Si parla molto, e spesso a vanvera, della situazione femminile nei Paesi islamici, senza tenere conto delle profonde differenze che si incontrano fra un luogo e l’altro. Fra il tristemente noto burqah imposto in Afghanistan con il divieto di uscire di casa per la donna di proprietà del marito e la quasi totale parità dei sessi ormai raggiunta in Tunisia e ancor più in Turchia, dove le donne possono tranquillamente vestire all’occidentale, studiare e far carriera, esistono infatti decine di sfumature di diversa gravità oppressiva, che vanno dal velo imposto in Iran dalla rivoluzione khomeinista degli anni Ottanta – recentemente messo in scena da Babak Anvari nel suo folgorante Under the Shadow – fino all’ancor più pesante “svaria”, legge islamica che relega la donna in una posizione di totale inferiorità ancora oggi applicata in Algeria. E proprio la “svaria” è il vero mostro protagonista di Kindil el Bahr del cineasta classe ’82 Damien Ounouri: un mediometraggio di 40 minuti che, di Under the Shadow, si pone da subito come un ideale controcampo, puntuale anziché retrospettivo, algerino anziché iraniano, meno spaventoso ma forse ancor più denso, figlio di situazioni analoghe e forte della stessa urgenza. Presentato al MedFilm Festival di Roma dopo il passaggio in Quinzaine des Réalisatèurs, Kindil è un film proteso a declinare tutte le sue velleità politiche e sociali nella messa in scena di una vittima di linciaggio che, assetata di vendetta, si trasforma in una leggendaria donna-medusa in grado di emettere scariche elettriche che uccidono i bagnanti, trasformando quelle che sono state la sua paura, il suo dolore e la sua agonia in quelle di un’intera città. E che, paradossalmente, proprio per il suo amore residuo sarà destinata a perire ancora.
Kindil è una giornata al mare che virerà in tragedia, è una nuotata solitaria che diventerà violenza di gruppo, annegamento e morte, è una trasformazione che sfrutterà gli ambiti del fantastico e dell’horror per porsi come un’allegoria politica dura e straziata, atto d’accusa e grido di dolore in cui l’immobilismo delle autorità è una connivenza che fa parte del male, un ulteriore scempio compiuto su chi ha tanto sofferto per la sola “colpa” di essere donna. Viene “applicata la procedura”, nei confronti della protagonista-vittima, prima non cercandola per le condizioni meteo avverse (che, ne siamo tutti convinti, non avrebbero mai e poi mai fermato i soccorsi a un uomo), poi mandando dopo un paio di giorni di agonia familiare una sola e inutile barca di sommozzatori per la ricerca, poco prima che sia lei stessa a ripresentarsi, trasformata in mostro antropomorfo, fulminando i bagnanti con il suo urlo. L’applicazione della procedura, a questo punto, costringerà fra minacce e inganni il marito devastato dal dolore a porsi come esca per poterla catturare, e infine la esporrà sulla pubblica piazza, nuovamente uccisa, alla stregua di un impiccato del medioevo, in modo che anche i media possano fare la loro parte nella trasformazione di una vittima in mostro. “Non sarà mica diventata una donna-medusa senza un motivo, non si sarà mica trasformata senza volerlo fare”, insinua il poliziotto incaricato delle indagini, come a volerla accusare ancora una volta, come se la violenza da lei subita fosse una sua colpa, e non l’incancrenirsi di una società sempre più maschilista e patriarcale, inumana, sottilmente perfida negli atti, nei silenzi e nelle accuse verso chi viene considerato inferiore e privo di diritti sociali per mera impostazione genetica.
L’incipit di Kindil è quello di una normalissima famiglia, padre, madre, figli e suocera, in partenza per una giornata in spiaggia. Ma quando Nfissa, la giovane madre, si allontana per una nuotata – rigorosamente vestita – dietro a un’insenatura, arriverà ben presto un gruppo di bagnanti gradassi a umiliarla, toccarla, picchiarla, linciarla. Senza un reale motivo, solo perché la società è malata, come sempre più spesso recitano le cronache provenienti dal paese maghrebino: la violenza come diritto di nascita, la legge del più forte che sa che rimarrà impunito, protetto da autorità corrotte e retrograde che non sembrano considerare la violenza sulle donne un reale problema. In un’ansia crescente, Nfissa verrà brutalmente annegata in quelle acque che sarebbero dovute essere lo svago di un giorno in famiglia, la gioia di stare insieme e di fare un tuffo. Cinematograficamente geniale, nella tensione che attanaglia la protagonista e lo spettatore in questo attacco brutale quanto sostanzialmente immotivato, la scelta di Ounouri di sottolineare il cambio di atmosfera con un radicale cambio di meteo: dopo la prima fase subacquea, la testa di Nfissa ancora viva tornerà al di sopra della superficie dell’acqua, ma al posto del sole che stava baciando la sua chioma prima che iniziasse la tragedia trova una fitta pioggia, una tempesta di tuoni che si abbattono sul mare e ne increspano la superficie come ad alimentare il dramma di Nfissa – nessuno che ne senta le grida di aiuto, nessun testimone. Solo omertà, spalle alzate, e nemmeno la devastazione di un marito può crepare il muro di silenzio e ipocrisia che l’intera società mantiene eretto.
Nelle maglie strette della breve durata, Damian Onouri ha firmato un film straordinario: acuto, potente, politico, uno squarcio in una società, una forte presa di posizione su un dramma sottovalutato. La regia è abile nell’alternare panoramiche sulla magnificenza della natura che dà e toglie la vita alla concitazione serrata della lotta e dalla morte, mentre la sceneggiatura apre al dolore del marito e della madre che hanno perso l’amore senza mai cadere nel sentimentalismo, e senza dimenticare di mantenere sempre ben salde le redini di un’allegoria politica dura, umana, piacevolmente orrorifica nel nuoto della creatura, nelle sue urla di morte, nei suoi attacchi alla spiaggia e alle barche. E nel suo strazio quando vedrà il marito in riva al mare, e il suo mostrarsi ancora una volta a chi ancora riconosce come amore la farà finire in fitte reti da pesca, immobilizzata, neutralizzata, ancora una volta uccisa da un’altra faccia di quella stessa società maschilista e cannibale. Rimane solo la disperazione di un marito che ha perso tutto, e che ora giace con il viso nella sabbia, in attesa che la sua povera moglie venga esposta anche al pubblico ludibrio. La gente muore, in Kindil, perché il vero orrore è quello che accade ogni giorno nelle case, nelle strade, nelle spiagge. Il vero orrore sono i ripetuti stupri e omicidi attuati sulle donne dai fondamentalisti, il vero orrore è la totale instabilità che devono vivere le donne algerine in base alle leggi dello Stato, il vero orrore è il loro ruolo meno che marginale nella società, il menefreghismo nei loro confronti, e a poco serve anche un marito progressista e sinceramente innamorato quando tutti, come un cappio stretto intorno al nucleo familiare contro cui si temono rappresaglie al punto da allontanare i bambini, non concedono respiro, né diritti, né giustizia. Né memoria.
Marco Romagna