9 Novembre 2016 -

Donald Trump e la crisi
ovvero la vittoria delle immagini e del delirio

Quello che segue è una specie di flusso di coscienza scaturito in maniera abbastanza scomposta da una nottata passata a seguire in diretta la Election Night americana. Nelle mie parole non dovreste cercare significati o opinioni a livello politico, perché non penso di essere in grado di esprimere un’opinione sufficientemente concisa a riguardo. Al massimo, spero di poter dare qualche spunto di riflessione su qualcosa che è esterno all’evento in sé, e più vicino ad una comprensione di cosa o chi è Donald Trump, dal punto di vista di un’ottica assolutamente esterna.

Sono chiuso in camera mia a Pisa, sono le 15:37 del 9 novembre 2016, sto ascoltando Sunbather dei Deafheaven mentre fuori piove come se non ci fosse un domani. In casa c’è un blackout, e Donald Trump ha appena vinto le Presidenziali americane. Sono queste le condizioni in cui viene in mente una parola, che uso e abuso come la usano e la abusano i titolisti delle principali testate giornalistiche, gli intellettuali, i comici e i politici (quattro categorie umane che spesso sembrano essere la stessa), ed è la parola “crisi”. La crisi di cui ci occupiamo noi è la crisi dell’immagine, non certo quella economica o ambientale o addirittura quella morale, ovvero (riassumendo) la paura che le immagini del cinema che amiamo e che supportiamo verranno dimenticate nel tempo, scompariranno attraverso l’irrecuperabilità del digitale, temendo l’evento di Carrington di cui ci ha parlato Herzog quest’anno con Lo and Behold. Ma oggi è il giorno di occuparci di un’altra crisi, una crisi a cui non voglio dare un aggettivo per classificarla e sminuirla, quindi la chiamerò “crisi x”, una crisi che è di tutti e non è di nessuno. Con la vittoria di Donald Trump ho avuto la conferma di una sorta di lento e costante fenomeno (che è il fulcro della crisi x), un fenomeno di osmosi tra due piani di realtà, ovvero la realtà effettiva e lo spazio digitale, esterno, di internet. Trump era il vincitore impensabile, il Berlusconi statunitense, il proiettile folle attraverso la politica americana: odiato dalla maggior parte dei repubblicani, che non si sentono rappresentati, respinto con ancor più violenza da tutti i democratici. Chi è che ha votato Trump? La risposta meravigliosamente tragica è che l’ha votato il popolo. Trump è stato votato dagli ignoranti ed è stato votato dagli anarchici, è stato votato dagli indecisi ed è stato votato da chi non distingue più la realtà dall’ironia e dall’umorismo. È questa l’osmosi: la vittoria di Trump, probabilmente, dovrebbe far parte di un mondo di ironia, scherzi, battute online e caos vari, ma invece si è verificata. E ripensandoci, col senno di poi, a questi due annetti scarsi in cui sentivamo parlare di lui e di ogni cosa che ha detto, ogni espressione che ha fatto, non può che venire in mente che questo mondo altro e irreale dovrebbe includere non solo lo scenario di Trump nello studio ovale ma anche lo scenario di Trump che pensa minimamente allo studio ovale. È tutto paradossale.

Trump non è un essere umano, è una maschera tragica del teatro greco, un personaggio shakespeariano a metà tra Depardieu in Welcome to New York e Dan Bilzerian, ed è il presidente di quel paese che secondo Wenders ci colonizzava il cervello già da prima del 1976. La crisi x è che questa figura è il presidente degli Stati Uniti. Continua a piovere, mentre le chitarre di Sunbather lentamente sfumano e passo a Musick to play in the dark dei Coil, la luce è tornata ma la musica per il buio continua. Trump non è un essere umano, è una meme, è un simbolo di un qualcosa che non esiste. Oggi, insomma, l’umanità e la vita hanno perso, ma ha vinto l’arte, l’installazione, ha vinto l’astratto. Trump ha vinto grazie all’FBI, Trump ha vinto grazie agli indecisi, Trump ha vinto grazie agli stupidi. Trump ha vinto perché era già un simbolo, ecco perché. Il suo volto era già stato paragonato, tanto da Buzzfeed quanto dai filosofi politici della domenica, a quello di Hitler, a quello degli Zar, alla propaganda mussoliniana. Hillary Clinton non è un simbolo di niente se non di un finto progressismo da estabilishment, e un avvicinamento ipocrita e poco credibile dell’estabilishment ai giovani. Trump invece è anti-estabilishment, è anti-politico, è un vero e proprio figlio di quella necessità di vicinanza al popolo che ha portato anche alla nascita del Movimento 5 Stelle; ma è un anti-estabilishment completamente farlocco, perché Trump è il volto del capitalismo. E questo lo sanno tutti, lo sanno tutti quello che l’hanno votato. Si naviga nel nostro bel vuoto. La crisi x sta anche in questo controsenso, e nel fatto che, nonostante questo controsenso, Trump sia ugualmente presidente.

Insomma, per quanto sia orrendo da dire così, non ci sono più le rivoluzioni popolari di una volta. Ci sono solo maschere e colori, immagini e irrazionalità, controversie e vergogne. Ci sono le persone che si riascoltano i discorsi di Trump per trovare gli errori (e notare, annotare qualcosa che ormai è irreversibilmente andato e perduto) e ci sono persone che li riascoltano per pendere dalle labbra del presidente arancione. Per rendere l’America grande non c’è bisogno di un leader ma c’è bisogno di un popolo unito, e quello, negli Stati Uniti, non ci sarà mai davvero. Le reazioni eccessive internazionali da parte del popolo (i post su facebook, il putiferio), tutti che cercano di fare i professorini – me compreso, che cerco un senso in qualcosa che non ha alcun senso senza conoscerne le radici o il significato. Oggi ha vinto il nonsenso, oggi ha vinto il delirio, oggi ha vinto l’immagine. Riesco già a vedere la locandina di un quinto capitolo della serie dei film sul potere di Sokurov, dedicato a Trump, o, se vogliamo essere più pessimisti e realistici, un film di Oliver Stone. Avevano già perso tutti, quando gli americani si sono resi conto che a queste elezioni non si votava per supportare qualcuno ma si votava per andare contro a qualcuno. Contro all’estabilishment o contro al popolo, contro agli americani o contro agli immigrati. Non per, contro. La negatività che vince, la pioggia delle rane.

Continua il temporale. La luce diventa astratta. Tutto attorno a me è giallo, mia madre che passa tra un corridoio e l’altro è rossa, la luce fuori dalle finestre è blu. Il mondo è assurdo. Cominciano a spuntare immagini su internet che auspicano ad una rivolta in cui Sanders funge da Lenin, oppure altri temono l’apocalisse, quella vera e/o quella nucleare. Continuano ad avvolgermi i Coil. Continuano i commenti sulla morte della democrazia, continua qualcosa che è appena iniziato. C’è chi cita Zizek, c’è chi mette foto senza contesto del nuovo presidente, c’è chi fa ridere e ride, c’è chi fa disperare e si dispera. Tutta un’enorme parodia del mondo meraviglioso in cui viviamo – che meraviglioso lo è per davvero. No, non ci sono più le rivoluzioni popolari di una volta.

Nicola Settis

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(Bernie Sanders con il rapper Killer Mike)

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(Takeshi Kitano travestito da Donald Trump in uno show TV giapponese)

edit: ieri è morto Raoul Coutard, tra i più grandi direttori della fotografia di sempre, collaboratore assiduo di Godard e di Truffaut — muore l’immagine di un mondo e sale sul piedistallo l’immagine di un altro. Le coincidenze mortifere.

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