14 Novembre 2016 -

THE TRIAL GARDEN (2016)
di Dania Reymond

Alberi, una donna che piange. Così si apre in medias res The Trial Garden, con la tragica e lacrimevole fine di un colloquio in arabo per un casting, la prima parte del film. La donna descrive, mentre una musica dolce ne avvolge le immagini, la natura araba più verde e più bella, ma la musica si interrompe perché il regista parla all’attrice, le dice di guardare in macchina. Il cinema destruttura la natura e gli esseri umani. Il che è un potere che il cinema non ha in maniera effettiva, perché il cinema (al massimo) fa parte della natura, è un’arte che (come ogni arte) nasce dal mischiarsi degli elementi fisici in un qualcosa che poi, in un modo o nell’altro, diventa prodotto artistico. Le persone crollano per terra, rassegnate, sembra di stare in una leggenda, in una narrazione anti-narrativa godardiana fatta a metà di opinioni e a metà di (ir)realtà poetiche in cui attore/personaggio/narratore interagiscono con il mondo attorno all’inquadratura e con il regista. Quello che manca è la sensazione di un fuori campo. Una ragazza nel casting dice “nei film, tutto è possibile”. E allora cos’è possibile in The Trial Garden, mediometraggio di co-produzione franco-algerina scritto e diretto dalla regista Dania Reymond presentato al MedFilm Festival di Roma? Vediamo innanzitutto gli attori, e qui viene da pensare che questo “tutto è possibile” sia riferito a loro: loro sono possibili, gli esseri umani sono possibili, esistono, recitano, vivono. Nella natura, nell’inquadratura. Uno dice che gli unici ruoli che gli hanno offerto all’estero erano ruoli come gangster o come terrorista. Rimane il dubbio su cosa davvero esiste. Queste immagini, di sicuro. Il regista, algerino, chiede agli attori se possono sopportare due mesi prima che cominci il film. Tutti sono in crisi. Nessuno sa se riuscirà a sopravvivere. Sembra possibile che il cinema, dunque, possa rovinare (o migliorare) e rimandare (o scandire) le vite delle persone. Tutti se ne vanno. Continuano le prove, filmate bene come se fosse un film narrativo, come se stessimo assistendo già alla messa in atto del film. Il regista ha paura che il film diventi “halal”, “lecito” in arabo.

Il futuro dei giovani, che loro chiamano “destino” o “amore” (nei dialoghi del film – con il regista che entra in campo per spiegare loro come fare): questo futuro è un qualcosa che è possibile, nel cinema? Si vedono gli alberi, gli esseri umani. Risulta difficile capire cos’è reale e cosa no, cos’è possibile e cosa no. Ma è un gioco o un’arguta operazione intellettuale? O anche: è Romeo e Giulietta di Massimo Coppola o Correspondencias di Rita Azevedo Gomes? Si parla in francese, in arabo classico, c’è uno scambio di lingue e di culture, tutto per il ben facimento di un film che non si capisce se esiste davvero o no. Fino al punto in cui non si capisce se un attore che impazzisce e decide di morire durante le prove lo fa per interpretare un personaggio o per spiegare uno sconforto sociale, per rappresentarsi così. Sono impressioni, suggestioni, metafore: cinema. La storia sembra cominciare (con un piglio volontariamente didascalico e retorico) dopo più di metà film, e qui la domanda che viene spontanea è: ma sta cominciando davvero la storia, sono finite le prove? E se comincia davvero la storia, il nostro cervello ci dice che è cominciato il film. Ma il film è cominciato da 22 minuti, e la storia forse è cominciata adesso, ed ora che c’è la finzione il film è reale. Ma tanto, è un’illusione. La narrazione continua e nel frattempo una ripresa di dei ragazzi al porto, che interagiscono con la macchina da presa: “non filmateci, ci state mancando di rispetto, ah no siete artisti, sono un artista anch’io, vi faccio sentire il mio rap”. Esce fuori una rappresentazione di una realtà irreale, un paradosso etereo tra la storia d’amore e il racconto documentaristico. L’oceano, le oasi, le petroliere, il deserto. La seconda parte del film è sulle effettive riprese, o meglio sull’interruzione delle riprese, e sul doverlo annunciare al cast: il film non esiste più, la loro realtà (quella del film e del dover essere pagati per la partecipazione in esso) non esiste più, il loro futuro non esiste più. Però esiste questo film, una specie di making-of artistico che apparentemente è una messinscena di come sono andate le cose – ma forse è la realtà, lo potremo mai sapere? Cosa ne traspare? Umanità, capacità di creare un manifesto artistico (semplice, umile, multiforme, metafisico) dal nulla. I soldi non ci sono, ma le idee sì, ce la si fa, si crea, più forti delle tensioni internazionali, più forti della fame e della sete, più forti dell’odio. O forse no, chissà.

La narrazione (mitologica, quasi parodistica) finisce, i volti rimangono: resta la noia, restano le riprese già fatte. Si parla di persone che invadono la narrazione, che invadono la storia, anche se la terra, il terreno del Sahara rimane: e questo dialogo all’interno della storia sembra come esemplificare la realtà dell’altra Storia, quella con la S maiuscola ma soprattutto quella del film, che ha smesso di esistere perché qualcuno ne ha invaso i territori, hanno smesso di esserci i soldi, ma sono rimasti i volti degli esseri umani. Gli attori, e altri. Una carrellata di volti. Continua la musica, continua la narrazione. Dissolvenza in nero. Mondo verde. Dissolvenza in nero. Tutto è bello e pulito, irreale, marmorea visione naturalistica. Si sta come in un film di Bressane prima che arrivino gli esseri umani a involgarire e a invigorire gli spazi vuoti. Si sta come in un incubo godardiano, come in un’incomprensione infinita. Ma nonostante l’assenza di risposta alle domande su cosa il film sia, si rimane affascinati da questa messinscena/non-messinscena delirante, da questa politica/non-politica, da questo mondo/non-mondo. Si rimane affascinati non solo perché non si capisce bene che cosa sia, ma anche perché sono belle immagini, bei mondi, belle visioni. E, se “bello” è una parola poco consona, diciamo perlomeno “interessante”, “sincero”, “vero”, e, soprattutto, “umano” senza essere troppo pretenziosamente antropocentrico. Ci si dispiace quasi che il film duri meno di un’ora, e che non ci si possa perdere un minimo di più in questo gioco moderno e fuori dalla realtà. Ma, in ogni caso, l’impressione è ben più che positiva.

Nicola Settis

“Le jardin d'essai” (2016)
42 min | Short, Drama | Algeria
Regista Dania Reymond
Sceneggiatori Dania Reymond
Attori principali Sonia Amori, Samir El Hakim, Yassine Hadj-Henni, Abdelkader Hamadaine
IMDb Rating N/A

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