22 Novembre 2016 -

SULLY (2016)
di Clint Eastwood

Spesso si denigra Clint Eastwood per le sue posizioni politiche (ragionevolmente o meno), ma ogni volta l’autore recupera subito tutta la reputazione perduta appena torna a occuparsi di cinema. In anteprima nazionale al Torino Film Festival 2016, il suo ultimo lavoro, Sully, è l’ennesimo capitolo, l’ennesimo centro gravitazionale orbitante intorno all’unico e solo riferimento: l’uomo, il senso di responsabilità collegato alla definizione stessa di individuo, la necessità di fare delle scelte e di assumersene poi la piena responsabilità. Una sorta, insomma, di neo-umanesimo che di “neo” ha solo la società in cui quest’individuo si muove e interagisce (e i relativi “aggiustamenti” psico/sociologici che questo comporta), ma impregnato di una classicità formale e contenutistica che fanno del regista (e attore, ma c’è davvero bisogno di specificarlo?) californiano l’ultimo grande erede della Hollywood della Golden Age. Quando poi, come in questo caso, affida il ruolo principale a Tom Hanks, l’altro grande erede dei “moral heroes” di quella irripetibile stagione, l’eccellenza del risultato finale è assicurata. È un oggetto cinematografico singolare, Sully, che scava tra le pieghe, che riempie di contenuto ogni frase e ogni scompaginazione temporale al di là dell’immediata evidenza, che invita alla riflessione soprattutto successiva alla visione. Poiché l’ora e mezza abbondante di proiezione vola via senza tregua e non lascia tempo per la rielaborazione, noi spettatori siamo travolti come gli uccelli travolsero l’Airbus 1549 il 15 gennaio del 2009, costringendo il capitano Chesley Sullenberger (detto Sully, appunto) a un ammaraggio di emergenza nel fiume Hudson, vista l’impossibilità di tornare all’aeroporto “La Guardia” di New York da dove era partito pochi minuti prima. Ma era davvero così impossibile tornare all’aeroporto di partenza o in uno degli altri due aeroporti vicini?

Il capitano Sully è un eroe che ha salvato 155 persone o soltanto un impulsivo (e fortunato) irresponsabile? Sono queste (o meglio sembrano essere queste) le domande che il film ci pone, configurandosi all’apparenza come un “processuale” che ha il suo culmine nell’udienza/spettacolo che conclude e tira le fila. Se, però, Robert Zemeckis in Flight (film assimilabile a questo per più di un motivo) poteva contare sulla “finzione” per imbastire la parabola del suo pilota, qui Eastwood deve forzatamente aggiungere altro, noi sappiamo già dalle cronache come si sono svolti i fatti, e lo fa mirabilmente concentrandosi su un punto, che è poi probabilmente il motivo per cui ha scelto questa storia, dalla portata simbolica ed emotiva immensa per il popolo americano: l’importanza del “fattore umano”, in un’epoca di deliri tecnologici e spersonalizzanti. Il populismo di Eastwood (con un’accezione del termine molto diversa da quella che gli diamo qui in Italia) mette sotto accusa la “freddezza del sistema”, e insieme ne mostra l’implacabile efficienza, che non comprende l’eccezione tra le opzioni disponibili. Il capitano Sully diventa un eroe per tutti gli americani (abbracci per strada, comparsate nei Late Show) tranne che per questi burocrati assicurativi interessati al solo recupero del vil denaro, incapaci di capire quanto l’accaduto possa portare vantaggi in termini di pubblicità ed esposizione del marchio. Ma qual è, poi, questo accaduto? Perfino lo stesso capitano, con Hanks che dà il meglio in un’interpretazione di soli mezzi toni attraverso l’intensità del primo piano, nutre dubbi sulla sensatezza della sua scelta, presto poi (ri)accettata come inevitabile. E l’inconscio esplode in sogni di immani disastri, di palazzi sventrati, messi in scena da Eastwood con un impressionante realismo che coniuga CGI e riprese dal vero. Perché, ed è un aspetto che non va mai tralasciato, l’impianto spettacolare è notevolissimo, l’incidente (propostoci due volte) trasmette tensioni e terrori dalla cabina di comando ai passeggeri, il salvataggio dall’acqua gelida echeggia pagine da “disaster-movie” dei tempi andati.

Che ci dice, in sostanza, il “populista” Eastwood? Che l’efficienza dei soccorsi è una grande pagina di storia newyorkese, che tutto funziona al meglio quando è il semplice cittadino, e non le élite, a rimboccarsi le maniche, che c’era bisogno di una storia positiva collegata ad un aereo che si abbassa drasticamente sullo skyline per rielaborare uno dei più grandi traumi della storia americana. In The Walk (ecco che ritorna ancora Zemeckis) il cinema si riappropriava finalmente dell’immagine delle Twin Towers, per anni rimossa digitalmente, impossibile da (ri)mostrare. Con Sully la riconciliazione con la tragedia diventa totale: le facce terrorizzate che, dai finestroni dei grattacieli, guardano ancora una volta un aereo uscire dalle rotte consuete e planare verso il basso racchiudono (in quei pochi secondi) il senso di un’operazione pensata fin nei minimi particolari. Tutto funziona quindi? No, qualche difetto qua e là c’è, su tutti una fotografia (di Tom Stern) dai toni grigi e plumbei che avvolge l’opera in una caligine fosca che non rimane di certo scolpita nella memoria. Chi vi parla non ha amato proprio tutti i film dell’ultimo, osannato Eastwood, che ormai gode di un’esaltazione acritica che è l’altra faccia della medaglia della diffidenza con cui i suoi lavori erano accolti tempo fa (almeno fino a Gli spietati), ma questa volta il bersaglio è stato centrato in pieno.

Donato D’Elia

“Sully” (2016)
96 min | Biography, Drama | USA
Regista Clint Eastwood
Sceneggiatori Todd Komarnicki (screenplay), Chesley Sullenberger (based on the book "Highest Duty" by), Jeffrey Zaslow (based on the book "Highest Duty" by)
Attori principali Tom Hanks, Aaron Eckhart, Valerie Mahaffey, Delphi Harrington
IMDb Rating 7.9

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