Okja è un simpatico e gigante maiale transgenico, dalle fattezze in CGI che vorrebbero ricordare, con tanto di citazioni esplicite di pisolini sulla pancia, Totoro, e che invece finiscono, come maliziosamente sottolineato dalle battutine festivaliere fra la stampa italiana, per riportare alla mente Pippo, l’ippopotamo blu dei pannolini Lines di metà anni Sessanta. La sua padroncina Mija l’ha ricevuto in dono quando aveva solo 4 anni e lui era un cucciolo, e insieme sono cresciuti scorrazzando felici per le campagne e i boschi coreani, salvandosi la vita a vicenda di fronte ai dirupi e giocando insieme al fiume. Ma ora la Miranda, la multinazionale che ha creato Okja, si ripresenta per reclamarlo, e Mija sarà costretta ad andarselo a riprendere, prima a Seul e poi fino in America. Presentato in concorso a Cannes, il nuovo lavoro del regista sudcoreano Bong Joon-ho – ma ormai lo si può considerare pressoché statunitense per co-produzione e lingua di buona parte dei dialoghi – è una fiaba ad altezza ragazzino, è un’avventura dall’afflato anticapitalista ed ecologista, è una storia di eroismo e di amicizia, che dal vascello dell’azione circumnaviga le coste del fantastico per scagliarsi contro i potenti e nel frattempo ironizza in un mondo di caricature su come, specialmente all’interno dell’agguerrito Fronte Liberazione Animali che finirà per aiutare Mija nella sua impresa e per smascherare le malefatte della Miranda, sia spesso sottile il confine fra le ragioni granitiche e la più controproducente ostinazione, fra la bontà d’animo e la stupidità di chi non comprende la necessità dei compromessi.
Okja è un film per famiglie, sfacciatamente mainstream nella sua profusione di effetti speciali e nel suo lasciar girare il motore alto, tutto sommato condivisibile – anche se un po’ troppo “facile” – nella sua presa di posizione politico-sociale e ambientalista, forse pericolosamente sul crinale del buonismo nell’happy ending e nel rapporto fra Mija e Okja che tanto ricorda quello fra Elliott ed ET, eppure meravigliosamente cupo in un prefinale di olocausti e di mancate sconfitte di un capitalismo che non vince ma nemmeno perde e forse, anche se smascherato nelle sue brutalità e nella sua disumanità al di là dei lustrini e degli spot televisivi, non perderà mai: bisogna trovare l’accordo, bisogna che tutte e due le parti siano soddisfatte, ci vuole uno scambio, un maialino d’oro per un supermaiale libero. O magari due, sfruttando una disattenzione delle guardie, l’eroismo di un genitore animale conscio di essere destinato al macello ma pronto a salvare il proprio cucciolo, e una bocca grande nel quale nasconderlo. Ma questo la multinazionale, e quindi il capitalismo, non lo sanno, e non lo sapranno mai.
Prodotto da Netflix e primo fra i pomi della discordia (il secondo sarà The Meyerowitz stories di Noah Baumbach) fra le distribuzioni francesi e il Concorso principale della settantesima edizione del Festival di Cannes, con Pedro Almodòvar presidente di giuria che farà carte false pur di escludere i film del colosso internautico dal palmarés, Okja non ha la stessa ambizione del precedente Snowpiercer (2013), non vuole costruire la stessa metafora che avanza con la rivolta nei vari vagoni/classi sociali fino alla locomotiva, non vuole, pur continuando a remare insieme ai più deboli contro un nemico più grande, replicarne la stessa potenza politica. È un film per ragazzi, che da semplice e gradevole film per ragazzi, con un occhio a Spielberg e uno a Miyazaki, svolge onestamente il suo lavoro fra risate e suspence, fra lotte tra camion e tuffi nel fiume, fra passamontagna e atti dimostrativi, fra massaggi per trasformare l’intestino di Okja in arma impropria e personaggi caricaturali, fra traduzioni a volte di comodo e tradimenti di un codice d’onore mai scritto, ma fondamentale per portare avanti le stesse battaglie. Fra buoni incapaci e cattivi ridicoli, fra accordi da raggiungere e maialini da salvare, fra trasmissioni televisive e macelli/lager, fra uno stile registico ineccepibile e gli interpreti sfavillanti – non solo la doppia cattiva Tilda Swinton nei ruoli delle due perfide gemelle Miranda, ma anche il suo scagnozzo Jake Gyllenhaal, la giovanissima Ahn Seo-hyun nel ruolo di Mija e il cuore d’oro Paul Dano – Okja intrattiene e diverte, incappando forse in qualche fase di stanca quando è necessario spiegare l’esistenza della gemella oppure come dietro alla sfilata dei supermaiali si nasconda l’inevitabile macellazione, ma riprendendosi sempre brillantemente nel giro di pochi minuti.
Certo, Okja non è un qualcosa di memorabile, è un film di rapido consumo che pare lontano anni luce dal Bong coreano di Memories of murder (2003), e probabilmente non è un qualcosa che merita il concorso più importante al mondo, ma di sicuro non merita nemmeno il solo schermo televisivo, o peggio ancora quello del pc. È a pieno diritto un film “da sala”, concepito sì per il piccolo schermo, ma che rende molto di più su quello grande, fra campi lunghi, vortiginosi movimenti di macchina, eccellenti effetti speciali e non rare trovate sonore. E, al di là delle ambizioni ridimensionate, o forse semplicemente adattate alle logiche produttive di Netflix, laddove Snowpiercer naufragava clamorosamente negli ultimi minuti deludendo le aspettative continuamente alimentate per le precedenti due ore, Okja magari a tratti rallenta, ma ha il merito di avere anche un finale, magari semplice, magari un po’ retorico, magari troppo “buono”, ma per lo meno coerente e narrativamente compiuto. Quello di Bong è un film pienamente dignitoso, meno ambizioso che in passato, ma con lo stesso afflato sociale e anticapitalista, merce rara in un cinema di rapido consumo. Bisogna solo decontestualizzarlo dal concorso di Cannes, da Netflix, dalla querelle ormai ridicola che in questi giorni sta continuando ad andare in scena in Rue de la Croisette, e forse bisogna decontestualizzarlo anche da The Host e Snowpiercer e dalle loro metafore politiche, perché anche qui c’è lo stesso sguardo proletario di Bong, ma stavolta è un modo di guardare le cose e non (più) il punto focale. Okja va preso semplicemente per quello che è: un buon modo per passare un paio d’ore di svago. Né più, né meno.
Marco Romagna