È la prima volta che entriamo in sala e vediamo un film di Star Wars canonicamente integrato nella narrativa della serie ma privo del riassuntino iniziale, il cosiddetto “opening crawl” in scritta gialla, che scorre nello spazio, dal basso verso l’alto – almeno se escludiamo il flop animato costituito da Star Wars: The Clone Wars (2008). Questo è perché Rogue One è la prima “Star Wars Story”: uno spin-off, insomma, che serve per riempire cinematograficamente momenti della mitologia dei Jedi non ancora filmati. E di “Star Wars stories” ne vedremo anche in futuro, in una serie denominata “Star Wars anthology series”, con prima un film su Han Solo che pare sarà prevalentemente comico (sceneggiato da Lawrence Kasdan) e poi un film che a regola sarà incentrato su Boba Fett, diretto da Josh Trank, il regista dell’ottimo Chronicle; tuttavia, quella che, su carta, sembra soltanto un’operazione commerciale della Lucasfilms (al fine di riuscire ad assicurarsi almeno un film da 1 miliardo di dollari all’anno fino al 2020), almeno con questo Rogue One, che recensiamo solo adesso a causa delle politiche anti-spoiler Disney, pare essere invece un’interessante e affatto banale riflessione sulla mitologia creata dal franchise e, nel contempo, su di un cambio di approccio, cinematografico e politico. Sia chiaro, non ci troviamo di fronte ad un Shin-Godzilla: Rogue One non riscrive le regole del cinema di Lucas e non è un film rivoluzionario, ma è senza dubbio un film importante, tra i migliori blockbuster statunitensi degli ultimi anni, sicuramente più potente del capitolo settimo della saga ufficiale, Il risveglio della forza, che tanto è stato discusso dopo l’uscita a fine 2015. Questo perché il film di J.J. Abrams era, nonostante l’impatto emotivo indubbio per i fan più affezionati, un gioco di nostalgia. Rogue One, invece, viene dalle viscere di un regista che, da Monsters all’ultimo Godzilla di produzione non giapponese, ha sempre combattuto, con la sola macchina da presa, contro mostri e catastrofi: e questi, in questa “Star Wars Story”, si manifestano sotto forma di guerra.
Nell’avvicinarsi a Star Wars ci sono due approcci possibili: un rapporto “storico”, che analizza l’importanza sull’immaginario collettivo dell’Universo di Luke Skywalker e compagnia in rapporto sia alle influenze che ha subìto dal cinema precedente e portato al cinema futuro sia alle influenze che ha avuto in generale sulla cultura nerd e sul seguito più appassionato (del quale non credo di far parte personalmente, nonostante sia legato moltissimo, sin dall’infanzia, alle Guerre Stellari – e, in egual misura, al mondo di Indiana Jones); e un rapporto “intellettuale”, perdonatemi la parolona, per analizzare l’effettiva qualità del film, la sua funzionalità narrativa, l’utilizzo dei personaggi, e anche, volendo, lo scopo. Ad esempio, Il risveglio della forza è un film che probabilmente funziona alla perfezione se lo si vede con uno sguardo “storico” ma che fallisce se lo si vede con uno sguardo “intellettuale”. Tuttavia, Rogue One è un film talmente separato dal resto del franchise che forse è benissimo, per una volta, vederlo con un approccio un po’ a metà tra i due. E a questo punto, un pizzico di Storia è necessaria, perlomeno per esplicitare una cosa che è tra i più grandi pregi del film: il termine Jedi, con il quale si designano gli eroi guerrieri dell’Universo di Star Wars, deriva dalla parola “jidaigeki”, ovvero “film di samurai”. Infatti il primo Guerre Stellari del ’77, quello che chiamiamo Una nuova speranza, era una specie di remake fantascientifico non ufficiale de La fortezza nascosta di Akira Kurosawa, regista il cui cinema fu ed è tutt’ora di grandissima influenza verso la generazione di registi che ha avuto l’apice della propria importanza negli anni ’70 (basti vedere il recentissimo Silence di Scorsese per un esempio illustre e facilmente comprensibile). Addirittura, il casco di Darth Vader ricorda un po’ le armature giapponesi yoroi, i mempo, i kabuto, e in generale le maschere e gli elmi dei samurai. Gareth Edwards non si dimentica di questa origine e, pur mostrando pochissimi maestri Jedi (si vede giusto lo stesso Darth Vader in azione, e c’è un breve accenno a Obi Wan Kenobi, unica strizzata d’occhio ai fan oltre ad un cammeo di R2D2 e C3PO – nulla in confronto alla ruffianeria del film di J.J. Abrams), dà spazio alle influenze, a livello di azione, del cinema cinese, con in particolare il personaggio di Chirrut Îmwe, interpretato da Donnie Yen (ovvero Ip Man), riportando l’azione a volte al livello delle origini delle influenze di Lucas.
Rogue One, oltre a recuperare le origini, è comunque il film in assoluto più digitalizzato della saga, e non si rifà agli archetipi e ai modelli dei film classici, probabilmente isolandosi quindi alla perfezione dalla saga principale con gli stilemi duri e crudi del film di guerra. La lunga introduzione passa da un preambolo “storico” ad un delirio di montaggio che si alterna incoerentemente da un pianeta all’altro costruendo lentamente una trama di base, fino a giungere finalmente ai due noccioli narrativi base: la missione ufficiale della protagonista Jyn Erso (bravissima e bellissima Felicity Jones) per trovare prima il ribelle Saw Gerrera e poi il padre Galen; e poi la missione ribelle, anarchica e rischiosa che la stessa Jyn inizia insieme ai suoi compagni di viaggio (con una neo-formata squadra chiamata Rogue One) per ottenere i piani della Morte Nera e dunque contribuire allo sviluppo narrativo di Una nuova speranza, quarant’anni fa per noi, poco dopo per Leila, Luke, Han e tutti gli altri. Accentuando questo concetto di “speranza”, “ribellione” e “sacrificio” e mettendo in scena una battaglia tramite la cui violenza alcuni personaggi prima in conflitto riescono a ottenere lo spirito combattivo di unione verso un unico scopo, Rogue One sembra quasi assumere un significato politico, una specie di chiamata alle armi del popolo contro l’oppressione (quella degli U.S.A. di Trump?) attraverso un cinema puro, semplice, ma pieno di intensità nel cambiare le carte in gioco. Da questo punto di vista, l’estremista Saw Guerrera è un po’, già dal nome, una specie di Che Guevara.
Ed è con questa semplicità intensa che Rogue One giunge all’unica conclusione possibile: il sacrificio, la catastrofe. Essendo un prequel, il finale era già stato predetto da ogni fan della saga, ma la semplice crudezza solenne con cui ogni certezza è distrutta e assassinata nel nome di questa “speranza”, pronunciata da una giovane Carrie Fisher in digitale (ironicamente vista in sala letteralmente 24 ore prima dell’annuncio della morte, almeno per quanto riguarda la mia esperienza – e riguardo alla resurrezione computerizzata di lei e di Cushing ho deciso di non esprimermi, causa molteplici discussioni già fatte a riguardo in recensioni e articoli passati), riporta la saga di Star Wars a livelli di epicità iconica difficili da commentare in altra maniera. È grande cinema di intrattenimento, e non ci stupiremmo se Rogue One finisse, col tempo, per essere riconosciuto e ricordato più de Il risveglio della forza – aspettando questo dicembre, e con esso il capitolo ottavo della saga.
Nicola Settis