7 Marzo 2017 -

FROM A YEAR OF NO-EVENTS (2017)
di Ann Carolin Renninger e René Frölke

E pensare che una volta le famiglie conservavano i soldi per una fotografia, quella del dì di festa, per immortalare un attimo e renderlo eterno ed espanso, regalarlo all’infinito della propria finitezza. Willi probabilmente quei momenti se li ricorda ancora, e chissà quanto gli sembrerà strano ri-vederli attraverso la macchina da presa. Seguirlo è come cercare una traccia del tempo, renderlo visibile al nostro scorrere come un groviglio di rughe e uno sguardo offuscato. L’immagine, in fondo, è sopratutto l’essere riflessi, il trovare uno specchio in cui saper fermare il tempo o forse addirittura riavvolgerlo. Nella dialettica delle cose che ci accomunano, solo la presenza può ricostruire l’idea di un gesto, di un passo, di una parola, e nessun oblio può davvero distruggerla. Parlare dell’ultimo film di Ann Carolin Renninger e René Frölke, quell’Aus einem Jahr der Nichtereignisse (decisamente più agevole nel titolo inglese From a year of no-events) presentato nella sezione Forum dell’ultima Berlinale, sarebbe solamente una traiettoria sghemba di premesse, proprio perché interroga il proprio passato dalla lunghezza indefinita e lo dona a un qualcosa di altro che ancora oggi, tutti noi, sentiamo come intangibile e forse proprio per questo ci affascina. Nell’epoca in cui desideriamo osservare ogni disastro e ogni spettacolo, fra le voraci di catastrofi e attenzioni forse solo una piccola e intima cronaca di (non) eventi quotidiani ci può ancora sconvolgere. Nel profondo.

Willi ha 90 anni e li sente tutti, vive da solo in una fattoria nel nord della Germania e affronta ogni giorno il suo destino. Si perde lentamente nel suo piccolo feudo decadente, le uniche sue parole le spende con il proprio gatto assorto, nutre i suoi polli chiassosi e fa il suo giro con l’aiuto di un deambulatore stridulo. Pare non esserci un mondo esterno a quel minuscolo universo invaso di oggetti e di memorie. Tra le pareti di casa, reliquie di tempi andati, accumulate lì nel corso della vita e dimenticate nel loro stesso stato dell’essere passate. Interrogate, forse, dal loro padrone, quando il tempo non pare passare mai e l’inverno si fa lungo, e la primavera è solo il riflesso di un momento che fu, di un attimo perso. A volte qualcuno passa a trovarlo, ma anche quegli avventori, e i loro discorsi, paiono comparire da un remoto come il rumore dei motori che si disperdono pacatamente nella radura confinante la cascina. Per il resto (il) nulla, proprio nulla. Eppure si va avanti, le stagioni scivolano sulle altre e nessuno se ne accorge. Forse solo il film le riconosce, dipingendo questo ritratto di vita del nostro eroe Willi, bisbetico e solitario, spettinato e stanco, fotografando una figura qualsiasi di un paesaggio qualsiasi, donandogli l’innata dignità dello stare qui, il senso più puro della presenza e il rispetto più vero della bellezza di un gesto.

La Renninger e Frölke disegnano uno splendido saggio visivo sulla vita (e sul vivere) spostando la macchina da presa con estrema discrezione e sensibilità nella natura che sboccia, sui fragilissimi germogli che crescono con/per noi, sugli animali che ci guardano. Si avvicinano pian piano, costruendo una grana in Super-8 e 16mm che trasuda la matericità stessa di una durata espansa, che ha attraversato lo sviluppo, la guerra, la divisione, e ora appare qui apparentemente ferma nell’illusione che ci stiamo muovendo. Un ciuffo di gatto, l’ombra di una tazzina, i contorni della torta, ogni elemento respira la propria esistenza che il vecchio dona attraverso l’esperienza che forma l’essenza. Tutto trascende e si sdoppia tra presente e passato, nulla è più rappresentazione, ma l’evanescenza dura di una fragilità che si riflette nella verginità della pellicola. Come i neri, lasciati al montaggio, che segnano il cambio di rullo e mostrano il passare del tempo e la sua finitezza, la luce che entra di taglio creando un spettro nella camera ottica sono l’inizio di altro, di qualcosa che attraversa le stagioni e le cose, gli eventi e le anime. Ma a Willi tutto questo forse non interessa, perché nel flusso costante lui scolpisce la propria realtà e ce ne rende ospiti. Nient’altro che un passaggio, il suo essere ci riempe di vita e desideri, ci aiuta a guardare avanti nel vortice del futuro e nella bellezza di tutta la nostra impotenza. La primavera così se ne va, e forse anche anche l’estate. Torna l’autunno e il diario si chiude così, ma cosa sono le stagioni se non parentesi in cui poterci ritrovare? Un altro inverno arriverà comunque domani, basta esserci, esser qui a guardare (e a guardarci). From a year of no-events, o forse tutta una vita.

Erik Negro

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