14 Dicembre 2016 -

WIENER-DOG (2016)
di Todd Solondz

Il cinema corale, la crescita, la destrutturazione degli stereotipi del cinema americano: è da sempre questa la missione del cinema di Todd Solondz, classe ’59, tra i più originali e intelligenti autori nel clima statunitense dagli anni ’90. Quasi vent’anni dopo quel capolavoro che è Happiness (1998), quest’anno abbiamo Wiener-Dog, e ci ritroviamo di fronte a un’opera di sconfinata complessità: un’antologia suddivisibile in quattro capitoli, tutti con protagonista un bassotto (nome dispregiativo in inglese: “wiener-dog”, ovvero “cane-würstel”), presumibilmente lo stesso, e i vari padroni che ha. Il primo è Remi, un bambino poco responsabile che ancora deve capire il valore della vita e della morte; il secondo è Dawn (splendida Greta Gerwig), un’infermiera che si porta il cane in viaggio verso l’Ohio insieme a un suo amico di scuola, Brandon, diventato eroinomane; il terzo è Dave (Danny DeVito), sceneggiatore e insegnante di cinema, disilluso e spaventato dal futuro della scuola in cui insegna; il quarto è Nana (Ellen Burstyn), vecchia malata che riceve una visita dalla figlia, da poco fidanzata con un artista sfacciato e insopportabile. In mezzo, un parodistico intermezzo country in cui il bassotto passeggia attraverso il mondo a ritmo di musica, sproporzionato.

Il film sembra presentarsi come una semplice commedia surreale e un po’ eccentrica, magari “critica” del mondo circostante (della società, degli atteggiamenti individuali), ma è così solo se si guarda il trailer, o il poster, o leggendo velocemente la trama su Rotten Tomatoes. In realtà, Wiener-Dog è un film estremamente stratificato, che si nasconde dietro il delirio per poi mostrare, in maniera inaspettata o addirittura insospettabile, una disillusione disperatamente silenziosa di Solondz stesso. Una disillusione che nel primo tempo del film è riferita alla forma dell’arte cinematografica e nel secondo tempo agli individui dietro l’arte moderna (e, con essa, anche il cinema). Ma, superata la dimensione di “critica artistica”, il significato più superficiale di semplice esposizione di umanità attraverso la narrazione fiabesca della vita di un non-uomo – un ridicolo bassotto, controcampo parodistico dell’animale/parabola umana per eccellenza del cinema, l’umilmente nobile asino Balthazar di Bresson – è comunque intelligente, divertente e commovente, con una potenza visiva e dialogica notevolissima, che porta subito Wiener-Dog tra i film più intensi e necessari nel cinema americano mainstream (più o meno, più meno che più…) di quest’anno. Il film si apre con dei titoli elegantissimi che si soffermano sul bassotto lasciato in una gabbia, prima che venga preso dai genitori di Remi e portato nella sua prima vera casa cinematografica. In sottofondo solo gli altri cani che abbaiano, mentre il bassotto gira attorno alla gabbia, spaesato, spaventato, confuso. È certo che Todd Solondz è pessimista, probabilmente anche troppo, ma almeno non si limita a esplicitare la presenza di questa gabbia, bensì la definisce anche, e spiega il movimento (o i movimenti) all’interno di essa attraverso il resto del film, costruendo queste quattro storie che è come se fossero i quattro lati della gabbia stessa, quattro circoscrizioni della medesima assillante necessità di capire la vita, una necessità non più legata ad un sentimento (la felicità di Happiness) o a un bisogno narrativo, bensì fortemente legata al sentimento del regista e alla condizione umana.

Parlando prima dell’impatto emotivo, più evidente rispetto all’approccio più formalmente appartenente alla riflessione cinematografica pura, si deve dire che le quattro storie, probabilmente, hanno più o meno lo stesso valore da un punto di vista filmico, ma anche fini e caratteristiche stilistiche distinguibili abbastanza da poter toccare più sensibilità diverse: la prima storia è una storia di formazione, la seconda un road movie pseudo-familiare, la terza un’anti-commedia sociale e la quarta una specie di indie movie mortifero, in cui neanche la più seria e poetica delle manifestazioni allegoriche si può prendere sul serio e tutto è spinto talmente oltre i propri limiti – di tempo e di significato – da diventare inevitabilmente ridicolo. Questa scelta di suddivisione, oltre a far parte della normalità per lo stile di Solondz, spesso legato al cinema corale o a quello antologico, scandisce anche un ritmo ben preciso di crescita “vitale” (del cane ma anche dell’età dei suoi padroni) che finisce inevitabilmente anche per essere un continuo e costante sfociare in un pessimismo sempre più nero. Alla fine, la tristezza adolescenziale e infantile mette in crisi ma non distrugge, al massimo crea una “morale” (quella che impartisce la madre Julie Delpy alla fine della prima storia, quando si crede che il bassotto sia morto): morale che diventa immorale quando Dio, e con esso ogni speranza, viene rimosso, sostituito da crudeli mantra o da domande a cui è impossibile fornire una vera e propria risposta; e il bambino chiede alla madre “ma allora la morte è una buona cosa?”. Giunti nella gioventù più avanzata (post-liceo o post-università), ci si trova di fronte a individui che non hanno perso la speranza ma che sono, di per sé, persi nel mondo, nel senso più banalmente antonioniano del termine: non c’è comunicazione, c’è solo un rimando continuo a un passato mal vissuto e uno sguardo diretto nel vuoto di un futuro non (ancora) vissuto, e forse non vivibile.

Ci sono bugie e umanità, verità e disumanità, sorrisi e lacrime, tutto con un’amarezza ed una gentilezza sontuose nel trattare i drammi personali di due personaggi sconnessi ma meravigliosi: la Dawn interpretata dalla Gerwig e il Brandon interpretato da Kieran Culkin (fratello di Maculay e noto soprattutto per il proprio ruolo in Scott Pilgrim vs. the World (2010) di Edgar Wright), già protagonisti di un precedente film di Solondz, Fuga dalla scuola media (1996), anche se interpretati da attori diversi. Il culmine di pathos del film si ha probabilmente in questa seconda storia, in due scene: quella in cui Dawn ascolta i mariachi in albergo mentre Brandon si fa di eroina, e il dialogo strappalacrime tra Brandon e Tommy, suo fratello down. Con la terza storia, quella con Danny DeVito, Solondz crea un proprio pseudo-alterego che funge come maschera relativamente divertente di un disagio assolutamente tragico, una sorta di remake “scolastico” dello sconforto nei confronti del mondo messo in scena dal protagonista di Entertainment in maniera così malfunzionante e patetica. Il professor Shmerz è come se avesse bisogno di credere in qualcosa, ma non ci riesce più, e il lento disgregarsi delle barriere che hanno costruito questo suo bisogno lo porta a una crisi artistica, psicologica e pure di carriera. Il professor Shmerz è la faccia depressa di quello che Solondz, probabilmente, non vuole essere e non sarà mai; ma anche la faccia di un suo eventuale Es, una tendenza psicologica di distruzione come risposta allo “stare fuori” dal non-mondo del cinema, un mondo che vede come un’industria in lento collasso, forse a causa di un’implosione commerciale o forse a causa delle nuove generazioni di studenti di arte (i social justice warriors liberaldemocratici) e della loro superficialità. L’ultima storia si pone come vero e proprio epilogo: dalla critica all’arte moderna si passa direttamente alla morte, alla sua demistificazione, al vuoto dell’infanzia che diventa sogno e al pieno del risveglio che diventa morte, conclusione e poi “artificializzazione” della stessa, con l’artista afroamericano Fantasy che tramuta il ricordo del bassotto, denominato Cancro dalla sua ultima padrona, in un animatronic patetico.

Ma forse Fantasy è anch’esso Solondz, che tramuta, forse, i ricordi dei cani avuti e conosciuti nella sua vita in un’opera d’arte in cui il cane è plastico e inconsistente, semplice McGuffin per poi arrivare ai drammi personali. Drammi che, appunto, nella seconda e nella terza storia si tramutano in critiche verso la moralità dell’arte moderna, ma che nelle prime due storie sembrano essere semplicemente un’elegante manifestazione di un delirio formale. Il “Claire de Lune” di Debussy suonato al flauto traverso da Remi, con poca esperienza in campo, diventa poi musica extradiegetica che avvolge l’esistenza e la bellezza della vita del bassotto e poi anche i lasciti del suo sterco, che ne denotano la morte, la scomparsa, che poi altro non è che la “prima morte” del bambino (bambino interiore?), l’accettazione del fatto che la morte esiste. Il cinema è forse una contraddizione per mostrare la vita, visto che non la rappresenta ma ne rappresenta la parte più circoscrivibile in immagini, ed è per questo che la musica si sposta sempre di più verso un orecchio generalizzato (divino, del regista, dello spettatore, del cane). E da lì la morte si cura proprio con il cinema, con il McGuffin, di nuovo, il ridicolo e poco credibile metodo infermieristico di Dawn, e da lì scaturisce il non-futuro, il non-vero, che è anche ciò che, almeno a noi, ha fatto scorrere più lacrime. Todd Solondz ha confezionato un prodotto incredibile e che sicuramente non ci dimenticheremo per un bel po’, uno dei film più belli di questo anno pieno di sorprese e sicuramente un ottimo recupero – a dispetto di una distribuzione italiana ancora inspiegabilmente latitante – per chiunque volesse concludere in bellezza l’anno cinematografico pochi giorni prima dell’uscita in sala di Paterson.

Nicola Settis

“Wiener-Dog” (2016)
88 min | Comedy, Drama | USA
Regista Todd Solondz
Sceneggiatori Todd Solondz
Attori principali Keaton Nigel Cooke, Tracy Letts, Julie Delpy, Greta Gerwig
IMDb Rating 5.9

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