Se Per la patria (brutta traduzione italiana dell’originale J’accuse, capolavoro pacifista del 1919) è il film più socialmente importante di Abel Gance e se Napoleone (1927) è invece la sua impresa più ambiziosa sia da un punto di vista narrativo sia da un punto di vista di innovazioni scenografiche e linguistiche, allora La rosa sulle rotaie (titolo originale: La Roue) sta probabilmente nel mezzo tra i due, e in ciò è forse il più importante in quest’ipotetica trilogia di opere immense, o, se vogliamo, napoleoniche, i suoi tre film più celebri, citati e celebrati. Quando Steven Kramer e James Welsh hanno definito Abel Gance «l’epitome di ciò che il cinema avrebbe potuto essere e non è mai stato», è probabilmente perché nessuno come lui, nell’ambiente del cinema muto francese (ovvero, diciamo, del cinema “originale”: quello della patria in cui il cinema è nato, ed è nato muto), è riuscito a mischiare epica, melodramma e sperimentazione. Grazie all’influenza di D.W. Griffith e all’arrivo ufficiale nel linguaggio cinematografico dei primi piani, per Abel Gance il cinema cambia: non diventa più un qualcosa di derivativo dal teatro, sua origine artistica, ma si tramuta in un vero e proprio nuovo alfabeto per gli occhi, attraverso il quale tentare di raggiungere la grandezza sensoriale della pittura espressionista, ma con i ritmi e la lunghezza spropositata del melodramma epico. La rosa sulle rotaie parte da una trama apparentemente bislacca e patetica nei suoi risvolti drammatici, ma che in sé nasconde i semi della grandezza e di un tassello importante per la storia del cinema (tanto da influenzare Cocteau, che disse «C’è cinema prima e dopo La Roue, proprio come c’è pittura prima e dopo Picasso», e Kurosawa, ma pure probabilmente la trilogia dell’Ucraina di Dovženko, a partire soprattutto dal suo film d’esordio del 1928 Zvenigora): il più grande di tutti i ferrovieri, Sisif, detto “l’uomo della ruota”, dopo uno scontro fra treni, trova la neonata Norma, la sua “rosa delle rotaie” appunto, che decide di accudire come figlia senza rivelare nulla né a lei né al proprio figlio Elie, orfano di madre. Passati 15 anni, sia Sisif che Elie sono innamorati di Norma, il primo incapace di rivelare il segreto che lei non è sua figlia e il secondo disturbato da questo proprio sentimento apparentemente perverso e sbagliato. Il pretendente Jacques de Hersan, scoperto il segreto di Sisif, lo ricatta con lo scopo di sposare Norma – di lì in poi, tutto sembra poter solo peggiorare. Le incredibili musiche di Robert Israel contornano con drammaticissimo senso della tragedia una serie di scene visionarie, tra incidenti ferroviari e analessi immerse nella più sincera “joie de vivre”, tra scazzottate in suggestivi paesaggi montani a fantasie pseudo-medievali, ma includendo anche scene lavorative e una serie di scelte visivamente estasianti che giocano con un montaggio dalla velocità a volte spaventosa e con l’espressività teatrale di volti che si tramutano in maschere da teatro greche; tutto ciò contornato da transizioni e sovrimpressioni che spesse volte rappresentano in maniera rivoluzionaria l’onirico.
Forse, davvero, La rosa sulle rotaie è un film unico e irripetibile, o quasi. Girato tra il 1919 e il 1920 e diffuso nel 1923, il film, dedicato alla moglie di Gance, morta in gioventù, e considerato pionieristico soprattutto per l’uso versatile della luce e del formato 1.33:1 che apre in sé parentesi e finestre circolari, consisteva originariamente di 32 bobine, e alcune fonti dicono la durata originaria fosse di 7 ore e mezza o di 9 ore. Mentre il montaggio curato da Gance stesso per la distribuzione cinematografica era stato ridotto a 2 ore e mezza, un’altra versione che girò nelle sale in altri paesi inclusa l’Italia durava invece solo un’ora e mezza; tuttavia la versione ufficialmente riconosciuta come quella più fedele all’originale è costituita da un montaggio restaurato di circa 4 ore e mezza, divise in due parti (una di poco meno di 3 ore e una di poco più di un’ora e mezza), che è la versione che abbiamo scelto di usare come punto di riferimento. Il protagonista Sisif, sin dal nome, richiama sicuramente il Re Sisifo della mitologia greca, ma a differenza del personaggio mitico il protagonista di Gance non passa una vita di omicidi seguita da un’eterna punizione; anzi, nel dramma scritto e diretto dall’autore, Sisifo è come se vivesse una penitenza infernale all’interno della propria vita peccaminosa. Le due cose coincidono, insomma, sono in osmosi in una lotta pseudo-proletaria che va verso l’amore e verso il tentativo di re-imparare a vedere in un mondo che è un inferno. Era presto perché ci potesse essere un Camus a suggerire a Gance che Sisifo va immaginato come felice, ma forse è anche giusto così: la tragedia della vita di Sisif in un certo senso può riflettere la drammatica involuzione della narrativa cinematografica e televisiva con il passare degli anni, dimostrando l’effimerità dell’immagine e la sua potenza criticando, nel contempo, l’atteggiamento passivo-aggressivo umano e la nostra tendenza a tenere segreti, rovinando tutto e/o rovinandosi alla spinta degli eventi. La Storia non esiste, tutto è in funzione di una drammatica riscoperta dello sguardo che funge per movimenti e scenografie circolari, aperture nell’inquadratura con forme arrotondate: il cerchio si ripete, perpetuo, tra orologi e ruote, occhi e obbiettivi. Come un viaggio verso l’interno, riscoprendo la vita attraverso la transizione, il desiderio di guardare, lo stesso che rende grande, anzi enorme, l’opera ultima di Jean Vigo, L’Atalante (1934). L’amore, la narrazione di esso e la manifestazione di esso sono i motori della tragedia, ma è un motore anche la bellezza; la ruota che gira è la stessa ruota della bobina che continua a muoversi, il tempo che passa verso una conclusione/morte beffarda e magica, che porta con sé una conclusione tra le più belle di tutto il cinema. Come i marinai di Vigo vedono le loro amate nell’acqua, così i ferrovieri di Gance vedono Norma attraverso la rotaia, la funicolare, la ruota, il treno che è la nascita del cinema sin dai corti dei fratelli Lumière, il movimento continuo e ipercinetico, la sbarra di metallo che si incrocia con la lotta, il tentato suicidio, gli animali (capre, cani, lumache). Sisif si allontana dal simbolismo del mitico Sisifo e diventa quasi più simile a una sorta di Edipo, il suo punto di vista da confuso, ebbro e transitorio diventa bianco, trascendente come i non-spazi della Passione di Giovanna d’Arco (1928) di Dreyer ben prima dell’uscita del capolavoro assoluto del regista danese. C’è tensione e c’è malinconia, ma soprattutto c’è un dolore epico e cristologico che a ogni inquadratura mozza il fiato; la dilatazione dei tempi drammatici, in una trama non proprio esile ma nemmeno eccessivamente stratificata, porta alla costruzione di una narrazione impeccabile, che commuove nonostante alcuni risvolti forse prevedibili in quanto archetipali. Le immagini danzano come in una manifestazione demoniaca, ma con il ritmo autodistruttivo e morale di una marcia religiosa o di un mito eschileo.
Abel Gance vive l’epica del cinema come la manifestazione dell’emozione e della creazione dell’emozione. Se L’Atalante è l’acqua, l’illimitata grandezza dell’uomo riassunta nello sguardo verso il mondo, allora forse, più di una decade prima, La rosa sulle rotaie è la terra e la penetrazione di essa. Con uno sguardo bianco e spento verso la grandezza del cielo, nello struggente lutto Sisif riesce a ritrovare la vista: una vista che fa parte della mente, una vista che si ottiene attraverso un viaggio verso l’interno invece che verso l’esterno, non cercando una via di fuga ma cercando una consapevolezza interiore. Con uno sguardo spento ma testimone, come uno spettatore di vicende incomprensibili, come il dottore di Sátántangó (1994) ma più di 70 anni prima. Avanguardistico e legato all’importanza della fotogenìa come il regista impressionista contemporaneo Jean Epstein, Abel Gance con questo film compone una straziante sinfonia d’immagini indimenticabili, usando pochi personaggi in un mondo-set che sembra immenso e a cui subito ci si affeziona. Se Lo scoiattolo di Lubitsch negli stessi anni (1921, per la precisione) sperimentava con le lenti per un effetto apparentemente solo estetico, allora Gance con questo film ha invece fatto un testamento psicologico e sensoriale della grandezza e dell’importanza dell’armonia tra forma e contenuto, usando dunque fotografia e montaggio per aumentare le potenzialità della storia, mistificandone gli aspetti più drammatici fino all’estremo. Quando Norma esce dalla macchina, appena maritata, e osserva da lontano la realtà povera che ha appena abbandonato, si intravedono fantasmi di quello che poi sarebbe diventato lo sguardo di Ingrid Bergman sui quartieri dell’”altra Roma” in Europa ’51 (1952), film riecheggiato da Straub e dalla Huillet in Europa 2005 – 27 octobre (2005), c’è una danza circolare gioiosa, pastorale e movimentata che subito rimanda alla mente le conclusioni di capolavori del cinema europeo come Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman e 8½ (1963) di Federico Fellini: c’è un magma di immagini, insomma, un coacervo cinematografico europeo e mondiale che sembra, davvero, includere tutto. C’è un film-mondo, insomma, in continua evoluzione musicale, in un meccanismo tattile e visivo che va dal kammerspiel all’universalismo omerico; l’occhio diventa la mente, la riscoperta dell’immagine diventa riscoperta di se stessi – la danza eterna e tragica della Ruota riempie tutto, si muove e calpesta gli esseri umani, tanto il protagonista quanto l’attore che lo interpreta, Séverin-Mars, che morì a 48 anni d’infarto poco dopo le riprese del film, durate 16 mesi: un lutto che dà anche una profondità al film, un’immedesimazione tra la realtà e la realtà magica e fittizia dell’eccesso teatrale di esso. Proprio come la morte di Vigo dopo le riprese de L’Atalante: il sacrificio, per fornire bellezza, per completare il capolavoro.
Le ruote, che rappresentano sia la tortura medievale sia il progresso tecnologico sia la vita stessa riprendendo la frase di Hugo, continuano a girare anche nel cielo, sovrastando il mondo, sovrastando Dio, gli uomini e il cinema. Il montaggio è velocizzato, dando un’idea di impotenza di fronte al tempo e alle faccende violente degli uomini. Il fatalismo della tragedia greca, con questa figura protagonista che riecheggia tanto Cristo quanto La bestia umana (1890) di Zola, è motivato dagli ingranaggi pseudo-incestuosi e freudiani di un tipo di narrativa psicologica sempre più potente, sempre più coraggiosa, post-sveviana. Superando le possibili metafore psicanalitiche e sessuali, che possono vedere la locomotiva come artificiale estensione fallica in un congegno di libido-destrudo in cui si può trovare la pace nell’autodistruzione (e la pace è resa con il surrealismo: un’eiaculazione suicida e tragica mostrata come fiori che sbocciano in mezzo alle macerie), si può notare come il masso portato da Sisifo in cima alla montagna nell’Ade qui diventi una croce: è un Sisifo moderno, sì, nel senso proprio di cultura moderna, dopo quella grecista o ellenista, con una sorta di eroismo nel dolore, quell’eroismo che Nietzsche criticava quando parlava della creazione di una nuova tabella di valori per la cultura occidentale. Solo attraverso una nuova metamorfosi bucolica degli spazi e dei gesti si può raggiungere una conclusione, un’estasiante morte/resurrezione che ha la stessa potenza del finale di La terra (1930) di Dovženko, con un retrogusto magari meno politico ma altrettanto universale: dove in La rosa sulle rotaie Sisifo/Cristo muore osservando la bellezza, un po’ come in un attacco di sindrome di Stendhal (che è lo stesso che può avere un qualsiasi spettatore appassionato guardando il film di Gance), il film di Dovženko si concludeva con la pioggia che risvegliava la natura dal torpore portato su di essa dalla violenza umana, e in ciò rinasceva la passione, la vita, due nuovi Adamo ed Eva russi. Il brullo industrialismo del prologo si risolve in un paganesimo gioioso, come due lati della stessa medaglia (o della stessa ruota…) destinati a incontrarsi, a collimare, a creare, attraverso l’aedo novecentesco Gance, un nuovo mondo filmico. Questa lirica e atroce storia del moderno (o “per i tempi moderni”, ha detto il regista stesso), un po’ come una favola mitica e un po’ come un dramma pre-neorealista, sembra tuttavia più collegata ai grandi registi sovietici che sono venuti lentamente fuori in un periodo successivo, autori come il più volte succitato Dovženko, o Pudovkin, o Vertov, o il più famoso di tutti, Eisenstein. In questo senso, nonostante la separazione geografica e cronologica, l’idea nella programmazione del Cinema Ritrovato di proiettare il prologo di La rosa sulle rotaie con accompagnamento musicale dal vivo in Piazza Maggiore il 26 giugno 2017 appena prima del più celebre capolavoro russo La corazzata Potëmkin (1925), è assolutamente geniale. Perché, se il cinema muto davvero è il cinema più puro di tutti a causa dell’istintualità nel suo metodo di comunicazione, per (re?)innamorarsi del meccanismo-cinema e dei suoi movimenti, non c’è cosa migliore, forse, del perdersi in quei volti in bianco e nero, in quella grandezza che sembra non finire mai.
Nicola Settis