18 Dicembre 2016 -

VALHALLA RISING (2009)
di Nicolas Winding Refn

“Il film comincia in modo molto frenetico, con violenza e azione, ma poco a poco comincia a schiudersi. E tu devi solo accompagnare il movimento. Se cerchi di lottare contro di esso, o se cominci ad analizzarlo, ti perdi. Devi semplicemente lasciarti andare. Quando si fissa qualcosa per troppo tempo, si comincia a guardare al di là dell’oggetto, nel vuoto. È quasi come la meditazione o l’ipnosi. Il film è costruito in questa maniera.”
Intervista a  Nicolas Winding Refn a cura di Vladan Petkovic, «Cineuropa Film Focus»

Un’Odissea in un altro Spazio. Valhalla Rising, settimo lungometraggio di Nicolas Winding Refn, rappresenta un salto stilistico, nonché un’evoluzione nel cinema refniano: una sorta di ri-nascita per quanto riguarda la sua poetica della violenza, mantenendo, comunque, inalterata la più recente impronta catartica, ma dando all’opera un’astraente forma filmica sospesa tra l’estatico e l’estetico. Valhalla Rising è un atemporale trip lisergico nella natura umana, nella sua essenza ancestrale. Un film che trova il suo senso, la sua forza, nel significante ciclico: simboli e figure di un’epoca che sono destinati a reiterarsi, così come accadeva nel film Sul Globo d’Argento (1987) di Andrzej Zulawski. Nella pellicola del regista polacco e in quella di Refn, la Storia non può che replicarsi, e con essa anche determinati modelli arcaici, soggetti prototipali, quali, ad esempio, la figura cristologica e sacrificale, che portano con sé il germe del fallimento. Stessa sorte per ciò che concerne il Male che, inevitabilmente, si ripresenta, promosso da degli esseri umani, ricoprenti i ruoli di falsi profeti e insicuri liberatori, i quali non sono altro che un rimpasto fatiscente di un’utopia primordiale, “introduttiva”, che, sostanzialmente, non modifica l’aspetto della Storia ma, piuttosto, la mantiene completamente inalterata, assicurando così la deleteria reiterazione di essa, ovvero la perpetua metempsicosi della sconfitta, della disfatta.

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(Figure cristologiche, stessi riti e sacrifici che si ripetono nelle varie epoche. Sul Gobo d’Argento e Valhalla Rising)

 

Detto ciò, le due pellicole sopracitate risultano schegge impazzite, frammenti di quel Cinema che è specchio nel quale si riflettono i vari, identici calchi facciali della Storia. Insomma, Cinema come luogo, spazio eterotopico nel quale converge la (a)storicità del mondo. Cinema dell’Immagine, dei sensi, di sottrazione o, meglio, di “suggerimento”, che comunica con lo spettatore per via archetipale.

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(I vari, identici calchi facciali della Storia, nonché la reiterazione dei culti e liturgie che simboleggiano quel caos stagnante e anti-evolutivo, che si riflettono nel Cinema. Sul Globo d’Argento e Valhalla Rising).

 

Il lavoro del regista danese è un film viscerale, che nasce come urgenza, come urlo muto di una spiritualità andata perduta, devota al caos e ai dogmi. È tributo al silenzio e alla purezza svaniti, immersi nella nebbia (limbo) di un’era corrotta. Esplorazione interiore nell’odio e nel declino, quindi nell’umanità più reale ed attuale. Quella superstiziosa, guerrafondaia, colonizzatrice. Che porta la propria parola attraverso la forza bruta e infimi comportamenti. Valhalla Rising, come Stalker (1979) di Tarkovskij, ma in maniera più sinestetica, è un trip orfico sulla situazione di schiavitù vitale, ossia sull’illusione di arrivare alla stabilità tramite l’assuefazione ai miti, che vuol dire un rimanere imprigionati nella vita. Come il film del regista russo, il lungometraggio di Refn risulta essere un cammino dentro sé stessi alla scoperta dell’inconoscibile umano; One Eye, come lo stalker, è una figura in cui si scontrano scetticismi, ideologie, culture – nel film di Tarkovskij divergono l’arte e la scienza, qua il monoteismo e il panismo, nonché il cristianesimo e il paganesimo che convergono in questo stalker ultraviolento. La ricerca di quel sito ieratico, ossia la “stanza”, equivale all’ultimo luogo in Valhalla Rising o, forse, corrisponde allo stesso One Eye: una sorta di Dio personale a cui rivolgere quesiti, speranze, desideri, con la quale si confrontano l’uomo e il suo passato. Una sorta di monolite nero su cui un’intera umanità indirizza le proprie domande, spinge la propria evoluzione, tramite una bramosia che è sempre più logorante. La Zona presente in Stalker, coincide, in un certo senso, alla foresta in Valhalla Rising, le quali bloccano rispettivamente gli impuri e gli infami, lasciando passare (redimere?) coloro che non hanno nulla e il cui cuore è perciò rimasto puro – come Are, il bambino nel film di Refn.

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(Le due Zone, come divinità extra-fisiche, che lasciano passare esclusivamente ciò che è incontaminato, bloccando, di conseguenza, la corruzione dell’animo umano. Stalker e Valhalla Rising)

 

Un’opera fondata (anche) sull’impenetrabilità degli sguardi, sull’impercettibilità dei gesti. Una pellicola che mostra la ferocia insita negli esseri umani, che la esplicita come errore antropologico destinato a ripetersi in futuro, in eterno. Quindi un lungometraggio iniziatico, che palesa il degrado, la rovina di un (in)determinato secolo, che è riflesso scarnificato, minimale di tutti gli altri periodi (incanalati verso la distruzione, lo sfacelo, come un effetto domino inarrestabile). Violenza, incomunicabilità, arroganza. Valhalla Rising è un eco perpetuo, incessante e lacerante. Quasi un’opera mitologica, che cresce all’interno dello spettatore, che ne dilata la percezione, non fornendo spiegazioni. Un resoconto cosmico (e nordico) dell’insuccesso di civilizzazione. I sentimenti più estremi dell’Uomo sono reincarnati nel protagonista, un odino senza un occhio: spietatezza, rancore, immolazione. Egli è semplicemente il simulacro (perché extra-storico) di un’umanità incivile, aggressiva e scaramantica. Insomma, la manifestazione delle sue emozioni primigenie. Un’entità vendicativa e furiosa – quindi “umana” -, che vaga nel tempo. Entità archetipale in cui, tra l’altro, confluiscono i “ruoli” del protagonista e dell’antagonista presenti in Solo Dio Perdona (2013): schiavo/uomo (iconografia dello schiavo: le mani, i pugni chiusi, per Refn simboleggiano una condizione di sottomissione, d’impotenza, che sia essa esistenziale o evolutiva, in entrambi i film) e guerriero/divinità (benevola e/o malevola); stadi ontologici che riguardano un’evoluzione ideale, la quale, appunto, comincia dallo schiavo, passando per il guerriero e (poi) il Dio, fino a concludere con l’Uomo. In sostanza, One Eye è l’immagine esemplificativa di (quasi) tutta la poetica refniana: l’anti-eroe per antonomasia che riscrive l’anti-epica della Storia (del Cinema).

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(Schiavo/Uomo)

 

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(Guerriero/Divinità)

 

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(I “modelli” refniani relativi agli stadi di un’ideale evoluzione ontologica che convergono in One Eye)

 

One Eye, colui che «non è appartenuto a nessuno per più di cinque anni», è rinnegato, come gli altri, ai margini dell’inquadratura, dell’immagine; proprio perché è l’essere umano che sceglie consapevolmente di rimanere ai lati, in disparte, spostato rispetto alla centralità universale, spirituale. Rinchiuso da se stesso, in se stesso, debole e corrotto, non si sforza di cercare il centro, l’equilibrio, o lo desidera talmente tanto che non si accorge di superarlo, cioè non lo vede, cieco da entrambi gli occhi. Quindi si auto-rinchiude, si auto-esclude, inerme all’interno di una prigione esistenziale e formale, come Julian in Solo Dio Perdona. È incatenato nella visione stessa, stretto ai bordi di essa. Schiavo, oltre che nella vita, anche nel quadro visuale, come accadeva a Solomon in 12 Anni Schiavo (2012), proprio perché essi sono prigionieri nel (e del) mondo.

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(Schiavi, prigionieri del piano formale, rinnegati ai margini del quadro visuale, immobilizzati e stretti nell’Immagine. Valhalla RisingSolo Dio Perdona12 Anni Schiavo)

 

La purezza deve essere liberata, ritrovata, resa celeste. Di conseguenza si cerca la redenzione. Finalmente quando ci si redime cambia anche anche la prospettiva dell’inquadratura, e ci si accentra, si (ri)trova la stabilità vitale e formale, tramite un processo di risistematizzazione e ripulitura dell’immagine, in cui essa appare anche più nitida. Come il vecchio e il bambino che, verso la fine del film, sono illuminati, come avvolti, protetti da un’aura lucente, in armonia con la mise en scene. E come One Eye che, infine, è anche oltre il centro, al di là, fuori dall’inquadratura, sparisce dall’immagine (nell’immagine), superandola, trascendendola, diventando parte integrante della sostanza filmica, lasciando solo l’equilibrio – simboleggiato dalla piccola costruzione che egli ha creato con le pietre -, purificando quindi l’umanità e la visione.

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(La risistematizzazione dell’inquadratura, come redenzione e liberazione dei corpi)

 

 

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(One Eye che sparisce dall’Immagine (nell’Immagine), purificando completamente la visione, riportando l’equilibrio, raffigurato dalla costruzione di pietra, nella mise en scene)

 

Uno dei cristiani dice che Gesù Cristo ha sacrificato la sua vita perché gli esseri umani fossero liberi dal dolore e dalla sofferenza: quindi è come se One Eye fosse il (di) nuovo Cristo, che oltre a portarsi sulle spalle i sentimenti negativi e le cattive azioni degli esseri viventi, stavolta li assorbe pure, palesandoli, ripetendo i loro gesti. Destinato, anch’egli, ad essere un altro messia che fallisce, rimandando al futuro e a chissà quale salvatore il compito di custodire e aiutare la razza umana (perché, si sa, come in Stalker e in Sul Globo d’Argento, “è difficile essere un Dio”, parafrasando gli Strugackij o German). Infatti, la pellicola risulta essere un viaggio che fin da subito sembra destinato ad un insondabile e stimolante insuccesso herzogiano (la probabile «conquista dell’inutile» a cui dovrebbe portare questa sterile marcia ecumenica), come fosse un Aguirre, furore di Dio (1972) più ipnotico, più estetizzante, più introspettivo.

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(La stasi a cui porta il fallimento. Notare che per ciò che concerne l’insuccesso, la fallibilità dell’essere umano, corrisponde una sorta di involuzione ontologica, immobilizzante, ovvero da conquistatore si diventa schiavi (della vita); a confermare ciò ci penserebbe il palo di legno alla sinistra del vecchio, che richiama quello a cui era legato One Eye all’inizio di questa odissea. Quasi a voler indicare un incatenamento (invisibile) alla (non) Storia.)

 

Un Cristo che è quindi barbaro, Uomo, riflesso fisico di una realtà bestializzata, inquinata fino al midollo, altezzosa, superficiale, maligna. Un’entità, quindi, oscura, scivolosa, che va «al di là del Bene e del Male», ricoprendo, probabilmente, il ruolo di divinità benigna e maligna: due facce della stessa medaglia, due volti che raffigurano lo stesso giustiziere neutrale.

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(Bene e Male: due facce della stessa medaglia; due volti speculari, relativi alla stessa figura)

 

One Eye, veicolato dall’odio (ecco perché “non perde mai”), guida, al di là del Verbo, chi si è perso. Senza sconti, senza perdono, senza compromessi. E a perdersi, stavolta, è l’intera umanità. Le persone, durante il film, con la loro improduttiva ambizione interconfessionale, si dirigono verso un luogo apparentemente vergine; un nido che è la proiezione naturale di una spiritualità sverginata, contaminata. Ricoprendo momentaneamente il ruolo di Caronte, One Eye (inconsciamente) fa da traghettatore attraverso questo limbo (nebbia), fino a condurre l’intera compagnia, o ciò che ne rimane, in questo Falso Paradiso nel quale Cristo non avrà più compassione per la meschinità.

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(Caronte/One Eye)

 

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(Impotenti, (dis)persi nel Limbo, nella nebbia della loro coscienza)

 

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(Dopo il Limbo, il (falso) Paradiso che nasconde l’Inferno)

 

Natura che libera, rivelatrice, che accoglie il male primitivo, la corruzione atavica dell’animo, proprio come accade in un’altra pellicola danese dello stesso anno: Antichrist (2009). Notare lo straordinario contrasto simbolico: nella pellicola di Lars Von Trier, la Natura ambigua è vista come Casa di Satana, ma è chiamata Eden; in Valhalla Rising, invece, la Natura oscura è vista come Casa di Dio (la ricerca di Gerusalemme…), però è chiamata Inferno. L’uno è il controcampo (metempirico) dell’altro; probabilmente, dimore di una religiosità e moralità esplose, dilatate e menzognere – entrambi i lungometraggi, tra l’altro, sono girati con la Red One Camera.

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(Antichrist: casa di Satana, chiamata Eden. Valhalla Rising: casa di Dio, chiamata Inferno. Ideale campo-controcampo metempirico)

 

Ed è quasi una nuova odissea nello spazio in cui si imparano le prime emozioni, nella quale si acquisisce la rabbia, il rancore, l’insolenza. Tornano ad essere umani, uomini corrotti. Religiosi. Con un solo Dio. Quindi presuntuosi, saccenti, frivoli, chiusi. Infetti. Si apprende il male, si sceglie di assimilarlo, si preferisce quello rispetto al bene; la guerra rispetto alla pace. E lui, One Eye, è forse il nuovo monolite nero al quale assurgere, dal quale assorbire. Apprendere tutto ciò, i sentimenti da cui è più attratto l’animo debole, ciò che è più facile, apparentemente utile e necessario, indispensabile in quel momento (infinito) per sopraffare il prossimo e far valere in maniera totalitaria la propria volontà, la propria opinione. Ognuno dal monolite prende ciò che gli sembra essere più funzionale e comodo per raggiungere i propri scopi – che poi, forse, avere uno scopo da raggiungere a tutti i costi, con bramosia, è già sinonimo di decadimento, di decomposizione vitale -, come le scimmie all’alba dei tempi nel film di Kubrick. Insomma, One Eye rappresenterebbe uno Stargate cerebrale che viaggia di epoca in epoca, una nietzchiana entità cibernetica, che non ha nulla di tecnologico, che si sposta per le varie ere. Valhalla Rising è, a conti fatti, uno sci-fi mentale (nell’intervista citata all’inizio, Refn ha anche detto « Ho sempre desiderato girare un film di fantascienza. Non è questo il caso, giacché non ha niente a che vedere con la scienza, ma è finzione mentale»).

I cristiani vogliono portare la parola di Dio, ma nel silenzio dell’inviolata natura non è essenziale: One Eye non ha bisogno di proferire parola, perché è proprio essa che maschera, che avvelena, sporca. Che allontana. Quindi è un involversi indispensabile per ritrovare sé stessi. È lui il vero portatore di luce. Il buio è tutto attorno; nella superficie e superficialità. Gli altri distruggono, chiamano sangue, ansimano, etc. One Eye crea. Trasforma. È una figura che porta (al)la redenzione e parallelamente la cerca. Il Valhalla.

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(Nel frattempo che i personaggi del film si tradiscono, si distruggono, rantolano, One Eye crea, trasforma, cerca l’equilibrio)

 

Ciò che si credeva fosse il paradiso, si dimostra piuttosto essere l’inferno nella sua forma più (im)pura, ovvero un luogo senza bellezza, cultura e Storia, un po’ come lo spazio fangoso e materico in cui arrancano e soffocano i personaggi del film Hard to Be a God (2013). Si deduce, da qua, che il paradiso non esiste, proprio perché l’uomo non lo vuole, non anela ad esso, non gli interessa. L’Eden è nella Fine, nel ritorno all’Uno, nel sacrificio per ciò che rimane puro e inalterato – in questo caso rappresentato da Are, speranza intatta per un futuro luminoso, che mandi avanti l’umanità in tutta la sua integrità esistenziale. Il resoconto è semplice: gli uomini hanno sbagliato, il bambino no.

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(Due mondi-inferno senza cultura, fangosi, superstiziosi, retrogradi, destinati all’oblio)

 

Ecco che, come una Divina commedia capovolta (l’inferno è, in realtà, la tappa definitiva), il personaggio interpretato da Mikkelsen, come fosse un Virgilio muto, li introduce nell’ultimo canto del film, ovvero la selva oscura, nella quale Dante è esploso, come un’epidemia virale, contagiando ogni essere umano; di conseguenza egli è (in) ogni persona: tutti sono persi nel mezzo del cammin della loro vita, in questa selva oscura, in cui la diritta via era smarrita.

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(La selva oscura…)

 

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(…che la diritta via era smarrita)

 

Bisogna superare questa dimensione infernale, per (ri)trovare il disinquinato, quindi, come suggerisce il fanciullo, si deve “entrare nella foresta”. Essa è vista come l’unica via d’uscita, o d’entrata. Casa. Dimora primordiale in cui ognuno possa raggiungere il proprio Valhalla. One Eye non li ha portati all’inferno, ma glielo ha solo mostrato, sono poi loro che hanno scelto di sprofondare all’interno di questo oblio: un decontestualizzante abisso “German-iano”.

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(Foresta: unica via d’uscita o d’entrata)

 

Egli non è un eroe, è un non-eroe. Un anti-eroe che si immola per liberare il ragazzo. Questa piccola e candida creatura si salverà. Unico spiraglio di luce per l’uomo. Il nuovo feto stellare che farà continuare la vita dell’essere umano. Una positiva spinta evolutiva per il futuro del mondo. Il monolite – One Eye –, appunto, si abbandona per (tutelare) ciò che è genuino e onesto.

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(Diventare (veri) esseri umani; l’Uomo (finalmente!) che si sacrifica per un bene più grande di lui, per l’unica (e ultima) speranza futura)

 

Egli si lascia sconfiggere da ciò che l’essere umano non ha saputo respingere e ha scelto di portare avanti: la violenza. Ritrova l’equilibrio all’interno del caos, come ciò che ha costruito – il dolmen fatto di sassi – nel mentre che tutto attorno a lui bruciava, negli istanti in cui tutti si tradivano e distruggevano a vicenda. Il finale, più che un arrendersi, è un rendersi alla vita. Tornare, restituirsi ad essa. Un concedere piuttosto che cedere (si pensi all’excipit di Only God Forgives, nonché al castigo liberatorio che spetta a Julian); un abbandonarsi a questi angeli dell’inferno (non si potrebbe, forse, definire anche Chang, un “angelo dell’inferno”? Notare, tra l’altro, come questi tendano al colore rosso, tonalità relativa ai presagi di Mikkelsen, come sintomo di una fine imminente, a cui è impossibile sottrarsi), primitivi, incorrotti, che liberano/puniscono perché appunto si è portato sulle spalle i peccati di un’umanità avvelenata (e ancora si potrebbe citare Julian, che si fa portavoce di una vendetta disinteressata, progettata e accesa dalla madre).

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(Concedere, abbandonarsi, immolarsi per ciò che è puro. Liberarsi e liberare. Solo Dio Perdona e Valhalla Rising)

 

La ricerca della Fine è giunta a termine. One Eye ritrova la pace, rientra nella placenta dell’universo, in quel grembo inviolato e inviolabile, al Valhalla. Paradossalmente alla non-vita in cui tutto esiste nella sua non-forma. All’indefinibilità prima di perdersi, pre-selva oscura. Nella stabilità coscienziale, quando ancora non vi erano separazioni astruse, religiose o et(n)iche. In cui ogni cosa è. Ecco che avviene, attraverso un processo invertito, un battesimo definitivo e rovesciato, come fosse, paradossalmente, un’immissione alla morte: dalla vita terrena si passa all’ultra-terreno, all’informità, in cui esso è l’ultimo (unico?) e imprescindibile (dis)sacramento. Un bagnarsi nel fiume (dell’esistenza). Un immergersi nell’oceano. Si ritorna all’origine, al silenzio. Al ventre della natura. All’Uno. Si potrebbe pure azzardare, compiendo un’altra, ma non troppo differente lettura della sequenza sopracitata, che quel “bagnarsi”, non sia nient’altro che un sacrificarsi per placare l’ira della Natura (raffigurata da quei selvaggi, indigeni), scaturita per via dell’ambizione colonizzatrice dell’Uomo, così da garantire un’evoluzione futura (rappresentata dal bambino), che ricorda, tra l’altro, il sacrificio finale compiuto da Izumi in August in the Water (1995), la quale si immola per salvare la razza umana, concedendosi giustappunto alla Natura, per mantenere una sorta di equilibrio, come un compromesso vitale, tra forze ed esistenze umane e naturali, metaforicamente, nel film di Sogo Ishii, descritte da ciò che è terrestre ed extra-terrestre.

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(Immergersi, attraverso un rito che sembra indispensabile, per tornare al ventre della Natura. All’Uno. All’armonia (universale). Valhalla Rising e August in the Water)

 

Valhalla Rising, soprattutto per ciò che concerne la parte finale, potrebbe essere letto come il terzo tassello di una trilogia ideale, che procede in quest’ordine: partendo da Apocalypse Now (1979) di Coppola, in cui la morte del dittatore Kurtz, figura extra-umana e divinità iconoclasta, fa sì che i suoi figli putativi non abbiano più un padre, un punto (maschile) di riferimento; ecco che entra in gioco Vinyan (2008) di Fabrice Du Welz, nel quale i suddetti orfani, per via di questa mancanza, non possono far altro che cercare rifugio nel grembo materno, quasi sancendo la nascita di una nuova commune; essi, in sostanza, “cercano disperatamente una mamma”, come fortezza nel quale sentirsi protetti, a casa; infine Valhalla Rising chiude il cerchio: qua, il ventre materno è esploso, compiutamente dilatato, divenendo appunto la (Madre) Natura; ora, gli orfani di Kurtz, avendo perso il loro padre e padreterno, non accettano più alcuna figura mitica/mitologica, perché ne sono, come dire, intimoriti, rimasti traumatizzati e delusi, visto che hanno perso ogni coordinata paterna e si sono, oramai, rinchiusi nella roccaforte materna (la Natura), non ammettendo più alcuna figura cristologica-maschile. Di conseguenza, appunto, faranno fuori, attraverso un’uccisione simbolica che corrisponde ad una sorta di de-mitizzazione, il Dio/guida spirituale One Eye. Ecco che questi figli di nessuno proteggono la loro Madre (Natura(le)). Il film di Refn, quindi, fa detonare il discorso storico, spostandosi su un eremo mistico e universale, di pura violenza spirituale.

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(Orfani della Storia. Apocalypse Now)

 

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(Orfani della Storia. Vinyan)

 

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(Orfani della Storia. Valhalla Rising)

 

Tra l’altro, interessantissimo come il discorso intrapreso, citando appunto le varie pellicole, si disponga su, come dire, diversi piani temporali: Apocalypse Now parte da un discorso storico (l’assuefazione alla figura patriarcale-dittatoriale), Vinyan procede con il pre-istorico (la ricerca di una presenza materna decontaminata, disinquinata, che si collochi prima di ogni tipo di corruzione etica e/o sociale, prescindendo, quindi, tutto ciò) e Valhalla Rising che chiude con l’a-storico (eternizzare il ventre ospitante, da fisico ad etereo, da microcosmo a macrocosmo “uterino”, come spazio fuori dalla storia, atemporale).

Tanto Valhalla Rising quanto Apocalypse Now sono il racconto (oggettivo e simbolico) di un «descensus ad inferos» orizzontale (anche figurativamente: in entrambe le pellicole, una barca si muove seguendo traiettorie in linea retta verso una meta prefigurata e “finale”) e fatalistica. In ambedue le opere, il punto d’approdo (la Terra Santa per Valhalla Rising, l’impero a-storico di Kurtz per Apocalypse Now) non è altro che l’ultimo girone dantesco, un luogo mitico – come mitico è il racconto, ovvero pre-istorico – in cui al mito stesso viene posta fine: One Eye e Kurtz muoiono sacrificati sull’altare della Storia. Al culto si sostituisce la religione, alla comunità subentra la società.

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(Discesa orizzontale negli inferi. Apocalypse Now e Valhalla Rising)

 

Valhalla Rising è un film magnetico e “cerimoniale”, con una (sublime) fotografia pastosa, luttuosa e, soprattutto, cinerea, che, in alcune sequenze relative a delle allucinazioni/presagi, vira verso un rosso alienante. Cinema draconiano ed erculeo, con una regia imponente, magistrale e plastica, che include estasianti e sacrali ralenti, accecanti (ed illuminanti) inquadrature in controluce, cinemascope di contemplativa maestosità e dei perforanti e potenti primi piani. Notevole anche il grandioso commento musicale che risulta essere elettrizzante, ipnotico, aulico, energico ed imperativo.

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(Fotografia che vira al rosso)

 

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(Inquadrature controluce)

 

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(Cinemascope imponente)

 

To Oliver Winding
Ed è simboleggiato dal sacrificio (One Eye) verso una persona per la quale si nutre fiducia (Are), che Refn racchiude il suo ringraziamento rivolto ad una persona a lui cara (amico/parente/aiutante): Oliver Winding, figlio del fratellastro di Nicolas, assistente al casting per Pusher e consulente di sceneggiatura per Fear X, al quale Valhalla Rising è dedicato.

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Manuel Piras

“Valhalla Rising” (2009)
93 min | Adventure, Drama, Fantasy | Denmark / UK
Regista Nicolas Winding Refn
Sceneggiatori Nicolas Winding Refn, Roy Jacobsen, Matthew Read (additional writing)
Attori principali Mads Mikkelsen, Alexander Morton, Stewart Porter, Maarten Stevenson
IMDb Rating 6.0

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