1 Giugno 2017 -

CUORI PURI (2017)
di Roberto De Paolis

C’è ben più di un filo, a legare i tre film italiani presentati alla Quinzaine des Réalisateurs 2017, e probabilmente anche la metafora della catena e dei suoi anelli, in questo caso, sarebbe più che mai riduttiva. Perché A ciambra di Jonas Carpignano, L’intrusa di Leonardo di Costanzo e ora anche Cuori puri, interessante esordio del romano Roberto De Paolis, non si limitano a dialogare apertamente fra di loro, ma sembrano quasi essere tre parti di uno stesso polittico potenzialmente infinito. Un polittico cinematografico apertamente politico e sociale, che nasce, oggi come ieri, dall’urgenza di capire le situazioni, di vivere intimamente i luoghi, di raccontare l'(a)normalità quotidiana. Fra la Gioia Tauro di rom e profughi africani mostrata/messa in scena da Carpignano, la Napoli chiusa a riccio per difendersi dalla camorra fino ad alimentarla raccontata da Di Costanzo e, appunto, la Roma di borgata di De Paolis, fatta di bulli di quartiere e di bigottismo religioso, fatta di razzismo serpeggiante e di una solidarietà che forse mira più che altro a ripulirsi la coscienza, fatta di promesse da (non) mantenere e di Cuori che rimarranno puri nonostante tutto, emerge in realtà un discorso molto più esteso e storicizzato, una sorta di mosaico d’Italia in costante costruzione sin dalla prima pietra posta da Roberto Rossellini. È un unico discorso che ancora oggi, dopo essere stato portato avanti nel corso degli anni dai mille sguardi e dalle mille modalità narrative che hanno reso straordinario il cinema di ispirazione (neo)neorealista dei vari Rosi, Pasolini, Petri, Monicelli, Garrone e Germi (ma l’elenco potrebbe andare avanti a lungo, tirando dentro a loro modo anche il Fabio Bobbio de I cormorani e il Comodin del dittico L’estate di GiacomoI tempi felici verranno presto), continua a concentrarsi, una tavola cinematografica dopo l’altra, sulle ambiguità del presente, e sulla speranza che le riflessioni e il cuore del mezzo cinema possano forse aiutare a migliorare il futuro.
Ecco, nulla c’entrano a livello assoluto con gli indispensabili e ingombranti paragoni storici testè scomodati, ma i tre italiani argutamente selezionati con rara coerenza e visione d’insieme dalla Quinzaine 2017 sono tre contributi che sembrano appartenere allo stesso grande disegno socio-cinematografico, come frammenti/tavole di un lavoro di mappatura geografica e sociale dell’Italia e dei suoi emarginati alla ricerca di riscatto che va avanti ormai nei suoi vari filoni da oltre 70 anni, e che sembra ben lontano dall’estinguersi. In questo senso, quella fatta emergere dalla selezione italiana della Quinzaine1 è stata, prima di tutto, una lingua cinematografica viva e pulsante, accorata e coerente, fatta di bassi costi di produzione e di acuta osservazione, fatta di una radicalizzazione nel territorio e nelle sue caratteristiche e derive con sguardo che mai si fa giudicante, che mai si permette di sentirsi al di sopra dei suoi personaggi, ma che con loro si schiera e combatte giorno dopo giorno. Il neorealismo, nelle sue nuove declinazioni e nelle sue nuove classificazioni, sopravvive e si adatta ai tempi e alle situazioni, continua a raccontare gli anfratti più in ombra del Bel Paese, tiene sempre al centro la povertà e le tare socioculturali tipiche delle mille facce d’Italia, fotografa una realtà che costringe la finzione in percorsi obbligati e quasi sempre dolorosi, ma soprattutto mai dimentica di avere a che fare con esseri umani, da accettare così come sono nei loro pregi e nei loro difetti, nel loro cuore e nei loro errori, nella loro appartenenza e nella loro difficoltà.

Nello specifico, la Tor Sapienza raccontata da De Paolis in Cuori puri è in sostanza, al di là degli imparagonabili risultati cinematografici e poetici, e al netto dei ragazzi di vita, ancora quella borgata che fu di Pier Paolo Pasolini; è quella periferia romana di degrado e di affitti non pagati, è quella vita ai margini della capitale, ai margini della società, e forse anche necessariamente ai margini della legge. È quella stessa borgata di disprezzo, ingiustizie, classi sociali, di ignoranza che mai è una colpa ma è sempre una pena; è quella stessa borgata che preferisce la minaccia e la scazzottata al confronto civile, è quella stessa borgata che, per non sentirsi all’ultimo gradino della società, finisce troppo spesso per prendersela con gli unici ancora più deboli, gli stranieri, come se servisse un capro espiatorio per le proprie frustrazioni e per i propri insuccessi. E Tor Sapienza è anche, dall’altra parte, quella stessa borgata che magari vive un rapporto ancora medievale con la religione, quella stessa borgata che non sa rendersi conto del confine fra protezione e repressione, quella stessa borgata che non riesce ad accettare che la propria figlia ormai sia adulta, e vive in un tale terrore che la “troppo piccola” diciottenne possa perdere la verginità da finire per stimolarle ulteriormente il gusto del proibito, se non altro come necessità di evadere. Tor Sapienza è quella stessa borgata che, sempre alla figlia, ancora organizza feste a sorpresa in casa fatte di mamme, amici della parrocchia e bottiglie di Fanta sul modello delle scuole elementari; è quella stessa borgata che sequestra un cellulare per uno scambio di messaggi ritenuti “sconci”; è quella stessa borgata che porta inevitabilmente la propria figlia, fra repressioni, pressioni e visite ginecologiche per accertarsi della sua virtù e della sua sincerità, a vedere il suo corpo e la sua sessualità come un tabù, il proprio normalissimo desiderio come una colpa, la castità (per lo meno) fino al matrimonio come unica possibilità di mantenere il proprio cuore puro. Ma anche come unica possibile via di trasgressione alle angherie “a fin di bene” di un’obnubilata madre monacale, perché forse i veri Cuori puri sono quelli che sanno aprirsi ai sentimenti, sono quelli che sanno concedersi, per davvero.

Vengono da due mondi apparentemente opposti e che invece appartengono allo stesso mondo, Agnese e Stefano, lei tutta casa e chiesa figlia di fanatica cattolica che la controlla come se avesse cinque anni, lui indipendente figlio di padre violento e di madre disagiata, bulletto di quartiere che si guadagna onestamente la pagnotta ma quotidianamente vede i propri sogni soffocati da una realtà sempre più ostile e opprimente. Il loro incontro non può che essere di corsa, quando una sconfina nel mondo dell’altro, quando si scambiano in sostanza i ruoli, con Agnese che ruba un cellulare per sostituire il suo iPhone tenuto sotto sequestro dall’inquisizione materna, e con Stefano guardiano al centro commerciale che, per essersi fatto impietosire e averla lasciata andare, non potrà che perdere il lavoro e finire a controllare un inospitale parcheggio confinante con un campo nomadi. Campo nomadi nel quale ovviamente Agnese, seguendo le opere di carità della madre, finirà per incontrare ancora Stefano. E ben poco potrà, contro la chimica umana, il terrore ancestrale di una madre bigotta e iperprotettiva, ben poco potrà la modernità ostentata (“Dio è come un navigatore che ricalcola il percorso per portarti sempre sulla retta via”) di un parroco invece talmente retrivo da riuscire convincere i giovani a rinunciare al sesso, ben poco potrà l’anello sul quale promettere la castità: vincerà la reciproca attrazione, vinceranno i sentimenti contrastanti, vincerà la necessità di scoprirsi, di pentirsi, di (ri)trovarsi. Di divertirsi, forse, “voltare le spalle” all’autocontrollo, tappa fondamentale per amarsi. È una storia d’amore (im)possibile, quella fra Agnese e Stefano, è l’incastro di due facce (in)compatibili dello stesso mondo, della stessa borgata, della stessa situazione a cui rispondono in maniera opposta e complementare. È una storia profondamente proletaria, fatta di operai e di campi rom, fatta di minimarket aperti la notte e gestiti da altri sfruttati, fatta di reti divelte e di genitori sfrattati dopo due anni di affitto arretrato, fatta di pistole giocattolo e di fughe in moto, fatta di responsabilità e di litigi, fatta di indecisioni e di momentanei abbandoni, fatta di licenziamenti e di derive xenofobe dettate dalla frustrazione come cadute morali dalle quali prontamente rialzarsi. Ma soprattutto, quella raccontata nel film d’esordio da De Paolis, è una storia di profonda sincerità, che si innesta nella naturalezza dei due giovanissimi (e anch’essi esordienti) protagonisti Selene Caramazza e Simone Liberati, pronti a catalizzare tutto il loro vissuto nei personaggi messi in scena per librarsi nella tenerezza intermittente e frustrata della loro moderna incarnazione di Romeo e Giulietta.

De Paolis riflette, con lo sguardo di una macchina da presa a mano quasi documentaristica, fatta di pedinamenti e di primi piani, sempre vicina, fisicamente e umanamente, ai personaggi e alle loro minime variazioni d’umore, sulla borgata e sulle sue diverse forme di degrado, ma anche sulla sua estrema disponibilità, sulla sua voglia di raccontarsi e di rialzarsi, sulla sua profonda dignità anche quando, costretti dagli eventi e dalla contingenza, ci si deve fare schifo vendendo “mezzo pezzo” di coca a un ragazzino di dodici anni, perché questo mondo castrante va così, e il ragazzino la comprerebbe dal prossimo disperato costretto a venderla. Viviamo in un mondo che preferisce “aiutare i bisognosi” facendo beneficenza piuttosto che lottare per evitare le situazioni che riducono questi uomini al bisogno, allo spettro del vagabondaggio, alla fame: è questo uno dei punti fondamentali di Cuori puri, film che al dare risposte preferisce aprire a un mare di domande, preferisce lasciare sempre intuire come la verità stia nel mezzo, come non esista un solo sentiero da percorrere né una sola faccia della realtà. Si pensi alla religione, che qui nella sua estrema invadenza e nel suo regolare a suon di divieti le vite dei credenti appare quasi come una tara di 5-6 secoli fa, eppure l’aiuto dato per Fede ai bisognosi è reale e tangibile, e quando i ragazzi della parrocchia daranno ospitalità a un gruppo di rifugiati musulmani, avranno l’accortezza di staccare dai muri le immagini sacre – ovvero il motivo per cui stanno offrendo loro aiuto – per rispetto di chi arriverà. E come gli scribi che stavano per lapidare l’adultera vennero fermati dal “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” di Gesù, così Agnese verrà fermata nelle sue remore proprio dal sacerdote, e sarà l’amore a trionfare, sarà la macchia di sangue sul lenzuolo, saranno le cosce tinte di rosso, ma poi sarà anche la nuova indecisione, il non riuscire a dirlo alla propria vescovile madre. E sarà quindi il mentire, il plasmare la realtà della sofferta e felice consensualità nel racconto di uno stupro da parte di stranieri, che apre alla circolarità di un nuovo inseguimento, di un pentimento sul pentimento, di un nuovo abbraccio e di un bacio chiarificatore con Stefano.

Sia ben chiaro: non è un film perfetto, quello di De Paolis, e nella rosa dei tre italiani della Quinzaine, pur non sfigurando affatto, risulta come il meno incisivo. Non mancano ripetizioni a volte schematiche nei montaggi alternati, non mancano problemi di scrittura e dialoghi a volte scolastici, non mancano scelte incongruenti dei protagonisti (perché ad esempio Agnese, se come dice non vuole davvero allontanarsi da Stefano, spegne il secondo telefono e unico del quale il ragazzo abbia il numero?), non mancano lungaggini e momenti altalenanti figli dell’osservazione della naturalezza e dell’improvvisazione dei giovani “se stessi” che si dividono equamente la scena, e forse sono un po’ troppi tutti i campi semantici (la religione, lo sfratto, i rom, l’amore, lo spaccio, la malavita, la violenza urbana, le provocazioni di una guerra fra poveri) messi tutti in un calderone al quale interessava più che altro ragionare sul luogo e sulla sua fauna umana, e non sulle sottotracce o sulle potenzialità metaforiche e poetiche dei singoli elementi. Ma sarebbe oltremodo ingeneroso attaccare per qualche difettuccio formale e qualche limite un’opera prima con un simile sguardo umano e proletario, con questa ben precisa idea di cinema e con questo rigore nella messa in scena, con questo afflato sociale e con questa capacità di dirigere gli esordienti, con questa capacità di scavare nelle complessità magari non senza scivoloni narrativi o vane digressioni, ma per lo meno senza mai sconfinare nella retorica o nella tesi precotta. Cuori puri non è un “bel” film, ma è un film estremamente interessante, sincero ed emotivo, acuto e stratificato, da difendere e da sostenere, e non possiamo che essere felici di saperlo regolarmente nelle sale, già in questi giorni, distribuito da Cinema, così come non possiamo che scommettere per il futuro in un’ulteriore maturazione di De Paolis, talentuoso e con la giusta umanità. Cuori puri è l’ennesima tavola di un grande polittico di uomini e di città, è l’ultima – in ordine di tempo – pennellata di un grande affresco destinato a regalare ancora brandelli di Storia. È un cinema di cui, ancora e forse sempre di più, e a prescindere dai risultati dei singoli film, c’è un forsennato bisogno. Se non altro per riscoprirlo in futuro, e poter vedere, davvero, “come eravamo”.

Marco Romagna

1 Del resto, tornando con la mente alla selezione italiana effettuata dalla Quinzaine des Réalisateurs già lo scorso anno, questo discorso era già stato affrontato con Fiore di Claudio Giovannesi, altra storia di emarginati di borgata che cercano fuori e dentro dal carcere il proprio riscatto attraverso l’amore, come pure con le pazienti psichiatriche di diversa estrazione sociale messe in scena nelLa pazza gioia fra il Nord Italia e la Versilia di Virzì.

“Cuori puri” (2017)
115 min | Drama | Italy
Regista Roberto De Paolis
Sceneggiatori Adriano Chiarelli (collaborating writer), Roberto De Paolis (screenplay), Luca Infascelli (screenplay), Carlo Salsa (screenplay), Greta Scicchitano (screenplay)
Attori principali Selene Caramazza, Simone Liberati, Barbora Bobulova, Stefano Fresi
IMDb Rating 7.4

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