Forte il pugno che colpirà
in ogni paese in ogni città
Chi cammina sopra ai corpi
violenta le culture cancella i ricordi
Forte il braccio che alzerà
la bandiera rossa della libertà
Come chi combatte sui monti
con le scarpe rotte quando fischia il vento
Come Augusto Cesar Sandino José Martì y Camilo Torres
Come chi combatte col cuore
la causa dei poveri contro l’oppressore
Come Steven Biko, Hochimin
la comandante Clelia, Samora Machel
come el Che, Farabundo Martì
figli della stessa rabbia
Come i Sioux e i Cheyenne,
Tupac Amaru e Simon Bolívar
Come el Che, Farabundo Martì
figli della stessa rabbia.Banda Bassotti, Figli della stessa rabbia
Erano gli anni del Liceo, sembra passato un secolo. Erano i tempi della riforma Gelmini, degli attacchi di Bush figlio contro Afghanistan e poi Iraq, delle autogestioni e delle occupazioni, delle manifestazioni di piazza che per regolamento non potevano essere accettate come motivazione nelle giustificazioni d’assenza, delle assemblee di Istituto come fondamentale momento di crescita, di confronto, di attualità politica. E il Colombo, a dispetto della sua natura di storicissimo Liceo Classico e di (anche) borghesissima cantera per i rampolli della Genova bene (ma, oltre al sottoscritto, non erano pochi quelli provenienti da tutt’altro quartiere e tutt’altra classe sociale), aveva al tempo – ora, mi dicono, le cose sono purtroppo cambiate, seguendo l’andazzo generale e i deliranti volantini di blocco studentesco – una radicata anima rossa e ribelle, un’anima sognatrice sempre alla ricerca di utopie, un’anima libera e proletaria, che trovava sfogo nella “stessa rabbia” registrata nel 2001 nello storico concerto al CSOA Villaggio Globale di Roma dalla Banda Bassotti, di fresco tornata insieme dopo uno stop di quasi sei anni per festeggiare l’assoluzione dei baschi Negu Gorriak nel processo che li vedeva imputati a causa del testo di una canzone. Un altro giorno d’amore, negli anni del Liceo, risuonava a tutto volume per il cortile, come una carica, come un risveglio delle coscienze, come una chiamata a maturare, a credere con tutto il cuore nei valori di uguaglianza e antirazzismo, a odiare giorno dopo giorno tutti i fascismi.
Ma questo è solo il “mio” rapporto con la Banda Bassotti. Un rapporto iniziato in quel cortile, in quegli anni di Liceo, e andato avanti per tutta la vita in ogni occasione “calda”, ma pur sempre un rapporto tardivo, se non altro per limiti anagrafici. La versione di Bella Ciao che risuonava fra le decadenti colonne settecentesche del porticato liceale era, ed è ancora, un canto orgogliosamente di borgata, la riscossa dei muratori e degli operai, la lotta – quella vera – messa in musica. Perché, si sa, la Banda Bassotti è ben più di una banda musicale, e ci sono mille modi di fare attivamente Resistenza: suonando, raccogliendo fondi, organizzando concerti e carovane, andando in prima persona a costruire ciò che serviva al Centro e Sud America in lotta contro le dittature, dalle fondamenta fino al tetto. Il 2017 appena iniziato sarà per la storica banda romana, fra testi apertamente antifascisti, internazionalismo, lotta di classe e impegno in prima persona nelle Resistenze in giro per il mondo, il trentesimo anno di attività, nati quasi per caso su uno dei palchi montati gratuitamente per le manifestazioni nell’87. La Banda Bassotti è prima di tutto un gruppo di storici amici, di Compagni, di muratori, di operai. Gente semplice, gente orgogliosamente di periferia e di principi radicati, gente da grigliate e vino, gente che sotto un bombardamento a Ramallah si imbatte per caso in una partita della Roma trasmessa dalla televisione palestinese ed è talmente genuina da fermarsi a guardarla seguendo il richiamo del cuore ben oltre la razionalità, eppure gente in grado di muovere decine di migliaia di persone per un concerto da cui traspaia, più che un vero e proprio talento musicale, l’anima, il cuore, la giusta rabbia, l’invito a lottare per El Salvador, per i Paesi Baschi, per l’Ecuador, per la Palestina, per il Donbass. La Banda Bassotti è una grande famiglia, senza gerarchie, senza protagonismi, solo con tante bandiere, diverse le scritte e le lingue, ma tutte rigorosamente rosse e con Falce e Martello. Una famiglia che comprende altri gruppi in giro per il mondo, una famiglia di solidarietà e di militanza, una famiglia di ideali e di pugni alzati.
Banda Bassotti – La Brigata internazionale è l’esordio alla regia per Antonio Di Domenico, con un documentario che ripercorre le tappe artistiche e umane di Sigaro, Picchio e dell’intera brigata di operai e amici che da trent’anni è diventata quasi per caso simbolo stesso della musica indipendente. 761-176 è il numero “rubato” ai ladri della famiglia Disney sin dai tempi dell’esordio con Somaro, l’idealismo internazionalista e l’appartenenza al Popolo sono i cardini delle loro vite prima ancora che della loro carriera. Nel corso del film, dalla gioventù sui ponteggi alla dedica a Mozgovoy, Drumov e tutti i miliziani ucraini in lotta, la Banda Bassotti si racconta, apre alle telecamere nelle giornate di cordialità condivisa, fornisce materiale d’archivio dalla prima partenza per il Nicaragua per costruire ospedali a quasi trent’anni di concerti dai Centri Sociali dei primi anni Novanta ai Mondiali Antirazzisti di Bologna, passando per il rapporto particolare con l’America Latina esploso ai tempi di El Salvador con il sostegno a Rubén Zamora Rivas, per la Palestina, per la questione basca da sempre abbracciata con tanto di studio di registrazione “Tra Paris e Madrid”, per i contatti e i concerti in giro per il Giappone, fino al crowdfunding e all’organizzazione nel 2014 della carovana antifascista per Novossija, con tanto di accuse ben precise al “governo nazista” che bombarda l’Ucraina e i contatti diretti con i guerriglieri del Donbass. Fra interviste, musica, occasioni di solidarietà, immagini d’archivio “sul campo”, organizzazione di eventi e puro impegno politico, Banda Bassotti – La Brigata internazionale è l’affresco di un modo di vivere, è un omaggio appassionato, è un film che dalla banda musicale risale agli uomini. La Banda Bassotti è un gruppo di manovali, “avanzi di cantiere” che da sempre sostengono con la musica e i fatti le minoranze etniche e culturali, il proletariato, i caduti durante le lotte. Un gruppo che ha colto il lascito dei CCCP-CSI a loro volta nati dall’anima dei Clash e del punk d’oltremanica e continentale, e che ha declinato nel punk/ska/oi! il proprio bisogno di urlare. Diventando un riferimento per un’intera generazione di musicisti “politici”, dai 99 Posse ai Gang, dai Negu Gorriak agli Ska-P, e un simbolo per un’intera generazione di uomini mossi dagli stessi ideali di uguaglianza, antifascismo e proletariato, dagli stessi ideali antimperialisti e anticapitalisti, dai movimenti studenteschi ai centri sociali, dai movimenti operai a quelli internazionalisti su cui innestare una così grande e radicata famiglia solidale.
Quel disco che risuonava per il Colombo, il primo registrato per la Banda Bassotti dal fedele sodale basco Kaki Arkarazo, da Sveglia a Bella Ciao passando per Luna Rossa, Mochba 993 e All are equal for the law, era la voce del Popolo, gridata talmente forte da riuscire ad attecchire non solo fra chi questo disco – qualcuno prima di me e poi il sottoscritto – lo aveva ogni volta portato dalla periferia della città, ma anche dove la tradizione borghese e conservatrice la avrebbe molto volentieri soffocata. Era un grido troppo chiaro, sincero, vibrante e schiettamente incazzato per non fare presa su chiunque fosse vagamente aperto e permeabile, e lo è ancora nella vita e nelle lotte di ogni giorno. Lo stesso grido che ora la macchina da presa di Antonio Di Domenico mostra senza filtri, ponendo l’accento sulla genuinità e sullo spirito familiare che aleggia fra i Compagni. Fra quei Figli della stessa rabbia di cui sempre e con orgoglio faremo parte: la Banda siamo tutti noi, a luchar por la libertad.
Marco Romagna