24 Maggio 2017 -

HAPPY END (2017)
di Michael Haneke

Prima di tutto, urge una premessa, che poi sono in realtà una serie di premesse. Normalmente non amo più di tanto le recensioni scritte in prima persona, per lo meno non quelle a mia firma, e cerco di evitarle a meno che il film in questione, o qualche cosa di contingente, non necessiti di una lettura il più possibile personale che vada a pescare nel mio vissuto. Trovo l’“io”, quando coincide con me stesso – come dire? – un po’ arrogante, troppo poco umile, inutilmente autoreferenziale, forse meno professionale, meno votato alla ricerca di un’oggettività che forse, quando ci si interroga sull’arte, è impossibile da raggiungere, ma che viene perseguita con tutte le forze dal sottoscritto e da questa piccola rivista online che ho fondato e gestisco. Nelle ripetute coperture festivaliere delle quali ci nutriamo, l’obiettivo di CineLapsus, come speriamo si sia evinto in questi nostri (pochi, per ora) anni di attività, non è quello di dare un giudizio di merito, che in quanto opinione è a prescindere un qualcosa che spesso nasce solo per cambiare ed evolversi; la “missione” primaria di CineLapsus è quella di cercare di capire i film, di tentare di sviscerarne il senso, di approfondirli, di andare in giro per le sezioni alla ricerca di nuovi modi di raccontare per immagini, cercando (quasi) sempre con tutto il cuore di amarli, e solo molto dopo viene l’opinione “bello/brutto”. È il motivo per cui la rivista è orgogliosamente senza voti, e per cui il semaforino che appare in alto a destra non è una valutazione vera e propria, ma più che altro una guida alla lettura, una piccola anticipazione di quello che sarà più o meno il tono dell’articolo che seguirà, un tentativo di risposta alla fatidica domanda “ti è piaciuto?” nella quale il “si” va dal film interessante al maggiore capolavoro della storia del cinema, senza ulteriori classificazioni. Tuttavia questa volta, nell’introdurre Happy End, il nuovo lavoro del regista austriaco Michael Haneke che, come di consueto dopo due Palme d’Oro consecutive (nel 2009 fu la volta di Il nastro bianco, nel 2012 quella di Amour), trova la prima mondiale in concorso al Festival di Cannes, il semaforo presenta un’illuminazione che sarebbe impossibile per regolare un incrocio, con il rosso e il verde accesi in contemporanea a contraddirsi a vicenda. Non si tratta di un bug informatico, non si tratta di un cortocircuito, come non si tratta – mi auguro – di un mio impazzimento. Si tratta semplicemente del motivo per cui, di Happy End, è impossibile parlare se non in prima persona, come è impossibile, forse, (non) dare quel fatidico e fantomatico giudizio di merito di cui non mi è mai importato più di tanto.

Questo perché è Michael Haneke il primo a parlare in prima persona, a dare giudizi, a mettersi al centro su un podio dal quale guardare con il suo ghigno raggelante di glaciali inquadrature fisse e di rare e asciutte panoramiche i suoi (disgustosamente ipocriti, ma pur sempre uomini) personaggi che marciscono e si decompongono nella loro borghesia di arredamenti pesanti e di sorrisi di facciata, nei loro “Schiavi algerini” da umiliare anche quando si fanno loro i complimenti, nelle loro chat erotiche di fantasie sul culo, nei loro accordi economici sottobanco, nelle loro continue bugie, nei loro rapporti interpersonali insinceri e regolati dalle convenienze, e nei loro schermi e nelle loro tastiere che tutto controllano, tutto (s)compongono, tutto (de)codificano, come l’unico barlume di realtà e di sincerità in un mondo di salotti, incomunicabilità, parenti serpenti, maschere e bugie. In questo senso Happy End, come e più del solito nella filmografia di Haneke, è (stato) per me un film profondamente fastidioso e a tratti insopportabile, algido nel suo rigore formale, eticamente imperdonabile per come disprezza i suoi personaggi/spettri inetti incapaci di reagire, per come li umilia, per come li distrugge sbattendo loro in faccia tutte le loro inadeguatezze, tutte le loro aridità, tutta la loro incapacità di muoversi, a partire dalla sedia a rotelle su cui siede il patriarca di famiglia cui dà voce e fibra Jean-Louis Trintingnant. È un film che non ho potuto fare altro che odiare con ogni mia forza per novanta lunghissimi minuti, cinico e altezzoso nel mettere in scena in maniera totalmente priva di pietà la progressiva discesa agli inferi della borghesia, freddo e calcolatore nei tempi, nelle simmetrie, nelle posture, in una distanza fisica ed emotiva (si veda su tutte il campo lunghissimo e fisso scelto per inquadrare la sequenza in cui il rampollo dai problemi psichiatrici, l’unico personaggio vagamente vitale e alla ricerca di uno scontro anziché di una mera transazione, fa a botte e le prende) che assurgono a livelli di disumanità che dovrebbero essere passibili di denuncia. Ma Happy End, poi, di minuti ne ha altri venti, nei quali lo sguardo eticamente imperdonabile dei primi novanta viene contestualizzato, va a chiudere il cerchio metaforico e filosofico, quasi si ribalta, aprendo a inaspettati e insperati squarci di umanità repressa fino al finale atrocemente sublime, potente, condivisibile, lampante. Annichilente, nella sua chiusura degli orizzonti proprio di fronte all’orizzonte sterminato della Manica, nella sua assoluta mancanza di vie di fuga, quando nemmeno la morte può liberare i personaggi dalla propria (auto)imposta marcescenza. Non si può sfuggire all’Happy end di un oggetto cinematografico da maneggiare con cura, paradossale nel suo risultare al contempo orribile e magnifico, al contempo da attaccare e da sostenere, al contempo borghese nello sguardo e antiborghese nelle intenzioni, fastidiosamente superbo nei modi mentre esercita violenza psicologica sui suoi personaggi con gusto asettico e spietato, ma rigoroso, coerente e fortemente politico nei messaggi/bordate contro una borghesia senza più ragion d’essere, fuori dal tempo ma ancora in sella, arroccata alla propria piccola fetta di potere dal quale calpestare chiunque si possa frapporre. È una borghesia ormai (sempre più) ambigua e ipocrita, nella quale non esistono più sentimenti, ma solo commerci, convenienze, una routine di bugie e di schermi dei più disparati dispositivi, di ordini e di cause di forza maggiore, di controllo e di sguardi indiscreti, dove anche accendere e spegnere la luce in bagno sembra calare dall’alto su personaggi incapaci di prendere iniziative, di scuotersi dal loro destino ammuffito.

Happy end è un puzzle, è un ritratto multigenerazionale di famiglia disgregata che finge di essere unita in più interni, è l’ennesima distruzione sistematica della borghesia e delle sue ambiguità. Ma è anche una riflessione di Michael Haneke su tutto il proprio cinema, sorta di opera omnia costellata di riferimenti, di attori e di nomi che ritornano dai suoi precedenti lavori, di tematiche insistite, di coerenza formale e linguistica eticamente discutibile, ma cinematograficamente inattaccabile. C’è il patriarca ottantacinquenne (ancora Trintignant) e ci sono i suoi due figli – lui medico divorziato con figlia tredicenne, nuova moglie da sfoggiare e amante a distanza con cui intrattiene luride sessioni di chat; lei (ovviamente Isabelle Huppert) dirigente d’azienda con marito inglese e figlio psicopatico con il quale non riesce ad avere una vera e propria relazione, ma solo momenti di scontro (mai fisico, quelli fisici si possono trovare solo sotto le case popolari e non certo nel lusso degli arredamenti d’antiquariato) nei quali non guardarsi mai negli occhi. E poi c’è la deviazione sessuale che, oggi come ai tempi di Buñuel, serpeggia sotto la coltre di ostentata perfezione e puritanesimo come primaria ipocrisia; c’è il voyeurismo degli smartphone e di una chat mai cancellata sul computer; c’è l’anziano ormai paralitico che ormai vorrebbe solo essere aiutato a morire; e c’è la servitù rigorosamente di origine africana, perché questa borghesia europea, per sopravvivere, non può che ciarlare di integrazione mentre continua imperterrita a sfruttare i più deboli, i più poveri, quelli con meno diritti, quelli che rischiano di morire in cantiere sotto una frana per foraggiare le casse della società. Non è certo un caso, in questo senso, che ci si trovi a Calais, ultima spiaggia dell’Europa unita di recente mutilata dalla Brexit, porto di scambi e di lingue nel quale l’unico modo per rapportarsi agli altri è quello di commerciare, dove non esiste fiducia, dove non esiste umanità nemmeno quando una frana uccide un operaio nella propria azienda, dove non c’è nemmeno un barlume di sincerità che possa perforare le maschere di cera dei ruoli costruiti e recitati ogni giorno. “Non hai mai amato la mamma, non ami Anais, non ami me. Tu non ami nessuno, ma non è un problema, basta saperlo” dice la figlioletta al padre mettendolo con le spalle al muro dopo avere già tentato il suicidio in seguito alla scoperta delle sue chat erotiche sul computer. E se il compleanno del vecchio patriarca sarà per lei in sostanza il primo vero contatto con un nonno freddo e disgustoso almeno quanto il padre, pochi giorni dopo e quasi per caso fra i due si instaurerà l’unico rapporto di fiducia di tutto il film, l’unica possibile chimica umana, e di fronte alle vecchie foto Amour diventerà ancor più dichiaratamente il punto di partenza di Happy end, ben oltre l’ossessione per la morte. Un solo personaggio è vitale in un mondo di trottole che stancamente rigirano sul posto: il figlio pazzo, e quindi libero, del personaggio della Huppert, quello che ci (ri)mette la faccia, il fisico e il sangue, quello che provocatoriamente dice la verità, e quindi, necessariamente, quello che porterà al pranzo di gala, distruggendo l’etichetta e puntando i fari sull’ipocrisia in primis di sua madre, gli operai africani quotidianamente sfruttati, oggi a tavola con i padroni. È l’imbarazzo, è l’onta, è La caduta degli dei: “Portami via”, chiede il nonno alla nipote, e insieme si incamminano verso il mare, liberatorio assassino, o forse illusione, perché nemmeno la freddezza e il voyeurismo che sostituiscono l’umana comprensione possono annullare la puntualità del temuto Happy end.

Tutto questo, che in mano ad altri registi sarebbe potuto diventare un calderone ribollente di commozione, viene filtrato dalla macchina da presa Michael Haneke, dalla sua glaciale distanza, dal suo odio malcelato nei confronti dei suoi personaggi. Eppure, nelle sue (im)perdonabili provocazioni, nella sua sogghignante superbia e nella sua prammatica freddezza, Michael Haneke è indubbiamente un autore “vero”, la cui discutibile autorialità così impietosamente entomologica è probabilmente necessaria per poter esplicitare le proprie chiare metafore e per poter mandare a segno le sue invece condivisibili stoccate socio-politiche. Non è un discorso legato solo a Happy end, ma è un discorso di sguardo, di etica, di mancanza di afflato umano che si ritrova con granitica coerenza in giro per tutta la filmografia dell’autore austriaco. Alla fine dei film, quando si riaccendono le luci dopo un finale di rara potenza cinematografica, rimangono sempre le stesse domande, gli stessi amletici dubbi ai quali, nel caso di Haneke, probabilmente mai riuscirò a trovare una risposta. Fino a che punto il fine etico giustifica i mezzi antietici? Quanto si può/bisogna essere borghesi per poter smascherare e distruggere la borghesia? Fino a quale punto ci si può spingere verso il reazionario pur di giungere di riflesso alla rivoluzione? E ancora, alla base, quanto un solo uomo, anche se si tratta di fine e rigoroso intellettuale come Michael Haneke, può davvero permettersi di parlare in prima persona, può ergersi a vate, può sentirsi così tanto superiore ai personaggi che mette in scena come se fosse immune dai loro difetti? Avranas con i suoi sogghignanti sguardi in macchina prima di far suicidare una bambina (v. Miss Violence) di sicuro non può; Seidl, algido e altezzoso osservatore/costruttore dello squallore umano, nemmeno. Ma il fine umanista Lars von Trier, tanto per dirne uno, se lo può anche permettere, perché il suo cinema è sempre autobiografia, femminismo straziato erroneamente scambiato per misoginia, depressione vissuta quotidianamente sulla propria pelle. Michael Haneke, regista cerebrale e calcolatore, a quale categoria appartiene? Ai reazionari o ai rivoluzionari? Ai vuoti provocatori o a chi legittima con la sostanza – concettuale e umana – un’autorialità necessariamente spietata? Ai boriosi narratori dell’altrui boria o ai più radicali pensatori moderni? E in ultima istanza, molto più prosaicamente: questo film indubbiamente interessante, indubbiamente “da vedere”, mi è piaciuto o mi ha fatto incazzare? Sono domande a cui è forse impossibile dare una risposta univoca, o quantomeno personalmente non ci riesco, tanto è netta la posizione autoriale di Haneke, tanto è riconoscibile la sua impronta, ma anche tanto è lapalissiana la sua antipatia, la sua arroganza, il suo sentirsi senza peccato. Happy end è un film disprezzabile che, non certo per noia ma puramente per una questione di sguardo, ho per la maggior parte sopportato con grande fatica. E sempre Happy end è un film magnifico che, nell’ultima fase, ho amato profondamente, in maniera viscerale, nell’empatia impossibile che emerge e che vola oltre le generazioni, oltre gli schermi negli schermi, oltre l’ultima splendida bizza di una mente malata, oltre l’ultima speranza frustrata di chi non riesce nemmeno a morire, sopraffatto dal vortice di Happy end che piombano a fermare anche il moto ondoso. Con Haneke vale quasi tutto: vale l’amore, vale l’odio, vale il fastidio, e forse vale anche stare a metà, amando e odiando allo stesso modo un film orribile e magnifico. Del quale non si può che parlare in prima persona.

Marco Romagna

“Happy End” (2017)
107 min | Drama | France / Austria / Germany
Regista Michael Haneke
Sceneggiatori Michael Haneke
Attori principali Isabelle Huppert, Jean-Louis Trintignant, Mathieu Kassovitz, Fantine Harduin
IMDb Rating 7.2

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