“Quando i morti resuscitano, bisogna smettere di uccidere per non perdere la guerra“
Avevano ormai 10 anni gli zombie, o Zombi, all’italiana, come sarà il titolo nostrano della seconda incursione di George Andrew Romero nella saga delle creature da lui stesso create nel ’68 con piena indipendenza, un budget di nemmeno diecimila dollari, un po’ di make up, qualche rullo di pellicola in bianco e nero, una ben precisa coscienza politica e una geniale inventiva. Il titolo originale di questo secondo episodio invece, Dawn of the Dead, letteralmente “L’alba dei morti”, sta a indicare come l’invasione sia di portata sempre crescente dopo il precedente Night of the living dead – La notte dei morti viventi (1968) e prima dei successivi Day of the Dead – Il giorno degli zombi (1985), Land of the Dead – La terra dei morti viventi (2005), Diary of the Dead – Le cronache dei morti viventi (2007) e Survival of the Dead – L’isola dei sopravvissuti (2009). Eppure, in questo caso, la differenza di titolo non si limita a una sostanziale sospensione della progressione che verrà ripresa nei titoli italiani futuri, ma a due versioni distinte del film: Dawn of the dead, destinata inizialmente al mercato statunitense e britannico e proiettata alla presenza del regista all’ultimo Lucca Film Festival, dura 127 minuti ed è stata montata personalmente da Romero; Zombi invece, recentemente restaurato in 4K e presentato prima come evento speciale a Venezia e ora al Trieste Science+Fiction – Festival della Fantascienza, di minuti ne dura invece solo 119, ha un’intera sequenza in meno ma più azione, è forse meno carico sul fronte politico ma narrativamente più asciutto, è meno proteso verso i lati comici e più verso quelli orrorifici, è impreziosito dalle musiche originali dei Goblin (sostituite da musiche fuori diritti nel cut di Romero, con almeno un paio di sequenze che cambiano radicalmente atmosfera dalla tensione al riso quasi parodistico e viceversa) ed è stato montato al tempo dal co-produttore, il ‘nostro’ Dario Argento, che si prodigò a reperire metà del budget per le riprese di un film costato complessivamente poco più di un milione e mezzo di dollari.
È impossibile trovare una versione più efficace, e sarebbe stupido cercarne una preferita al di là delle possibili affezioni. Il contratto di co-produzione prevedeva sin dall’inizio che il film avrebbe avuto un doppio montaggio, uno tarato su gusti più ‘americani’ e uno tarato su gusti più ‘europei’, e per quanto leggenda voglia che Romero fosse al tempo insoddisfatto del montaggio di Argento, il passare degli anni e il cementarsi del loro rapporto di amicizia – con tanto di Asia, figlia del re del brivido italiano, che verrà scelta come protagonista per La terra – dimostrerà una stima reciproca che va ben oltre le dichiarazioni alla stampa o la delusione momentanea di chi ha un montaggio ben preciso in testa e lo vede realizzato in maniera differente, e lo stesso regista statunitense avrà più volte occasione di tornare sui suoi dubbi iniziali tessendo le lodi delle musiche dei Goblin e poi dichiarando la piena legittimità di un montaggio alternativo e quindi leggermente diverso, ma altrettanto autoriale e ragionato. Anzi, in alcuni casi la forbice di Argento sembra addirittura più netta e precisa rispetto a quella di Romero, con quei pochi e quasi impercettibili fotogrammi in più o in meno capaci di aumentare il dinamismo dell’intera sequenza, e di sicuro la colonna sonora di Zombi vince su tutta la linea rispetto a quella reperita gratuitamente per Dawn of the Dead. Dall’altra parte, il montaggio curato personalmente da Romero contiene l’irresistibilmente spassosa sequenza dello zombie che si stacca da solo lo scalpo avvicinandosi alle pale dell’elicottero, probabilmente tagliata da Argento per non allentare la tensione drammatica ma conoscendola se ne sente la mancanza, e non perde praticamente nulla in tenuta narrativa pur lasciando qualche dialogo in più dal quale fare emergere in maniera ancora più evidente la metafora politica del film. Perché Dawn of the Dead/Zombi, quale che sia la versione in cui lo si guarda, rimane sempre fra i più grandi capolavori non solo del genere, dove l’avventura si trova a metà strada fra l’orrore e la commedia, e dove uomini, zombie, amore, morte, mass media, esercito, consumismo e pallottole trovano il proprio punto di sintesi: qual è il vero mostro?
Avevano ormai 10 anni gli zombie, dicevamo, e Romero si era nel frattempo dedicato, dopo il capolavoro d’esordio, ad altri progetti cinematografici, ma in cuor suo sapeva che il discorso iniziato con La notte dei morti viventi non era affatto concluso. A Pittsbourgh aveva appena aperto un gigantesco centro commerciale, perfetta metafora del capitalismo e del consumismo con tutti i suoi negozi collegati e pieni di ogni possibile necessità: un microcosmo fasullo con il quale comunicare benessere e opulenza, nel quale poter soddisfare ogni bisogno – un qualcosa di orribile, secondo Romero: il luogo perfetto dove rinchiudersi per sfuggire a un’invasione zombie, il luogo perfetto dove vivere ogni possibile contraddizione semplicemente prendendo ciò che è a disposizione. Una metafora talmente evidente da essere presto destinata a diventare un topos ancora oggi utilizzato – tanto per citare gli ultimi due casi, il centro commerciale come rifugio (mortale) degli attentatori di Nocturama di Bertrand Bonello o, per rimanere in tematica zombie anche se in animazione, quella sorta di variante coreana dell’Ikea nel quale si conclude Seoul Station di Yeon Sang-ho. Gli zombie camminano lenti ma inesorabili, un’orda famelica pronta a fagocitare chiunque si pari davanti a loro, dichiarata metafora politica del capitalismo e di come non si faccia alcun problema ad attaccare a morsi chiunque sia più debole di lui. I non morti sono una vera e propria specie che reagisce solo al richiamo del cibo – i vivi –, non si attaccano fra di loro, e basta un morso perché, dopo una morte atroce (“Non ho mai visto nessuno resistere più di tre giorni”), una persona possa totalmente abbandonare la propria esistenza, i propri affetti e la propria memoria per trasformarsi in un mostro pronto ad attaccare subito dopo il risveglio anche gli stessi parenti che ne stanno piangendo la salma. La televisione, finché esiste ancora la televisione, dice di decapitare i cadaveri prima della trasformazione, rimettendo in dubbio tutto il culto dei morti, il rispetto che sarebbe loro dovuto, la stessa umanità di chi si risveglia e attacca. E così fanno i protagonisti, sparano, scappano, bonificano, si barricano, ma la stabilità raggiunta nel centro commerciale sarà drammaticamente più breve del previsto, fra chi per eccesso di spavalderia verrà morso e chiederà di essere ucciso prima di diventare uno di loro e chi, un bambino in grembo, dovrà imparare a sparare e a pilotare l’elicottero per poter salvare se stessa e soprattutto quel barlume di umanità che cresce dentro di lei.
Nel corso della saga gli zombie diventeranno via via più umani, più intelligenti, più malleabili ed educabili, capaci di organizzarsi, di provare emozioni e reale tenerezza, di imparare a usare gli oggetti che utilizzavano in vita (armi comprese), di vendicare amici, di apprezzare la musica, di non lasciarsi più distrarre dai fuochi artificiali; e nel frattempo gli umani saranno sempre più bestiali, sempre più soli, sempre più disorganizzati, sempre più arroganti, sempre più sconfitti. Dalla fuga in cantina della Notte, si passa agli sciacalli del finale di Zombi dove Romero porta il pubblico a rendersi conto come l’umanità possa essere ben peggiore del mostro e per la prima volta a parteggiare sinceramente per gli zombie, per poi passare ai sadici metodi dittatoriali che vigeranno nel campo base del Giorno e all’attacco finale ai pescecani corrotti e assassini della finanza arroccati nella cittadella della Terra. La saga romeriana, così lontana dalle derive di spettacolarizzazione che prenderanno poi le “sue” creature nel corso degli anni fino al completo equivoco messo ancora in scena in The Walking Dead fra morsi letali e intrecci da soap opera, ha fatto avanzare gli zombi nell’attacco delle classi sociali fino a far piangere – o meglio trasformare – anche i più ricchi e protetti, portando avanti un’allegoria che nel corso di quarant’anni ha cambiato le tematiche di riferimento – dalla Guerra Fredda al consumismo, dall’illegittimità della guerra in Vietnam ai traumi di chi è stato costretto a combatterla, dalla sconcertante diffusione delle armi ai bombardamenti per il petrolio, dai soprusi dell’esercito alla crisi globale della finanza dopo l’attacco alle Twin Towers – mantenendo però sempre salde le redini dell’allegoria anticapitalista, puntando sempre il dito e dirigendo le proprie invettive metaforiche contro quel ventre molle e multiforme chiamato economia. In ogni film della saga si può vedere uno specchio del mondo capitalista-consumista e delle sue derive, come se in ogni morso di zombie ci fosse una pagina di Storia, in ogni trasformazione una piccola sconfitta, in ogni singolo fotogramma una ricerca ossessiva di umanità e uguaglianza. Uno zombie per dire no alle armi, uno zombie per dire no alle guerre, uno zombie per denunciare eserciti e forze dell’ordine, uno zombie per denunciare banche e corruzioni, uno zombie per affermare l’indipendenza delle arti. Perché “l’unico che potrebbe mancare il bersaglio con questo (fucile), è quel coglione che può permetterselo”, e quando nel centro commerciale arrivano, aprendolo di nuovo all’invasione dei morti viventi, gli uomini-sciacalli che incominciano a rubare e distruggere tutto solo per il gusto di farlo, tutti noi speriamo che arrivi prima possibile un qualche non-morto a mangiarseli con gusto. “Quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno”: sempre meno uomini, sempre più morti a fare un passo dopo l’altro. Ma a creare l’inferno sulla terra, in modo che si sentissero a proprio agio, ci abbiamo pensato tutti noi.
Marco Romagna