Gustavo Jahn e Melissa Dullius scrivono, dirigono e interpretano un film importante, misterioso e vivo, presentato nella mai così sorprendente sezione Onde del 34mo Torino Film Festival dopo la prima di febbraio al Forum Expanded della Berlinale. Muito Romântico è un film-saggio teorico e complesso, che ci fa pensare e ci ammalia nelle sue mille chiavi di lettura e nel suo dedalo di linguaggi e istanze. Partiamo dall’importante parentesi che è un film brasiliano di fatto ma profondamente portoghese di forma, e che il cinema portoghese, che lo sia di fatto o no, sta vivendo una sorta di nuova genesi dopo la scomparsa del gigante De Oliveira, (di)mostrandosi (v. Correspondências) sotto la forma di un poetico cortociruito, anarchico e pulsante, che vive e respira grazie alla confusione e alla libertà purissima di un qualcosa sempre in bilico, e che allo stesso tempo volteggia in quella flagranza di passato e memoria a cui appartiene. Perché, ancora oggi, di quel gigante non è pensabile non abitare almeno su una spalla. C’è lo sperimentale, c’è la pellicola, c’è l’emotività, c’è la musica, e ovviamente c’è l’espressività, la luce, la poesia, la presupposizione del divertissement intellettuale che non si spiega da solo e si tramuta in qualcosa di diverso. C’è Berlino, vista in tutto lo splendore della sua eterna decadenza dagli occhi di chi ci è arrivato e si è integrato fra proiezioni all’aperto e messa in scena di se stessi, c’è la dolce ossessione della memoria attraverso la materia, c’è il viaggio, c’è l’inquadratura da comporre, c’è la fascinazione quasi misterica del supporto fisico di un film che trova il suo senso ultimo proprio nella grana viva del 16mm e nei suoi colori forse troppo saturi, e che non potrebbe mai e poi mai essere in digitale.
C’è tutto questo, ma è come se non ci fosse, perché tutto si fonde e compenetra nell’idea stessa di un amore o della sua definizione. Muito Romântico vive sul suo stesso paradosso sintattico: cosa c’è, davvero, di “molto romantico”? Un necrologio del romanticismo forse, un’incessante, tragica e violenta descrizione in dettaglio del lento disfarsi dei ritmi della coppia. Senza dubbio, si tratta di un film intimo e che travalica l’uso della citazione (filosofico-intellettuale), per portare noi spettatori su di un piano di concezione distaccato dal contenuto effettivo del film. Non ci viene chiesto di capire, come non viene chiesto a loro; sappiamo semplicemente di non poter capire tutto, e lo accettiamo proprio come loro accettano la loro stessa provvisorietà. Ci si trascina e si fluttua in quadri in 16mm, dalla grana densa e prepotente, tra un frame e l’altro seguendo ogni passo di questo commento di visione esterna/interna di una coppia che diventa un’unità. Ciò che si vede è già mostr(ific)ato.
Tutto questo fragile equilibrio è la reiterazione ideologica e dolcissima di una sola scena: in camera di Melissa e Gustavo, una donna (il personaggio di Lilja Löffler, la donna nell'”altra coppia” del film, specchio di Melissa e Gustavo e loro controparte che vive per un po’ nella loro stanza) dipinge un enorme cerchio nero, celandolo dietro un comodino, a ritmo di musica punk, dimostrandosi di spalle, seducente ma misteriosa, come una specie di femme fatale hippie. Pochi secondi dopo, Gustavo sposta il comodino e quello che era il cerchio dipinto si tramuta magicamente in un buco nel muro: Gustavo, buttandosi all’interno dell’oscurità, vive una sequela fotografica di intimità di coppia in filtro seppia, vere fotografie che scorrono timidamente attraverso lo schermo, con una velocità spropositata; un vortice commovente che ricorda l’intima schizofrenia di Mekas e una visività statica e suggestiva che rimanda allo spirito anarcho-kitsch del Jarman più mitologico, quello di In the shadow of the Sun (1981). Proprio per questo la proporzione è quella del ritratto tragico, che presuppone un ostacolo e la dialettica del suo superamento. Il provvisorio è un velo, una finestra, un’acquea disperazione che si riapre e si richiude seguendo solo e soltanto i movimenti umani, da una sigaretta a un pippotto di ketamina, da uno sguardo timido a un amplesso fuori campo, dal mare che trasporta la nave al fuoco che brucia una coperta, dall’inglese al giapponese, da Berlino a Lisbona, e sempre il Brasile. “Molto romantico” è il film ed il suo perenne esistere in transizione, nel movimento che non definisce la crisi di un legame, ma definisce i bordi del profilo del comportamento sfocando tutto ciò che non può (e non deve) legarsi al cuore. Ogni stacco può essere una frattura che isola il presente e lo dimostra nella forza detonante dell’attimo che non può (e non deve) preoccuparsi di cosa avviene prima e dopo. I buchi, le finestre, i volti, la musica di ribellione che diventa esperienza estetica grottesca, Gustavo e Melissa che, bellissimi, si guardano negli occhi e si fotografano, e si immaginano in paradossali avvicinamenti onirici in cui solo uno dei due mantiene la propria età mentre l’altro diventa anziano, creando un mantra personalissimo per autoconvincersi della durata necessaria della loro relazione e del loro amore.
C’è la Tavola di Smeraldo di Ermete Trismegisto, ci sono cenni alla cinematografia di Straub e Huillet, a quella di Gianikian e Ricci Lucchi, a Godard, ad una lunga tradizione di cinema sperimentale, e soprattutto al Filme de Amor, o all’Educaçao Sentimental, secondo Julio Bressane. Muito Romântico è l’arte dell’amare o dell’educare, non più solo al sentimento ma alla declinazione del romantico, di quella lingua romanzata che presuppone ogni amore (ed ogni) immagine come invenzione poetica pura e libera, di una finitezza così labile da non poterla nemmeno esprimere. Sono immagini e parole che creano altre immagini, in un eterno cortocircuito che si nutre del suo stesso supporto, lo porta avanti strenuamente, lo vive. Nel lento non-colore di una donna (Melissa) che fuma una sigaretta, inedita e anonima, al rallentatore, con quel Sole giallissimo che la ricopre di luce, tutto questo viaggio ci appare come un sogno distante che riverbera, attraverso la luce, un proprio passato inconsapevole della possibilità di un astratto futuro. Ma ogni parola non è altro che l’ennesima finestra che si apre verso gli ennesimi mondi possibili oltre l’inquadratura, e gli ennesimi post-romanticismi di questo dolce mondo filmico. Non resta che abbandonarci a cosa noi possiamo ancora pensare dell’amore, anzi forse se l’amore possa pensare ancora noi come possibili traghettatori di attimi e di sentimenti. L’amore fra gli uomini, l’amore per il cinema. Un amore impossibile, forse, quasi come lo scorrere dei fotogrammi di questo piccolo film straordinario.
Erik Negro, Nicola Settis, Marco Romagna