, distorte, rese grottesche, montate come in un viaggio spirituale attraverso i meandri del subconscio dell’immagine, legate a un’idea vicina a quella del New American Cinema, o di Stan Brakhage. Ho avuto modo di conoscere Bill Morrison prima anche solo su piattaforme social, ma a Bologna ho avuto l’opportunità di comunicarci dal vivo e, dopo questo breve e fugace ma dolce incontro, di poter vedere in sala un altro suo film, appunto, Decasia, riflessione sulla pellicola montata in video, in analogico. Il film d’archivio rimarrà sempre uno dei più importanti formati attraverso i quali si può esprimere la forma documentaristica, e poiché parte dalla realtà del filmato senza costruirci sopra gli orpelli catastrofici e anti-reali che costituiscono principalmente il documentarismo moderno, in questa logica dei casi è importante dire che non è solo un documentario, è anche una storia universale, una poesia, un viaggio verso lidi sconosciuti e luci inimmaginabili.
Può sembrare eccessivamente ambizioso questo lavoro, perché è difficile tentare di resuscitare o rivitalizzare un qualcosa di talmente immenso ed eterno, ma Bill Morrison ha classe, per il semplice fatto che il suo è più un cinema sperimentale che un cinema didascalico, è più un cinema poetico che un cinema reale. Ma allo stesso tempo quando portiamo sui nostri schermi e nella nostra mente parole come “realismo poetico”, oltre a film come quelli di Renoir e Carné, ci può venire in mente qualcosa come il cinema di Morrison, forse, in una chiave moderna che non si lega alla narrazione tradizionale. Perché in un modo o nell’altro quella è realtà, perché in un modo o nell’altro quella è pellicola, perché in un modo o nell’altro quelle sono le origini del cinema, quello è il motivo per cui molti di noi si sono innamorati del mezzo cinematografico in tutte le sue potenzialità. Baci, abbracci e spaventi, nascita e morte, acqua e fuoco, caos e ordine, luce e buio, Oriente e Occidente, soprattutto. In un sempre più frammentato puzzle universale in cui l’amore e l’odio sembrano indistinguibili, Decasia si pone non solo come una sinfonia decadente di un qualcosa di irrecuperabile nella sua completezza, qualcosa di morto e cadaverico, ma anche come una nascita o resurrezione immaginifica intensa e colma di potenzialità. È difficile spendere altre parole, soprattutto perché è un lavoro particolarmente teorico, ma allo stesso tempo non è neanche un film solo di testa: c’è molto cuore, molta intensità nella passione per la macchina da presa, nelle dinamiche del medium video. È il motivo per cui siamo andati al cinema Ritrovato, volendo, questa passione retrospettiva: non ci possiamo dimenticare le radici di un qualcosa che troppo spesso è stato sottovalutato e allo stesso tempo non possiamo dimenticarci il futuro di quella stessa cosa. È l’ultima volta, per sempre, osservando schermi, guardandosi negli occhi.
Nicola Settis