13 Maggio 2017 -

NIGHTWATCHING (2007)
di Peter Greenaway

Peter Greenaway, 10 anni dopo che il suo lungometraggio Nightwatching è stato proiettato in concorso alla 64° mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ha messo in moto una specie di tour promozionale per portare nelle sale italiane il film, mai distribuito precedentemente. La figura di Greenaway stesso è servita, sostanzialmente, come mezzo di distribuzione, quasi trasformando la visione di Nightwatching in una mostra o in un’installazione. La sua ultima tappa è stato il Cinema Arsenale di Pisa, e la lunga introduzione del regista ha presentato il proprio genio controverso, eccentrico, barocco e tendenzialmente pessimista (ma non troppo) a un pubblico composto tanto da appassionati dell’autore britannico quanto da neofiti. Parlando della morte del cinema, della rivoluzione del digitale, di come essa può, teoricamente, “resuscitare” il cinema dalla tragedia della comunicazione troppo poco legata alle immagini rispetto alla narrazione e ovviamente sproloquiando sul rapporto tra pittura e cinema, Greenaway ha posto un’intelligente e interessante riflessione trasversale per gli spettatori, facendo un vero e proprio monologo/spettacolo sagace e a suo modo satiricamente divertente, coinvolgendo il pubblico, insultando Trump e mettendo in crisi il traduttore con approfondimenti intensissimi sui limiti e sulle tirannie nell’arte cinematografica. A seguire, v’è stata un’anteprima del prossimo progetto cinematografico del regista, Walking to Paris, il cui girato per ora è al 50% (quindi non si può sapere nulla su di una data d’uscita): l’anticipazione del film è consistita in una specie di folle trailer, più simile a un flusso d’immagini appiccicate l’una accanto all’altro senza troppa coerenza che a una vera e propria costruzione/video promozionale. Il film è concentrato sullo scultore Constantin Brâncuși (sul quale avevamo visto a Locarno il corto A brief history of Princess X di Gabriel Abrantes) e in particolare sul suo viaggio a piedi dalla Romania a Parigi, costruito come una storia di formazione in cui la scenografia è colma di torri Eiffel plastiche. Lo scopo del film, secondo il regista, è quello di far percepire la tridimensionalità della scultura senza usare il 3D, tendenza che per il regista si può dire essere già passata di moda a Hollywood – e non può che venirci in mente la domanda: cosa ne può pensare Greenaway di Addio al linguaggio (2014) di Godard? Abbiamo dunque avuto modo massimamente di incontrare e percepire l’esuberanza critica dell’autore, all’apice della sua rabbia contro le istituzioni cinematografiche e contro i dilemmi che l’immagine filmica per forza di cose pone. Dopodiché, è cominciato Nightwatching, un film che già molti spettatori, incluso il sottoscritto, conoscevano, ma che è sempre utile ripassare, riscoprire, riconoscere.

Il film parla di Rembrandt Harmenszoon van Rijn, noto solitamente solo come Rembrandt, grande pittore e incisore olandese vissuto attraverso il diciassettesimo secolo. Nightwatching abbandona le regole statiche (e sempre da riscrivere) del biopic tradizionale per costituire una storia che gira apparentemente a vuoto, destrutturando la figura dell’artista sotto molteplici punti di vista ma senza mai focalizzarsi su uno di essi nello specifico, mostrando dunque eccessivi e a tratti confusi particolari in un determinato periodo della sua vita: la lavorazione dietro il celebre dipinto La ronda di notte (1642), attorno alla quale girano teorie e cospirazioni frammentate, alternate con la vita privata di Rembrandt. La ronda di notte da opera d’arte diventa McGuffin hitchcockiano per mettere in scena un intrigo melodrammatico fatto di omicidi premeditati, pedofilia, suicidi e falsità varie, e solo nella parte finale torna opera d’arte, quando Greenaway non riesce più a sostenere il proprio divertissement narrativo e ritorna all’origine, alla sindrome di Stendhal e alla propria inevitabile venerazione per un dipinto così enigmatico. La vita privata di Rembrandt diventa un calderone pornografico, una specie di intervista continua in cui il pittore comunica con la macchina da presa parlando delle proprie relazioni sentimentali e sessuali, mettendosi a nudo, con isteria e volgarità. Qui è messa in risalto una delle qualità più interessanti di Greenaway, la sua capacità di portare al carnale e alla disgustosa essenza basilare delle cose anche la più complessa delle sensazioni, anche la vita del più grande artista con le sue ossessioni, i suoi colori, i suoi chiaroscuri: il Rembrandt interpretato da un mai così riprovevole (e nel contempo, a suo modo, affascinante) Martin Freeman cade nudo nel vuoto, nasconde il proprio membro, rimane ossessionato dai corpi che respinge, s’innamora di donne la cui bellezza è “un miracolo”, si appassiona alle vicende degli altri con uno sguardo emozionato, violento, cattivo. Greenaway sposa la teoria del difetto di vista del pittore, una teoria non confermata né dalla Storia né dalla scienza, suggerita nel 2004 da una docente di neurobiologia a Harvard, secondo la quale Rembrandt soffrisse di perdita di stereopsi, una malattia (che nel caso di Rembrandt si riferiva soltanto a un occhio, il destro) a causa della quale l’uomo ha problemi a percepire la profondità. Il pittore nel film è infatti ossessionato dalla paura di perdere la vista, e ciò si ripercuote tra scene oniriche, incidenti col moschetto fittizi e conclusioni grottesche che fanno tutte riferimento a questa problematica e alla perdita dello sguardo da parte dell’artista, la perdita di un punto di vista, la perdita di un’identità. E lo sguardo però deve vivere, in una maniera o nell’altra, e dunque viene inserito all’interno del quadro, che guarda fuori, come i fantasmi di National Gallery (2014) di Wiseman – i fantasmi dei volti dei quadri nei quadri, dell’inquadratura nell’inquadratura. Dall’immobile, infinito e immortale spazio dello sguardo aperto del quadro si deve per forza di cose arrivare al sempre movimentato, caduco ed effimero sguardo di un pubblico che cambia in continuazione, che si specchia in quell’occhio autoritratto dietro le quinte.

Secondo invece un livello più puramente formale, ovvero l’aspetto che in fondo a Greenaway interessa di più, Nightwatching è un film sospeso in un’oscurità caravaggesca – o, appunto, rembrandtiana. Una serie di 4 o 5 set/palchi tutti uguali ma sempre inquadrati in maniera diversa rinforza l’idea di uno spazio in cui il privato e il pubblico si confondono, e anche la profondità dell’immagine tende a perdersi all’interno di un continuo frapporsi di totali e primi piani, con momenti fortemente tragici e melodrammatici come il funerale di Saskia (la moglie del pittore) rappresentati con una forte ed esplicita teatralità e altri momenti invece più iconici e spettacolari in cui il regista si affida più che altro a un montaggio espressivo, basato sulla distorsione di volti in primo piano e voci urlate, fuochi e armi, costumi e colori. A ogni stacco di montaggio torna il ricordo di Ėjzenštejn, a cui Greenaway ha dedicato il film Eisenstein in Messico, folle, esoterico, iconoclasta come Nightwatching. E c’è ovviamente qualcosa che accomuna i due film, ovvero il tributo distruttivo all’artista, una specie di processo di volgarizzazione, che Greenaway ha imposto anche sul pittore meno conosciuto Hendrik Goltzius nel film Goltzius and the Pelican Company (2012), secondo film di un’ipotetica trilogia sui pittori olandesi il cui terzo capitolo (dedicato a Bosch) non ha ancora visto la luce. E nell’intrigo narrativo di Nightwatching, così difficile da seguire, così forse incomprensibile o intricato, Greenaway pone le basi per il documentario Rembrandt’s J’Accuse…! (2008), che prende tratti dal film di finzione per esporre le teorie e le interpretazioni del regista nei confronti della Ronda di notte. Quel fucile, quello sparo, quella sequela di volti di attori su tela, la ragazza che si vede, la ragazza che non si vede, l’occhio. E se il quadro fosse vuoto, come le sale cinematografiche all’inizio di The Canyons? Se i corpi nel dipinto si muovessero e si allontanassero, come gli attori di Passion di Godard, che mettono in scena i quadri, momentaneamente? Se non ci fosse più nessuno per vederli, questi quadri, se non ci fosse più nessuno se non il buio in sala, insondabile oscurità zulawskiana, sguardo nel vuoto come in Stray Dogs? Se davvero il cinema stesse per morire perché stiamo dimenticando la comunicazione per immagini? Greenaway non sarà il più grande regista di tutti i tempi, non sarà un teorico del cinema e non avrà una filmografia composta solo e soltanto da capolavori, ma Nightwatching rimane un’interessante testimonianza di dove questo sguardo può andare, di come può sopravvivere, di come può superare determinate barriere. Per vivere, ancora un po’ di più, in immagini.

Nicola Settis

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“Nightwatching” (2007)
134 min | Biography, Drama, History | UK / Poland / Canada / Netherlands
Regista Peter Greenaway
Sceneggiatori Peter Greenaway
Attori principali Martin Freeman, Emily Holmes, Eva Birthistle, Jodhi May
IMDb Rating 6.6

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