Il nome di Terrence Malick è oramai tra i più controversi e divisivi in tutto il panorama del cinema contemporaneo. Per molti appassionati può sembrare inutile ripassare le varie fasi attraverso le quali il cinema di Malick è passato attraverso il tempo, ma a ogni suo nuovo film sembra sempre più necessario rivisitare la sua filmografia per comprenderne meglio i ritmi, le tematiche, i cambiamenti stilistici. Gli esordi del regista, La rabbia giovane (1973) e I giorni del cielo (1978), sono dei capisaldi della New Hollywood, film fotograficamente eccezionali, epopee americane con al centro una descrizione degli spazi e delle interiorità dei personaggi che riporta ogni cosa a un livello emotivo umano e terreno. Nonostante l’apparente semplicità dei film, già Malick all’epoca aveva un approccio fluido e viscerale nei confronti del montaggio e dell’utilizzo delle riprese: una prova ne può essere l’esperienza di Richard Gere che, sul set per I giorni del cielo, ha detto che a fine girato l’autore ha deciso di dedicare due settimane a riprese aggiuntive per creare atmosfera con meno intensità tragica, aggiungendo che quelle inquadrature girate successivamente hanno occupato più spazio all’interno del film rispetto alla struttura narrativa originale, direttamente legata alla sceneggiatura. Il successo di questi film ha portato il regista ad ampliare le vedute del proprio cinema, dedicandosi per vent’anni a sceneggiature per un progetto incompiuto e ambiziosissimo chiamato Q, un’esplorazione delle origini del mondo, dell’universo e della vita sulla Terra. Durante questo periodo, Malick ha girato il mondo continuando a fare riprese in incognito e nel frattempo scrivendo sceneggiature per progetti incompiuti come la versione teatrale di L’intendente Sansho, che teoricamente sarebbe dovuta essere diretta dal grande autore polacco Andrzej Wajda. Il ritorno di Malick è avvenuto nel 1998, a distanza di vent’anni dal suo secondo film, con un film che per forza di cose doveva rinnovare il suo stile, e lo faceva con grandissima classe e forza registica innovativa: epopea bellica fotografata magnificamente da John Toll, La sottile linea rossa è un neoromantico ed epico viaggio morale, pieno di domande e pressoché privo di risposte, che inserisce nel mondo di Malick un nuovo tipo di retorica e di trascendenza, che trova nel montaggio scomposto e complesso forse il suo punto forte, la sua maggiore originalità. Il successivo The New World (2005), rivisitazione della storia di Pocahontas, risulta invece il primo film esplicitamente costituito da un vero e proprio flusso d’immagini senza continuità definita, lontano dalla narrazione tradizionale, definito principalmente da raffigurazioni puramente poetiche. Ma è la Palma d’Oro a Cannes The Tree of Life (2011) ad aver cambiato definitivamente le carte in tavola: già tra i film più discussi, analizzati e celebrati di inizio secolo, questo ermetico viaggio spirituale è un film omniconmprensivo e fluviale, un’esperienza universale che contiene in sé crisi spirituali, viaggi agonici ed edipici, flussi autobiografici ed effetti speciali di Douglas Trumbull (lo stesso di 2001: Odissea nello spazio), con un denso ma enigmatico spiritualismo che ha il suo apice in una resa incredibile dello spazio-aldilà nella poeticissima macrosequenza verso la fine in cui ognuno dei filoni del film si incontra. Questo sforzo gnostico e controverso ha portato verso Malick una nuova schiera di ammiratori in tutto il mondo, e ha portato il regista verso l’attuazione di una ritrovata fase prolifica e complessa, una specie di mistificazione del reale attraverso l’immagine che si è attuata con una serie di film-affluenti di The Tree of Life. Difatti, To the Wonder (2012), Knight of Cups (2015) e Voyage of Time (2016) sono proprio rami di quest’albero della vita, stratificazioni e complessificazioni di quello che il film del 2011 mostrava in maniera così indecifrabile e totalizzante, con il primo che costituisce la storia di un padre/marito (Brad Pitt che diventa Ben Affleck, il padre di Malick che diventa Malick stesso), il secondo la storia di un figlio disilluso nel mondo (Sean Penn che diventa Christian Bale) e il terzo la storia del cosmo, con spezzoni delle riprese mai completate di Q come aspetto più interessante nella fase di montaggio. In tutto questo periodo, Malick ha cercato sempre di evitare di essere fotografato, diventando una figura misteriosa e imperscrutabile, ma di recente ha cominciato a mettersi più in mostra, anche apparendo insieme a Herzog due mesi fa a una conferenza sul cinema a Los Angeles. Può sembrare ripetitivo dover sempre ricordare questa struttura, ma toccando Song to Song ci pare più che necessario, perché il film sembra essere una definitiva rottura e conclusione del processo.
Song to Song attraverso gli anni ha cambiato più volte nome, passando per Lawless e Weightless, e, come Knight of Cups, è nato già poco dopo The Tree of Life e la sua lavorazione è indefinibile in un lasso di tempo preciso. Le riprese erano già cominciate nel 2012 (personalmente ricordo con certezza di aver visto le prime foto sul set anche prima che To the Wonder approdasse al festival del cinema di Venezia) ma sicuramente all’interno del film vi sono anche riprese attuate intorno al 2016, visto che Ryan Gosling suona il pianoforte con audio registrato in presa diretta, e l’attore ha imparato a suonarlo per prepararsi al suo ruolo in La La Land l’anno scorso. Non vi è una cronologia definita, è tutto un flusso di montaggio delirante, più o meno come Knight of Cups, tant’è che molteplici sezioni del film sono state completamente tagliate, e con esse svariati membri del cast, tra i quali lo stesso Christian Bale, Benicio Del Toro, gli Arcade Fire, Haley Bennett, Samuel Ervin Beam, i Fleet Foxes, Boyd Holbrook e Trevante Rhodes, ora celebre per essere stato protagonista di Moonlight. Song to Song parte già con quest’idea, quella di una sequenza di immagini che si inseguono l’un l’altra senza coerenza, un vero e proprio turbine acqueo e amniotico che mischia il videoclip con il flusso di coscienza onirico. Una specie di mostruoso labirinto pop, che rinchiude in sé musiche dei Die Antwoord, dei Thee Oh Sees, di Iggy Pop e di Patti Smith, e poi musica classica, da Preisner a Ravel; se Voyage of Time era la Storia del mondo come una Storia digitale, Song to Song è una non-storia d’amore non consequenziale in cui il digitale serve per esprimere quest’interiorità, questa fasulla ‘joie de vivre’ fanciullesca, tosto privata di un significato, sessualizzata, gnosticizzata fino alla crisi mistica e alla distruzione della crisi mistica stessa, con l’abbandono patetico dei termini spirituali (il personaggio di Rooney Mara dice che trova imbarazzante l’utilizzo della parola «anima» – Malick si riscrive, insomma, toccando le parole che prima utilizzava più o meno esplicitamente come motore, trasformandole, rendendole volontariamente ridicole). I limiti dell’inquadratura e del formato creano la meraviglia, mostrando solo parzialmente il movimento dando l’illusione di un altro movimento. Malick stesso si muove con i personaggi, seguendo un triangolo amoroso (Gosling e Mara, Mara e Fassbender) che espandendosi include in sé un altro triangolo amoroso (Fassbender e Mara, Portman e Fassbender), in cui ogni personaggio ha le sue altre relazioni (Gosling e Blanchett, Gosling e la cantante Lykke Li, Mara e la modella Bérénice Marlohe), in un uragano in cui amore e sesso diventano quasi indistinguibili, in cui la passione è così tanto un qualcosa di puramente cinematografico e immaginario da non avere delle necessità scenografiche di distinzione, comprese allucinazioni da funghetti. L’importante è mettere in scena la passione, più che scindere essa da ciò che non è vera passione o vero amore, così che anche la più densa delle relazioni amorose possa risultare simile a ciò che invece è solo puramente sessuale. Rooney Mara è la vera protagonista del film, e alla fine al centro di Song to Song c’è la sua doppia lotta con il mondo, da una parte la ricerca di una chiusura in una coppia e dall’altra la ricerca di un posto nel mondo della musica e dell’arte. Nonostante il suo vero amore sia ovviamente sin dall’inizio quello con Ryan Gosling, non c’è praticamente alcuna differenza nel comparto visivo nel mostrare i rituali di seduzione lesbo di Bérénice Marlohe nei suoi confronti, nessuna differenza nella rappresentazione della loro esplosiva sessualità – una sessualità che, forse anche perché omosessuale, Malick non ha mai forse mostrato in maniera così libera, così poco pudìca e trascendentale, neanche in Knight of Cups che aveva al centro dell’attenzione un intricato sistema di relazioni più o meno fisiche e sessuali.
Ricordiamo che Malick è nato nella New Hollywood, e da ciò possiamo far partire due parentesi che toccano due grandi capolavori di questa corrente i cui gioielli dimenticati a volte compongono i tasselli più importanti. Il primo di questi paragoni può riferirsi proprio a questa resa delle relazioni interpersonali, all’eguale chimica che si ritrova in ogni coppia e in ogni rapporto, quasi a voler creare un’idea di un amore esistenziale senza tempo, universale, privo di limiti: Un sogno lungo un giorno (1982) di Coppola, con il suo ben definito quadrilatero amoroso, pone al suo centro un amore totalizzante, ma i due partecipanti a questo amore hanno comunque intense relazioni amorose con altri personaggi che non vengono messi in cattiva luce dall’attento sguardo del regista. L’altro paragone è invece scenografico, ed è legato all’ambientazione del festival musicale, che riecheggia uno dei film più celebrati e importanti della New Hollywood, Nashville (1975) di Robert Altman. Entrambi capolavori senza tempo del grande passato del cinema statunitense, entrambi film sull’America e sulla descrizione del suo popolo, della sua falsità, delle sue costruzioni, entrambi film molto controllati e costruiti (in particolare quello di Coppola), non viscerali e improvvisati come il film di Malick, e soprattutto entrambi film che si muovono “di canzone in canzone”, senza avere i ritmi di un musical ma scandendo il mondo stesso del cinema come un mondo che si muove musicalmente, che finisce e ricomincia ogni volta che finisce e ricomincia un brano musicale. Malick, insomma, si affida al cinema, forse per la prima volta nella sua carriera, costruendo insomma la sua estetica a partire da qualcosa che lo ha ispirato, a qualcosa di preesistente. Forse giusto The Tree of Life e Voyage of Time, prima, si rifacevano a 2001: Odissea nello spazio (1968), ma in maniera implicita, sottocutanea. Song to Song non parla di uno sceneggiatore come faceva Knight of Cups e quindi non riflette sul/nel cinema, ma rimane un film colmo di schermi proiettanti, in cui anche si ricrea un qualche folle e tremendo senso di apnea a partire dal demoniaco e cosmologico montaggio con il quale Malick fuoriesce dal film, immergendosi in Ménilmontant (1926) di Dimitri Kirsanoff, mediometraggio capolavoro del cinema muto e dell’Impressionismo Francese. Quindi si può dire che Song to Song è il film di Malick più estremo, quello che più si applica al cinema per distruggerne i limiti, con meno ambizione universalistica rispetto a The Tree of Life ma con più iconoclastia, più umanità. L’indefinizione della narrazione si sposa però con questa definizione degli spazi relazionali, con Fassbender antagonista fragile, la Portman psicolabile, le varie drammaturgie che si cannibalizzano l’un l’altra in maniera sin troppo concreta per una stilizzazione invece così astratta, danzante, in cui alla fine spunta pure una citazione a Cantando sotto la pioggia (1952) – che trovate qui sopra. Il mondo-cinema dunque finisce per essere così, per far sbucare le proprie luci più superficiali e più profonde in uno snodarsi figurativo ed emotivo – quello che conta è la raffigurazione e l’immedesimazione in essa, la comunicazione più di ciò che è comunicato, l’idea di un universo filmico così semplice eppure così fluviale, così indipendente, libero, viscerale. Improvvisato a partire dal montaggio, al punto che il cut originale durava ben 8 ore; e infatti ogni singola ipercinetica e breve sequenza sembra essere solo un estratto di un qualcosa di più grande e inafferrabile.
Nel finale, molti filoni sembrano scomparire. I pugni tra i membri dei Red Hot Chili Peppers scompaiono, il fantasma corporeo di Iggy Pop pure, scompare anche Patti Smith, più iconica e statuaria che in Film Socialisme (2010) di Godard, dopo aver suonato sul palco con Rooney Mara e dopo averle parlato della perdita del marito (Fred “Sonic” Smith, chitarrista degli MC5 morto nel 1994). Anche il luciferino Fassbender, inquadrato in steadycam mentre fuoriesce, ridendo, dalle coperte in un ménage à trois, antitesi isterica di un parto, anche lui scompare. Rimangono soli Rooney Mara e Ryan Gosling, in uno spazio vuoto e immenso come la radura in cui comincia Knight of Cups, o come i deserti tunisini di Chott el-Djerid (1979) di Bill Viola. Soli che si baciano, che si amano, purificati in uno spazio cinematografico limpido. Ed è di nuovo La rabbia giovane, l’uomo e la donna, la New Hollywood e la Nouvelle Vague, la catarsi di una semplicità devastante, un ritorno, una conclusione. Sì, è così che si deve concludere il filone di The Tree of Life, con la sua carica vitale che tanto ha emozionato certi appassionati e che tanto ha dall’altra parte irritato certi altri con la sua verbosità. Un filone che è cominciato con una luce astratta, protraendosi verso la ricerca di una meraviglia come Mont Saint-Michel, ricerca che si è trasformata in riflessione sul digitale, prima con la disperazione e poi con la trascendenza cosmologica – un filone che si conclude separandosi da The Tree of Life, diventando esperienza pura, postmoderna e tragicomica, fasulla e onestissima, viscerale e, alla fine dei conti, essenziale. Che sia un ritorno alla New Hollywood? Del resto il nuovo progetto di Malick, un film bellico sulla Germania nazista intitolato Radegund, che è già in postproduzione e dovrebbe uscire più tardi quest’anno, è stato annunciato come un film più narrativo, meno complesso. In 5 film più o meno belli e importanti dunque, Malick sembra aver descritto un percorso importante per l’immagine cinematografica, per la sua fugacità. Per mostrare come imparare a guardare, come essere fanciulli in un mondo troppo grande e incomprensibile, con o senza Dio, con o senza il sesso, con o senza il cinema. E ci si rivolta contro la struttura del cinema, ci si rivolta per immagini, contro la narrazione senza dimenticare la narrazione. E, quando ci s’innamora, nonostante i dubbi spesso rimangano a livello razionale, ogni parola, anche quando sono tante, sembra scomparire, perdere significato, dissipandosi nel vento. E a questo punto lasciamoci andare, di canzone in canzone.
Nicola Settis