“Restiamo tecnici qualificati, ma alla maniera di quei negri che partecipano senza saperlo a loro malgrado alla più bella delle avventure, come portatori. Incaricati di portare sui luoghi naturali degli avvenimenti spontanei le macchine per riprendere immagini e suoni”
Jean Vigo, Sensibilité de pellicule, 1932
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Siamo nell’inverno del 1933 e Jean Vigo è visibilmente stanco e malato. Sapeva di andare verso la propria fine sul set di quel film, e difatti a coloro che gli chiesero quali fossero le sue condizioni e perché continuasse a lavorare su una chiatta, lui rispondeva sempre che avrebbe dovuto fare tutto e subito. Solo lui probabilmente in testa (e nel cuore) si sentiva quel film, nessuno su quel set poteva comprenderlo. Un matrimonio, due innamorati in uno pseudo-viaggio di nozze, un marinaio vissuto; e poi la routine, la noia, la separazione ed il ritorno. Semplice, pensiamo (e forse anche quegli amici pensarono), un’altra storia d’amore. Vigo decise di partire da un testo trascurabile di Jean Guinée, per scrivere un’opera diversa, ultima e definitiva (con i compagni Albert Riéra e Blaise Cendrars al soggetto, il genio di Boris Kaufman – fratello di Vertov – alla fotografia, il romantico Maurice Jaubert alla musiche ed il contributo addirittura di George Simenon per l’ambientazione). Un gruppo di amici e complici, che accettano di compiere un ultimo viaggio, al termine della vita come al principio del cinema. Tre mesi nel freddo umido e insolito dei canali parigini, su una chiatta chiamata Atalante, semplicemente il titolo del film. Il girato c’è, ed è già un’impresa. Tra gennaio e febbraio dell’anno successivo il montaggio; Vigo è sfinito, alla moviola ci sarà il fidato Louis Chavance. Nel marzo la copia originale (solo una si era salvata, affidata a Londra ad Alberto Cavalcanti) viene massacrata, mutiliata, privata del proprio stesso respiro. Sarà l’ultimo affronto per Vigo, falcidiato dalla censura già in occasione delle due sue prime opere (soprattutto Zéro de conduite), forse anche per colpa del padre anarchico e provocatore proprio come il figlio. Il film uscirà a settembre con il titolo Le chaland qui passe (la canzone che sostituirà le musiche di Jaubert) mentre il suo creatore morirà il mese successivo, stroncato da una setticemia, privo di ogni istinto vitale e probabilmente di ogni speranza. Solo nel 1990, per la prima volta, si potè vedere integralmente il suo film; il mondo che rappresentava era radicalmente cambiato, così come il cinema. Eppure L’Atalante rimane un’opera senza dimensione, né di tempi né di spazi, genesi prima e ultima di ossessioni e desideri ma così sfuggente ed evocativa da non poter essere raccontata.
L’Atalante è un oggetto che ancora non possiamo codificare, stratificato all’inverosimile da un montaggio estasiato dai contrasti, da uno sguardo estremamente poliedrico, da una recitazione d’avanguardia. Un’opera sostanziale e primitiva che esprime in realtà un’estrema complessità di sintassi e di materia, rendendo tangibile e drammatico il gioco delle parti (chiaro/scuro, vita/morte, amore/odio, acqua/terra, presenza/assenza) fino a farlo collassare, fondendo splendidamente piani e anime. L’Atalante è un atto umano e politico, da una parte vicino alle istanze culturali e intellettuali della Francia tendente al marxismo di metà anni trenta (ed il cinema con Clair e Renoir era già lì a di-mostrarlo) dall’altra però profondamente anarchico, libero ed essenzialmente unico. L’Atalante è un nome come una parola, fitta di assonanze. Atlante, qualcosa che rappresenti una mappatura di un luogo perennemente sconosciuto (il cinema probabilmente) come l’amore che fluisce flebile dentro la luce di un film, come la morte attraversata per poterlo fare, come l’immagine da ricercare nel greto di un fiume. Atlantide, l’isola leggendaria amplificata ed esposta, emersa solo nella sovraimpressione degli amanti, dell’atto stesso di amore tra le immagini. L’Atalante sono una, nessuna e centomila tracce. Da quelle più visibili (l’orologio che sarà di Bergman, le fabbriche che saranno di Antonioni, la marina finale che sarà di Truffaut) a quelle ancora sconosciute che saranno di chi vorrà in un certo senso ancora creare un nuovo mondo attraverso il cinema. L’Atalante fu realismo poetico e surrealismo, fu impressionismo e goticismo, ma fondamentalmente non fu nulla di tutto ciò, troppo scoordinato e incostante, terribilmente vivo e doloroso, il lascito di un anima purissima e corrosa dalla dolcezza infinita e dall’impossibilità (divenuta possibile) del trasferire l’anima in un’opera (il tempo ritrovato da Proust, il teatro delle viscere di Artaud, il campo di grano – qui chiatta tra le nebbie – di Van Gogh). L’Atalante fondamentalmente fa leva sulla realtà per elevarsi verso un altrove, per elevarci verso ciò che vorremmo riuscire a provare. Truffaut quando lo vide per la prima volta fu folgorato e paralizzato da quest’opera considerata così “selvaggia” e diversa, Ioselliani invece lo vide senza sapere una parola di francese e si sentì di capirlo perché di parole non ne aveva bisogno, Godard gli dedicò una scena straordinaria in Eloge de l’Amour (non a caso). L’Atalante non può essere semplicemente un film, almeno non come tutti gli altri.
L’Atalante non parla d’amore, l’Atalante è amore, lo declina. Si esprime come “Eros” nel disperato desiderio di possessione che Jean Daste prova nei confronti di Dita Parlo, nell’incapacità di coniugare un sentimento e renderlo reale e dunque possibile. Si evolve come “Filia” nel rapporto libero e fresco che lega lei a Michel Simon, il singolare e vecchio marinaio cosparso di gatti come di tatuaggi, che insegnerà a entrambi l’amore attraverso l’assenza. Trova il suo culmine infine in “Agape”, il dono di sé, il dono di entrambi, attraverso l’occhio e il corpo, l’immagine e un’altra immagine, quella di chi sogna e quella di chi vede, quella dell’autore come quella dello spettatore. È lo stesso dono che Vigo fece di se stesso al cinema, che può lottare contro la morte (essendo già doppiamente passato, nell’atto di essere ripreso ed in quello di essere proiettato) essendo consapevole di poterla vincere. Ma tutto ciò può davvero esistere? Il mondo è un luogo troppo corroso, e noi stessi lo siamo; quando loro sono distanti (lui per mare, e lei sulla terra) si cercano in continue dissolvenze di pura sensualità, ma non si trovano, non si appartengono, le immagini scivolano l’una sull’altra in attesa di uno stacco, di un qualcosa che le separi ancora una volta. Se davvero può esistere tutto questo, di sicuro non è nella realtà, ma in un universo di relazioni parallele che ci portano ad aprire gli occhi sott’acqua perché siamo davvero convinti di poter così vedere il nostro amato, nella magia del mito, di ciò che non possiamo e vogliamo spiegarci. Come se qui fossimo solo capaci di vedere l’assenza, il non guardarsi per non potersi conoscere, il lasciarsi consumare da una società che svanisce nei bisogni effimeri di una struttura, della sicurezza, della programmazione. In tutto ciò Vigo assume il senso di una figura pienamente e laicamente cristologica, capace di sacrificarsi allo stremo per poterci indicare una strada, una via, una possibilità, donando la sua vita su celluloide per darci la forza di amare, nel modo più umile, folle e disinteressato possibile. Rimane così questo lunghissimo congedo dalla ragione, dall’amore, dalla destinazione, il viaggo dell’Atalante (l’infinito, di un non finito), la precarietà dolcissima e terribile di un sentimento che stride di disperazione e libertà. L’Atalante potrebbe in fondo essere una specie di regalo a noi stessi, esseri vicini che proviamo distanze sempre meno colmabili, invitandoci a convivere con quella distanza, ad accettarla e percorrerla solo per poterci vedere anche la durata di un fotogramma. Come se ce ne rimanesse solo uno, e senza dubbio sarebbe di questo film.
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Erik Negro