Tra le serie TV più celebri prodotte dall’emittente via cavo HBO e tra le prime a raggiungere una popolarità mondiale, c’è senza dubbio The Wire, serie poliziesca ideata da David Simon e Ed Burns che si è protratta per cinque stagioni tra il 2002 e il 2008. Rimasta, in particolare in Europa, in sordina rispetto ad altre serie HBO dello stesso periodo (su tutte I Soprano), The Wire è comunque considerata spesso dai critici statunitensi tra le più grandi serie TV di ogni tempo, ed è facile capire perché. Infatti, David Simon, dei due autori il principale anche perché ideatore di altre serie di struttura simile (come Homicide: A year on the Killing Streets, The corner: A year in the Life of a Inner-City Neighbourhood e Treme), ha portato alla sceneggiatura della serie un supporto giornalistico e da romanzo d’inchiesta che è riuscito a trasformare completamente l’atmosfera poliziesca in una cupa e pessimistica analisi sociologica. La trama è un unico grande racconto, suddiviso in cinque lunghi capitoli ognuno dei quali ha uno sfondo contenutistico e scenografico diverso: vediamo, in cinque contesti diversi, un duro scontro tra la polizia ed il mondo criminale, ed in genere possiamo vedere tanto di un mondo quanto dell’altro.
A rendere originale ed importante The Wire è innanzitutto l’approccio scarno e cronachistico che scozza con la logica narrativa frenetica dei ritmi da poliziesco, accentuata da dialoghi ricchi di termini tecnici. La serie di Simon infatti si concentra sì su moltissimi personaggi da seguire uno ad uno in lunghi processi narrativi e psicologici, ma ognuno di questi personaggi viene mostrato sia come individuo (con una continua, costante e tremenda paura della morte, della prigione, o dell’oblìo come condizione più sociale che fisica) sia come membro di un paesaggio sociale composto principalmente da dolorose maschere di un sogno americano distrutto, ridotto all’osso, impossibile ed indesiderabile. Ogni stagione si confronta con ambienti diversi (nella prima stagione cortili di spaccio tenuti da afroamericani, nella seconda trasporti portuali illegali gestiti da immigrati polacchi, nella terza quartieri malfamati dove la polizia chiude un occhio, nella quarta l’ambiente liceale per gli studenti delle classi più basse e nella quinta la stampa) e in ognuno di essi si nota una galleria di personaggi diversa e sempre strutturata nel minimo dettaglio ma con elementi comuni. Spicca, tra i molteplici personaggi criminali, Omar Little (interpretato da Michael Kenneth Williams, poi noto anche per il ruolo di Chalky White in Boardwalk Empire), un Robin Hood omosessuale del ghetto afroamericano che agisce in nome dell’individualismo anarchico per il bene della comunità e per il male delle “autorità” del mondo illegale, specchio quasi utopico di un ideale politico che svanisce dietro il costante e pressante desiderio di una democrazia che non è tale. Nella scena del processo ad Omar, uno degli apici della serie, presente nel sesto episodio della seconda stagione (All Prologue, diretta da Steve Shill), il personaggio dice ad un avvocato, come risposta ad un «Lei è una sanguisuga», una frase chiave per determinare la forza vitale ed insurrezionista del suo personaggio: «Lo è anche lei. […] Io ho un fucile, lei ha una valigetta». Per il resto, gli altri esponenti del disagio sociale immischiati nel mondo del crimine sono personaggi tutto sommato simili, come D’Angelo Barksdale (Larry Gillard Jr.) da una parte e Frank Sobotka (Chris Bauer) dall’altra, che compiono crimini per inerzia e sopravvivenza e appena casca il castello della loro moralità tentano di fare del bene e finiscono solo per fare male a sé stessi. Ma non è pessimismo, perché il tatto di Simon, tra fotografia sgranata e regia semplice ma che sa inquadrare quello che c’è da inquadrare, è più che altro realistico.
L’atmosfera è quella di un noir politico e la struttura è chiaramente circolare. Nel primissimo episodio, Ellis Carver (Seth Gilliam) dice che la lotta contro la droga non è una guerra, perché le guerre finiscono. The Wire si forma come un continuo combattimento di amoralità contro amoralità, che non giunge ad una conclusione ed in cui ogni sottotrama che sembra concludersi in realtà finisce per essere ripresa da un’altra parte con un nuovo personaggio, che compie le stesse scelte sbagliate finendo nello stesso calderone di sfortuna, malvagità e vittimismo. E tutta la storia di The Wire, che è realistica e negativista, cupa, deprimente e sporca, finisce quasi per ottenere un’epica tutta sua, un’epica umana e umanista, fondata sulla parola e sulla frase (e Simon ci marcia sopra, mettendo all’inizio di ogni episodio, dopo la sigla, una citazione dell’episodio stesso) e sulla filosofia spicciola da strada che finisce per rappresentare benissimo la vita dell’America descritta. È come se fosse un’enorme destrutturazione dello stereotipo del mondo gangsteristico afroamericano, più o meno come, dieci anni dopo la prima stagione, lo sarebbe stato in ambito musicale l’album conscious hip hop good kid, m.A.A.d. city del musicista di Compton Kendrick Lamar. E, in comune con il disco di Lamar, c’è il tema religioso, in musica tradotto attraverso il costante riferimento alla religione come mezzo necessario per la purificazione dell’anima dal peccato, e nella serie inserito dalla sigla, che in ogni stagione cambia solo parzialmente da un punto di vista visivo e musicale. La canzone è sempre quella, Way down in the hole di Tom Waits, ma in cinque versioni diverse (quella originale è nella sigla della seconda stagione), una canzone a tema cristiano che parla di «camminare con Gesù» e «spingere il diavolo giù nel buco», mentre scorronoimmagini che sono quanto di meno spirituale e di più concreto possibile. Ogni sigla è un montaggio, sempre diverso ma con qualche inquadratura in comune, di immagini che si riferiscono sia al mondo della polizia che a quello della criminalità, mostrati con lo stesso occhio documentaristico. Ma a rendere interessante l’opera di Simon è anche il fatto che il suo non è didascalismo completo, perché c’è empatia nei confronti dei personaggi mostrati, tutti, sia come individui che come collettivo, e nei confronti della loro lettura superficiale della vita e della morte.
Vi sono tematiche comuni ad ogni stagione, come la società vista come zoo che depersonalizza e animalizza i cittadini, o il conflitto d’identità razziale tra nero e bianco, l’assenza o la presenza di un codice o di una giustizia, e l’ironia dilagante e quasi pacifica nella relazione tra fazioni fuori dall’indagine, come a sottolineare con cupa (ma divertente) cattiveria la corruzione di entrambi gli ambienti. Ma bisogna anche pensare alle singole stagioni: la prima inizia in maniera troppo immediata, presentando così tanti personaggi e storie da essere forse pienamente apprezzabile ad una seconda visione, ma il suo cupo pessimismo è esemplare. La seconda è più lenta e impenetrabile della prima, ma anche più umanista nel ritratto dei personaggi nuovi, più grottesca e violenta. Tuttavia, è dalla terza in poi che la serie entra pienamente nel vivo, con la sottotrama riguardante “Hamsterdam”, nome ironico che viene dato ad un quartiere aperto per i criminali più pericolosi da un poliziotto ‘creativo’, che chiude un occhio di fronte agli spacciatori per creare libero commercio illegale ed evitare l’omicidio. “Hamsterdam”, come la scuola nella quarta stagione (la più empatica, drammatica e piena di contrasti, nel mostrare l’innocenza perduta dell’ambiente scolastico come complementare all’ambiente dello spaccio di droga e delle violenze), è un luogo chiuso e claustrofobico dove l’individuo (criminale) che crede di essere libero lotta per la sopravvivenza del più forte darwiniana. La quinta stagione non porta avanti queste idee, ma potrebbe essere la più personale e la più interessante dal punto di vista della filosofia di Simon, in quanto punta tutto sulla metanarrazione, sul narrare l’arte di narrare e di inventare, sia nel giornalismo che nella polizia. La finzione viene usata come mezzo per narrare la realtà meglio che con la realtà, e tramite la finzione si può fingere egoisticamente (per fare carriera nel giornalismo) o descrivere una realtà (irreale) meglio che con ogni documentario, che è quello che fa Simon con The Wire stesso. Pure Werner Herzog lo dice, che la verità dei fatti è una finzione e forse non esiste una verità. E l’operazione sociologica di David Simon, in cui questo concetto si traduce nella forma più esasperata, anche ironica e metatelevisiva, finisce per essere il racconto seriale più autentico possibile dell’America moderna.
Nicola Settis