13 Gennaio 2017 -

MÉDITERRANÉE (1963)
di Jean-Daniel Pollet

Nell’edizione 2015, all’interno di Tff.doc, il focus è stato dedicato al Mediterraneo, non tanto come luogo geografico e fisico, ma come spazio umano e civile da ridiscutere, preservare e amare. Il film cardine di questo omaggio fu un’opera unica, che ancora oggi, dopo oltre cinquant’anni, esercita un fascino magnetico e quasi inspiegabile: Méditerranée di Jean-Daniel Pollet è una specie di miracolo di suoni, immagini e parole in cui lo spettatore è continuamente messo a nudo, disarmato e isolato. Opera radicale, assoluta e rigorosa, nel suo continuo fluttuare di spazi e tempi alla ricerca di una memoria che non può più essere nostra. Lo scorso giugno Pollet avrebbe compiuto ottant’anni e proprio nell’ultima edizione di Torino, il mese scorso, Jean-Paul Fargier (l’ultimo collaboratore dell’autore francese che completò per lui il commiato Jour après jour, 2006) ha presentato uno splendido ricordo dell’amico dal titolo Parle-moi Encore, come se nessuna parola potesse bastare anche a distanza di mezzo secolo. Correva l’anno 1962, Pollet e Volker Schlöndorff (produttore del film) intrapresero un viaggio di cento giorni che li portò in Italia, Egitto, Spagna e Grecia; nella digressione continua di quell’esperienza decisero di girare solo ciò che li avrebbe colpiti sul momento. Al ritorno, Pollet si mise a lavorare convulsamente su quelle rushes, come se contenessero un senso altro, qualcosa di non percepito ad occhio nudo. Per sei mesi (s)montò continuamente quel film, fino al giorno in cui la pellicola pareva aver sensibilmente mutato se stessa; chiamò un giovane e folle Philippe Sollers per il commento narrativo, in continua deriva tra astrazione e misticismo, e infine Antoine Duhamel autore di musiche vorticose e raggelanti, che appaiono e scompaiono continuamente. Quando tutti questi elementi furono legati ne uscì qualcosa di mai visto, qualcosa che nemmeno chi intraprese quel viaggio pensava di scoprire.

Antiche reliquie, i tori feriti nella corrida, una dimora abbandonata, il fuoco di una fabbrica, una ragazza che si abbottona la camicia, marine poetiche e dissonanti in un fervore di magia che abbaglia attraverso il mito, nello scrigno di segreti dell’umanità, nella mente della bellissima ragazza in coma con gli occhi aperti che attraversa tutti i quarantaquattro minuti del film. Forse la risposta sta in quello sguardo che racchiude il nostro passato, uno sguardo che si reitera all’infinito come le onde del Mediterraneo, mentre si sfaldano da millenni sulla riva smuovendo il nostro destino. Solo gli occhi fragili di quell’angelo morente potrebbero aver visto cosa noi siamo veramente, cos’è la nostra civiltà nata dove il sole si rifletteva sul mare, cos’è la memoria di un’identità che già mezzo secolo fa andava a scomparire. Una continua discesa in quell’identità dell’immagine tra piani ripetitivi, cascate e riflussi, associazioni e opposizioni, un’enorme sospensione che avvolge, inquieta e spaventa. Ogni taglio, ogni sguardo e ogni movimento di macchina diventano impercettibili come lo stesso viaggio che si fa esistenza, oblio, e ricordo. Non c’è inizio né fine, il film dura il tempo del nostro sguardo, come il nostro mondo dura il tempo dello stare qui; le sequenze esistono solo nell’atto della propria esplorazione del tempo, definendo lo spazio di questo Mediterraneo lacerato, ferito, astratto. L’occhio trasforma questo luogo in un momento perduto in cui la scrittura, il suono e l’immagine stessa ci immergono nell’attimo della prima memoria, nella fonte della vita, della morte e dell’essere.

La metafisica si amplia con il commento di Sollers, che ci parla di questa memoria sconosciuta, sempre più distante, fallibile quanto l’immensità della nostra anima. Noi immersi tra notte e cecità, come quella dei luoghi che ancora oggi viviamo inconsapevolmente e in cui continuiamo a nasconderci. La memoria è all’orizzonte, ci ossessiona nel sonno e si accumula dietro alla tenda dell’oblio, mentre alla porta c’è un nuovo millennio e noi vaghiamo ancora inconsapevoli e incapsulati nel teatro delle ere che furono. L’interrogativo finale è quello del risveglio accecante, della visione senza testimoni, del dolore nascosto in un paesaggio che attraversiamo senza mai riuscire a raggiungerlo: “E se nello stesso momento qualcuno da qualche parte cominciasse tranquillamente a sostituirci?”. Quel silenzio è riempito dalle musiche di Duhamel, che non fanno altro di accentuare questo senso in bilico continuo tra la disgregazione e l’unità, tra la disperazione e la speranza, tra l’oblio e la salvezza. Note minimali, che si ripetono e si inseguono, che confondono e aprono scenari inesplorati. Come il primo uomo che mise piede sulla luna, Pollet – autore straordinario e troppo spesso dimenticato – non tornò mai da quel viaggio, così il suo film, come pochissimi altri nella storia, riesce a guardare all’infinito. Lo stesso Godard, sconvolto dopo la visione, ne scrisse una recensione complessa e seminale sui Cahiers, concentrandosi proprio sulla sua unicità e sul fatto che fosse indubbiamente un’opera senza possibili padri né tanto meno figli. Poi nel 2010, all’interno del capitolo dedicato al Mediterraneo del suo splendido Film Socialisme, lo citò apertamente riconstestualizzando alcune sequenze, e donandogli nuova vita spezzando il flusso di Pollet in un vorticoso montaggio di suggestioni e di linguaggi che sottolineano il disperdersi del tutto, dell’oggi. Ma, in conclusione, perché un film così piccolo e misconosciuto a qualsiasi grande massa esercita ancora una forza così dirompente (e inquietante) nell’immaginario di coloro che lo guardano e lo assimilano? Forse solamente perché Méditerranée oggi è ancora un chiodo piantato nel futuro, un finestra spalancata sul vuoto, ma allo stesso tempo un monito continuamente irrisolto se rispecchiato alle derive dell’Europa contemporanea, dei muri, della chiusura, della paura. È un respiro profondissimo, di quelli che fanno girare la testa, proprio perché cerca il senso di noi, dello stare qui, della speranza nel preservare la presenza libera delle cose, della memoria, della vita.

Erik Negro

“Méditerranée” (1963)
44 min | Documentary, Short | France
Regista Jean-Daniel Pollet, Volker Schlöndorff
Sceneggiatori Philippe Sollers (text)
Attori principali N/A
IMDb Rating 6.5

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