“La mafia non è più quella di una volta”
Ciccio Mira, impresario
2011, la realtà, sinossi#1 – Dopo sei mesi di serrate trattative, il senatore Marcello Dell’Utri -accertato ponte fra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra, condannato in via definitiva a 7 anni di reclusione- è finalmente seduto sul velluto rosso di quella poltrona gentilizia.
La macchina da presa frontale, il taglio di luce caravaggesco che impreziosisce il quadro di un’aura tragica e misteriosa, la lenta carrellata verso di lui, il Padrino, accompagnata dal doloroso si minore di un organo. La diffidenza iniziale per le domande incalzanti e maliziose, poi il senatore piano piano si apre. “Se Berlusconi parlasse, verrebbero fuori cose terribili -scappa a Dell’Utri- per esempio sul caso Mattei…”. L’immagine va avanti, mentre uno sfrigolio inspiegabile rende inservibile la traccia audio. Sei mesi buttati via per una bizza tecnologica, un film che diventa maledetto.
Franco Maresco è palermitano verace, fine umorista, genio troppe volte incompreso. Sin dai tempi del sodalizio artistico con Daniele Ciprì, il suo Cinema si distingue per la capacità di ricostruire la Sicilia e l’Italia in un immaginario assurdo, freak, allegoria grottesca e cruda nella quale, inevitabilmente, identificarsi. CinicoTV (1989-1996) è stato uno dei brand più rivoluzionari nella storia della televisione (e del Cinema che la può permeare), duro nei contrasti del bianco e nero, impietoso nel mostrare creature bizzarre e scoreggioni, erotomani ed analfabeti, puttane e prelati, per giungere all’incompiutezza umana, al degrado, allo squallore elevato ad Arte, piena ed assoluta estetica del mostro che è in ognuno di noi. Quello di Ciprì e Maresco (la mediocrissima produzione in solitaria di Ciprì ha poi provato senza dubbio alcuno quale fosse il genio fra i due) si è subito posto come uno stile unico, immediatamente riconoscibile, urticante: il cinismo è una comicità malinconica, sguardo desolato sull’incapacità di reagire, amara caricatura grottesca che tende all’orrore. Un Cinema fatto di obesi seminudi, malati mentali e vecchi dislessici, sesso con galline, masturbazione compulsiva, fagioli e smorfie, illogicità reiterate, costruzioni asimmetriche, lucido delirio antropozoocinematografico fatto di quadri ipersurreali. Un Cinema che scherza, ma mai attacca o giudica il debole, una sorta di esilarante allucinazione parallela alla realtà intrisa di umana pietas.
2012, il documentario, sinossi#2 – Palermo, quartiere Brancaccio, roccaforte berlusconiana e mafiosa. Un palco montato in mezzo alla strada, sistemato in modo che il boss Lauricella, al tempo latitante, possa gustarsi lo spettacolo dalle finestre di casa. A bordo palco, l’impresario ed organizzatore di eventi di piazza Ciccio Mira, perfetto personaggio di CinicoTV, come ricorda il passaggio al bianco e nero che caratterizza ogni sua apparizione sullo schermo. Maresco lo incalza: “Della mafia possiamo parlare?”, Mira risponde con un cenno del capo appena abbozzato, quasi impercettibile, sicilianissimo gesto in grado di indicare, più di mille parole, che “non è cosa”.
Sul palco, si alternano le voci neomelodiche, in testa Vittorio Ricciardi, ed Erik, autore del tormentone “Vorrei conoscere Berlusconi”. E’ incredibile come i cantanti neomelodici si rivelino anello di congiunzione fra cosa nostra e la camorra, napoletani che spopolano a Palermo leggendo “saluti” in diretta tv e dedicando le canzoni più suadenti agli “ospiti dello Stato”. Emerge l’omertà dei collusi, in grotteschi (mareschianissimi, pur nella forma documentario) arrampicarsi sugli specchi, siparietti dolorosamente squallidi, ignoranza dilagante ed “inspiegabile” amore incondizionato nei confronti di Silvio Berlusconi.
Lo zio di Brooklyn (1995), esordio al lungometraggio del duo palermitano, presentava già i tratti distintivi del Cinema di Ciprì e Maresco, l’inquietudine espressa attraverso mostri in mutande, espressioni ebeti, canti e balli di immotivata gioia, uomini barbuti che interpretano donne, il siciliano strettissimo contro il mutismo ostinato del protagonista, impietosamente coperto da un peto nel suo unico, finale, proferire parola. Quello di Maresco è un surrealismo figlio di Eraserhead e, in un certo senso, di Fantozzi: c’è un profondo senso di denuncia sociale che si insinua nelle risate delle sequenze più demenziali, c’è un’identificazione da parte dello spettatore che, nonostante l’assurdo, scatta atavica. Il pastore che fa sesso a pagamento con un’asina, scena madre del film d’esordio, è la proiezione allucinata del degrado delle strade, delle piccole e grandi ingiustizie degli uffici, della natura animale dell’uomo, di una Sicilia-mondo da cambiare senza però scorgere reali prospettive di futuro. Non a caso, Ciprì e Maresco decidono di riproporla come sequenza iniziale, autocitazione cinefila in un graffiato 35, nel secondo, censuratissimo, lungometraggio, Totò che visse due volte (1998). Il film si staglia come un trattato grottesco sulla morte di Dio, ucciso da un’umanità svuotata di valori, materialista in un mondo violento. Il nichilismo che permea il film si cristallizza nell’angelo sodomizzato dalla folla dopo che gli sono state recise le ali, o nel profeta fatto sciogliere nell’acido dal boss mafioso. Totò è un film profondamente simbolico, teorico, ultima cena nella quale i soggetti pseudoreligiosi sono una fondamentale sinapsi verso l’allegoria. Non capito, il film fu accusato di vilipendio alla religione, ritirato e, solo dopo una durissima battaglia legale, rimesso in circolazione.
Dopo il geniale Il ritorno di Cagliostro (2003), mockumentary in grado di giungere, attraverso divertentissimi critici cinematografici e cardinali collusi, dall’improbabile storia della Trinacria Cinematografica ad un nano che ribalta completamente le carte in tavola tirando in ballo Lucky Luciano, seguito dallo splendido documentario Come inguaiammo il cinema italiano – La vera storia di Franco e Ciccio (2004), il sodalizio fra Daniele Ciprì e Franco Maresco si rompe, non sapremo mai se per litigio o separazione consensuale. Mentre Ciprì inizia la scalata che lo ha portato ad essere uno dei direttori della fotografia più quotati del cinema italiano, Maresco firma il primo, splendidamente vitale, ma mai distribuito e quasi invisibile, film in solitaria. Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz (2010) è un documentario accorato ed autobiografico sullo sprezzo dell’Italia ignorante, passo necessario per sviluppare i sottotesti di Belluscone. E’ il regista stesso a parlare di una sorta di trilogia della sconfitta, unico flusso agrodolce che parte dalla mafia dietro le quinte di Cagliostro, passa dalle metamorfosi italiane pronte e cannibalizzare Tony Scott e giunge alla sfacciataggine omertosa di Belluscone.
2014, la finzione -ma non troppo- cinematografica, sinossi #3 – Franco Maresco è sparito, non si trova. E’ piombato nella più cupa depressione, tanto da far preoccupare e partire per Palermo lo storico del cinema ed amico Tatti Sanguineti. Il suo film, Belluscone – Una storia siciliana è fermo ad un punto di non ritorno, “nel terribile limbo dei film incompiuti”. L’inizio, nel 2011, senza un produttore e con il progetto, forse folle, di realizzare un documentario giornalistico d’inchiesta sulle percentuali da capogiro di Berlusconi in Sicilia. Infinite ore in archivio, interviste incalzanti, fino a quel dramma audio con Dell’Utri. Il film è da reinventare, e l’incontro con Ciccio Mira è l’occasione per ripartire con rinnovato entusiasmo. Il silenzio omertoso, i cambi di argomento, il paradosso, la nostalgia del colluso nei confronti della ‘mafia di un tempo’ e il suo odio incondizionato verso i carabinieri, il degrado squisitamente mareschiano dei cantanti e del pubblico. Ci sarà però in mezzo una questione legale (risolta dagli intermediari d’eccezione Ficarra e Picone), ed un nuovo stop obbligato per l’arresto del protagonista Ciccio Mira. Tatti Sanguineti è il personaggio fondamentale per reinventare il film una terza volta e chiuderlo, narratore che tiene le fila di un discorso meravigliosamente strabico, giungendo all’assoluta efficacia. Sanguineti gira per Palermo ricostruendo la storia di Belluscone e Berlusconi, incontra il “pazzo con gli occhiali che parla solo di cinema” Francesco Puma -nota frequentazione del cinema mareschiano ma anche delle proiezioni festivaliere, momento di standing ovation alla premiére veneziana- in grado di regalare meravigliosamente esagitate chicche sulla filmografia di Veronica Lario, scopre nuovamente le zone più colluse, scopre nuovamente i personaggi più assurdi, scova la video intervista al pentito Gaspare Mutolo, è la fiction necessaria per cucire insieme i molti filoni documentaristici che Maresco ha seguito per quasi tre anni.
Il progetto originario di Franco Maresco prevedeva giornalismo d’assalto e comici paradossi, ma Belluscone – una storia siciliana, nei suoi tre film in uno, è diventato molto di più. E’ diventato un esilarante quanto angosciato trattato sull’Italia, sui silenzi, sui vizi e le estrosità bifronti che la pervadono, ma anche un film sulla fine, amaro nella consapevolezza di essere fuori tempo massimo. E’ finito il tempo a disposizione, è finita l’urgenza, è finito il senso stesso di un’operazione del genere, è finito il berlusconismo lasciando lo spazio all’inquietudine Renzi, mostrato dalla DeFilippi nel suo terribilmente fonziano giubbotto di pelle. E’ finito tutto, forse è finito anche il Cinema. Belluscone, mentre esonda di graffiante comicità facendo un po’ di luce sulla trattativa stato-mafia, è al contempo pervaso da una greve disillusione che colpisce con la violenza di un epitaffio: è un film che vorrebbe nascere postumo, ma trova in questo suo essere fuori tempo un’accorata atemporalità che giunge all’eterno. Non sappiamo se sarà l’ultimo film di Maresco, quel che è certo è che Belluscone – una storia siciliana è una delle visioni più essenziali degli ultimi anni, Capolavoro spassoso quanto struggente, manuale di linguaggio cinematografico. Franco Maresco si conferma Autore fuori dagli schemi, combattente nel portare avanti il proprio Cinema, esuberante nella sua essenzialità, fine umorista della farsa e della tragedia. Il confine fra documentario e fiction è sempre più rarefatto, sfondato, compenetrato, il reale è seme del paradosso, per un Cinema totale, eretico, deforme. Necessario, non solo in Italia. Belluscone – una storia siciliana è la summa del Cinema di Franco Maresco, Capolavoro già fuori dal tempo, speranza che un certo tipo di Cinema e società sia ancora possibile.
Marco Romagna