Prosegue il personalissimo discorso di Carmit Harash attorno alla guerra oggi, alle scorie di un post colonialismo sempre più scomodo e alla ancor più sconcertante mancanza di dialettica nel leggere il contemporaneo francese. C’eravamo lasciati, in Où est la guerre presentato a TFFdoc lo scorso anno, con in un limbo improbabile, un senso ininterrotto della vicinanza possibile di una catastrofe (sempre più annunciata) e all’indifferenza più completa nell’interrogarsi su tutto ciò. Arrivò poi la giornata di Charlie Hebdo e il suo cambiare lo stato delle cose, ma non la stessa percezione che Carmit voleva dare alla situazione in drammatica evoluzione (la scena finale del film precedente, il viaggio in bus verso il luogo dell’attentato, le continue controversie con gli abitanti). In Attaque si riparte da Charlie o quasi, dall’idea stessa che la Francia (e forse l’Europa tutta) sia sotto attacco costante e continuo, esposta al terrore islamico e vulnerabile in ogni sua espressione. A questa drammaticità si può solo rispondere con un atteggiamento diverso, aperto e curioso, lo stesso che la protagonista/autrice mette nel suo cinema, sempre più semplice e profondo. Evitando di determinare nuovamente l’origine e le traiettorie di questo cinema personalissimo e che quasi solo a Torino trova lo spazio che merita, è giusto oggi pensare a cosa sia cambiato realmente nella coscienza (sporca) di un paese che rivendica una giustizia attuale non considerando un passato ancora troppo vicino.
C’è chi parla e chi no, ovvero la soggezione che ancora molti in Francia hanno nel parlare di questo tema/tabù/dramma, tanto da farsi recitare le proprie impressioni su video pur di non apparire personalmente. Già questo basterebbe a condensare la forma stessa di omertà che colpisce l’ambiente culturale più alto di un Paese che lotta innanzitutto contro le armate del dubbio e della ragione; il punto è il solito, trovare un perché. Esiste questa guerra/attacco? Se si, da dove proviene la minaccia? E quali sarebbero le cause scatenanti di questa barbarie? La Harash, israeliana trapiantata da molti anni in Francia, sa benissimo che sarebbe sempre più presuntuoso rispondere a questo cortocircuito continuo sulla contemporaneità, e ancora una volta lascia parlare le sue immagini del quotidiano, ciò che riprende vagando per una Parigi militarizzata ogni giorno, dalla colazione alle passeggiate serali. C’è chi al telefono le chiede perché guarda i video dell’Isis e c’è chi protesta in modo esibizionista e cazzaro per la pace, c’è chi indossa il vessillo europeo e chi sulla moto imbraccia quello francese, ci sono i soldati con il mitra puntato e quelli che perquisiscono i migranti ai piedi di una chiesa, violandone pure qualche diritto. E poi c’è l’intimità di coppia, il compagno con l’albero di Natale che lei vuole cestinare e la famiglia che in Siria “combatte” ogni giorno sull’altro fronte. In poche parole è l’universo stesso di Carmit a parlare, sono le riflessioni che vengono così naturali e necessarie come la ripresa d’apertura con la scritta di Charlie che imperava su tutti i canali (anche sulla Parigi-Dakar), o quella finale che dopo un frammento di diretta dal Bataclan (dove si innalza ancora lo scontro) pare rimandare a un altro capitolo di questo percorso personalissimo ma così importante. Eppure, la luce in fondo al tunnel va cercata disperatamente, in un sorriso, in un ballo in famiglia, nella coesione. Anche se dovesse rivelarsi un’ultima illusione.
Attaque è un viaggio nell’ipocrisia di un Paese, una continua riflessione su una realtà prismatica fatta di rimandi e di non detti, fatta di manifestazioni che dimenticano presto i loro motivi politici e degenerano nel loro aspetto più ludico, fatta di paura e di repressione, mentre chi (non) vive nelle banlieue viene quotidianamente portato al punto di ebollizione. Si gioca al cinema come si gioca alla guerra, ma purtroppo è tutto vero. L’approccio che ha Carmit Harash è quello della sensibilità e della curiosità, mostrando con leggerezza estrema come si può indagare l’aspetto sicuramente più problematico che il mondo occidentale sarà costretto ad attraversare nei prossimi anni. Lo fa con spensieratezza, ma allo stesso modo con una sottile parentesi di rassegnazione, come se tutto ciò fosse doveroso ma pressoché inutile. Forse troppi passi indietro andrebbero fatti per riconsiderare tutta questa situazione, perché ogni colpo inferto da una parte o dall’altra è solamente un accelerarsi dell’ignobile processo di estremizzazione che nessuno pare aver voglia di fermare. Laddove il rapporto con il proprio passato non solo non è risolto, ma non viene minimamente problematizzato, come è possibile una via di fuga? Forse la resistenza è sempre più piccola e quotidiana, smuovere una coscienza è già coinvolgerla in un processo che non veda il materialismo storico-coloniale del Novecento come un aspetto inevitabile e necessario, ma che con profondità vuole provare a superare la barriera ideologica del male per poterla minimamente scalfire. Ancora una volta spetta a noi cercare di fare qualcosa. Lei ci ha indicato ancora una volta la strada fatta nel mostrare con tenerezza l’assurdo dei pilastri del nostro modo di vivere l’altro, il ridicolo dei nostri assiomi occidentali identitari portanti e il paradosso di sentirsi oggi sotto attacco quando il problema è stato palesemente il nostro, e forse a tratti lo è ancora oggi. Una volta si diceva che chi si difende arroccandosi e pensando che il nemico sia esterno poi se lo trova in casa: che ne pensate?
Erik Negro