Il deserto del Sonora si estende fra l’Arizona, la California e il Messico. È una zona di confine, una zona di passaggio, attraverso la quale quotidianamente interi stuoli di profughi messicani cercano, per lo più invano, di entrare negli Stati Uniti. Il loro è un percorso a braccetto con la morte, braccati dalle guardie di confine, dai razzisti a stelle e strisce, da un sole e da un caldo che uccidono, dagli animali più velenosi destinati ugualmente a perire. Presentato alla Berlinale 2017 nella sezione Forum, El mar la mar è un progetto condiviso in co-regia dal videoartista Joshua Bonnetta e dal documentarista statunitense, ma ormai con base in Cina, J.P. Sniadecki. È un film di detriti, di orizzonti sconfinati, di fuoco, di testimonianze dell’una e dell’altra parte, destinate a scorrere durante la notte, durante la marcia, durante la pur flebile speranza, perché il giorno, nel deserto del Sonora, vuole ormai dire solo morte, caldo, sudore, luce, forse piombo. I corpi di uomini e animali uccisi dal caldo e dalle circostanze, così come i loro oggetti, rimangono a terra, sedimentano, entrano a fare parte di quello stesso paesaggio desertico e sconfinato nel quale solo un volo di pipistrelli o un formicaio indicano la presenza di forme di vita, tutto il resto è solo detrito, desolazione, fiamme, fulmini, sabbia, polvere, fine di tutto, e nemmeno il passaggio di un treno, per quanto possa essere lungo chilometri, potrà rendere questa zona abitata per più di pochi minuti.
El mar la mar, in questo paesaggio, cerca una traccia, una fisicità materica, e solo la materia della pellicola 16mm, in un certo senso, può essere compagna di viaggio, ponendo un discorso sull’immagine e sulle sue forme nel quale i due registi cercano di unire i propri linguaggi e le proprie istanze, grossomodo con le modalità che affrontarono Ben Russell e Ben Rivers quando girarono insieme A spell to ward off the darkness. Dove però nel film di Russell e Rivers i due linguaggi riuscivano ad attaccare alla perfezione uno all’altro, trovando un terreno cinematografico comune, El mar la mar finisce per dividere in maniera troppo decisa gli esperimenti visivi di Bonnetta dalla classe estetica di Sniadecki, finisce per mostrarsi troppo chiaramente come un lavoro a quattro mani e due sguardi, visivamente sublime eppure eticamente problematico, come se la tragedia degli uomini che si trovano ad attraversare il Sonora non fosse il vero oggetto di un’indagine umana, ma fosse quasi una sorta di pretesto per snocciolare un saggio di fotografia, regia e linguaggio cinematografico.
Nel mondo, a livello fotografico, sono ben pochi i registi in grado di girare come J.P. Sniadecki. Il suo cinema documentario, da Chaiquian a The Iron Ministry passando per Yumen, è sempre stato un cinema visivamente straordinario, un cinema fatto di dettagli, di diaframmi aperti al massimo per accorciare il più possibile la profondità di campo e la linea del fuoco, di inquadrature sghembe ed emozionali dall’estetica smaccatamente pittorica; doti alle quali il regista nativo del Michigan ha sempre saputo affiancare un afflato profondamente umano e politico, costantemente in viaggio per le contraddizioni della Cina alla ricerca di anime in pena accanto alle quali remare. El mar la mar è in questo senso la naturale prosecuzione delle doti dello Sniadecki direttore della fotografia, ma non di quelle di umanista: si sono ristretti i diaframmi perché, stavolta, a importare non sono i dettagli ma, al contrario, i campi lunghi, la desolazione del deserto, la mummificazione di ciò che nel deserto è rimasto e la trasformazione continua del paesaggio, e ogni singola inquadratura, ricerca di materia morta impressionando altra materia viva – la grana sfrigolante del 16mm, della quale vengono anzi amplificati tutti i rumori –, è magnetica, magmatica, cattura gli occhi in una costante soddisfazione.
Di sicuro, poi, a El mar la mar non manca la potenza dell’argomento, specialmente – ma questo i registi, mentre giravano il film, non potevano certo saperlo – in seguito ai sogni trumpiani di un muro che solchi quegli stessi orizzonti sterminati sui quali ora giace abbandonato persino un cellulare, ormai quasi inghiottito dalla sabbia. Come è indubbiamente interessante la riflessione che il film pone sull’immagine, in un’alternanza di giorni e notti, di paesaggi e di neri in cui i neri non sono davvero neri: ci sono gli inevitabili puntini del 16mm, c’è la grana, ci sono ombre che vagano, uomini/spettri in fuga, o forse sono solo illusioni. I problemi del film, e la conseguente delusione, iniziano quando la riflessione sull’immagine soverchia quella sull’uomo, annulla la pietà, raffredda lo sguardo. Ombre nella notte o turbinio di voci nei commenti audio, gli uomini non entrano mai in scena, non sono mai reali protagonisti, non sono mai reali soggetti, non sono mai reali destinatari di amore, ma al massimo di pretestuoso interesse. Nella babele di voci si alternano i più improbabili accenti degli Stati del Sud e le speranze di chi sta affrontando il viaggio, ma mai c’è un reale sentimento verso di loro, come se non fossero più esseri umani disperati ma solo numeri, solo eventi, solo un motivo per fare un film. Un film che, nonostante l’indubbia bellezza visiva, non siamo proprio riusciti a farci piacere.
Marco Romagna