A family affair inizia come una montagna da scalare. Una montagna di bugie talmente ben raccontate da essere diventate una verità alternativa, il fortino autoassolutorio nel quale vive rinchiusa con i suoi 95 anni Marianne Hertz, “perfetta modella e perfetta madre” secondo gli articoli a lei dedicati negli anni Cinquanta, mentre i suoi figli erano rinchiusi in un orfanotrofio per non intralciare i suoi sogni di gloria nell’avanzare della carriera tanto da rimanere traumatizzati, offesi, distrutti. Adesso Marianne è una Norma Desmond sul suo Viale del tramonto, ex mangiatrice di uomini che mai ha sopportato il proprio sfiorire ed è sfuggita ai suoi obblighi e alle sue colpe fino all’altra parte del mondo, ma soprattutto, in questo (auto)ritratto di una famiglia triste, Marianne è la nonna paterna di cui il regista Tom Fassaert non aveva per molti anni nemmeno conosciuto l’esistenza, e che anche al momento delle riprese si presenta ancora, al di là dei racconti negativi e degli avvertimenti del padre riguardo la sua natura viscida, come una sostanziale sconosciuta. È stata proprio lei a chiamare il nipote appena trentenne per farsi riaccompagnare per un’ultima volta a casa in Olanda, dalla propria famiglia, e il regista ha accettato sperando di poter ricostruire, se non i rapporti, quantomeno la verità su una nonna vista e odiata solo in un passato lontano, in cui come una burattinaia tornata alla carica aveva trascinato tutta la famiglia di Tom fino in Sudafrica per poi sparire, tradendo ancora una volta il figlio Robert, padre del regista, rimasto disoccupato in un altro continente e ben presto destinato anche e soprattutto a causa delle difficoltà sudafricane alla fine del matrimonio con la madre.
L’obiettivo primario di A family affair, quindi, è quello di smettere di fingere, di creare un’occasione per togliersi le maschere che hanno accompagnato le vite di tre generazioni, di svelare i troppi non detti, facendo emergere anche i dolori e i sensi di colpa senza paura. Ma Marianne, sensi di colpa, pare non provarne, talmente radicata nella sua maschera da credere ormai ciecamente alla propria vita di menzogne e scaricabarili. Per tutta la sua vita è stata la manovratrice di una famiglia disfunzionale, la causa dei drammi e dei traumi, colei che tutto ha rovinato e distrutto, e che ancora adesso nega le proprie colpe, rifiutandosi di vedere quali siano state le conseguenze delle sue azioni. René, il suo figlio maggiore e zio del regista, è rimasto offeso dall’abbandono e dai traumi infantili fino alla follia, e adesso è un accumulatore seriale con lo sguardo vacuo e un grave ritardo mentale; Robert invece ha condotto una vita tutto sommato normale ma ancora piange quando il figlio gli chiede di raccontare l’infanzia in orfanotrofio e quel momento in cui, dal nulla, la madre decise di ripresentarsi per poi andare di nuovo via; la sorella dei due invece, pur di non rivedere la madre, non ha accettato di partecipare al documentario, preferendo provare a ignorarla, dimenticarsela, come del resto fece senza rimorsi la stessa Marianne quando partì per il Sudafrica e per il suo piccolo mondo fittizio pur di non dover sentire lamentele e giudizi dei figli ormai cresciuti.
Ma da A family affair emergono anche le fragilità di Marianne, madre fallita e a tratti mostruosa, ma pur sempre una donna triste e sola, che dissimula da sempre il suo strazio in una vita di successo ormai vicina al capolinea. Man mano che si dirada la coltre di mistero sapientemente costruita in montaggio, con le informazioni date poco alla volta, il documentario si immergerà progressivamente nel cuore, trovando il proprio apice al momento dell’ictus della donna, ormai ridotta in sedia a rotelle e incapace di rispondere a Robert che le parla al telefono, mentre Tom le tiene con amore la cornetta vicino all’orecchio cercando invano di stimolarla. È un film che fa male, A family affair, ricostruzione di anni di ipocrisie e freddezze che però, nel momento del bisogno, non potrà che lasciare spazio ai sentimenti più devastati, al dolore, a quell’affetto negato che torna nella tristezza ancestrale di un addio. Era stato proprio il padre di Tom a dare alla nonna l’idea di un’autobiografia, ma ben presto Marianne liquiderà ancora il figlio, preferendo affidarsi per il suo My double life a un’estranea, una ghost writer con la quale poter continuare a vivere nel proprio castello incantato di bugie e sorrisi di facciata. Tom sente un intimo bisogno di conoscere sua nonna, di conoscerla davvero, di persona, senza la tara dei racconti e del passato, e per farlo gira continuamente, raccoglie materiale, sempre con la macchina da presa davanti al viso per immortalare ogni istante con lei, ogni parola, ogni dialogo. Ma “Io non voglio essere tua nonna, è così poco romantico, è troppo reale”. Il viaggio di ritorno verso l’Olanda, verso l’ultimo saluto a una famiglia che non avrebbe mai più voluto vederla, è per Marianne una crociera fatta di sole in coperta e di vecchi album di foto, e pure uno dei suoi rari cedimenti: ammette il fallimento come madre, ma ancora sostiene che i suoi guadagni servissero a tutta la famiglia, e che il fine ultimo giustificasse qualsiasi mezzo, compreso un abbandono di cui mai si è sentita davvero colpevole.
L’ossessione per il filmarsi che ha portato Tom Fassaert alla carriera di documentarista viene, riportando alla mente la fortuna sfacciata che permise nel 2003 a Andrew Jarecki di raccontare attraverso un archivio pressoché sterminato Una storia americana – Capturing the Friedmans, dalla sua famiglia: immortalare gli istanti è una passione che si tramanda da generazioni, con ore e ore in archivio di sorrisi, dialoghi in bagno – la stanza in cui notoriamente si è più sinceri – e momenti di normalità vera e presunta che si inseguono in una sorta di storia del mezzo cinematografico. Dai primi 35mm muti girati dal bisnonno che restituiscono la nonna bambina e ragazza ai super8 del padre che presentano il neonato Tom si passa, con l’avanzare della tecnologia sempre più leggera, ai 16mm, poi al beta, poi al vhs, proseguendo con le handycam video8 e miniDv per arrivare fino al moderno HD prima della “televisiva” Sony e infine della Canon a pasta cinematografica che il regista ancora oggi utilizza per girare. I cambi di formato nel footage che accompagna lo stile giornalistico sugli ultimi mesi di Marianne sono un orologio visivo che guarda il tempo che passa, gli anni che avanzano, le vite che, in qualche modo, procedono. A family affair, andando a rivangare nel passato tramite ricordi e filmati alla ricerca di una verità impossibile, parte come un videodiario d’inchiesta, ma lentamente, nonostante le incomprensioni, i litigi e le orecchie da mercante, Tom troverà una nonna, con cui il rapporto sarà fino alla fine problematico, ma progressivamente sempre più stretto, intimo, familiare.
Nel ripercorrere la vita di nonna Marianne, A family affair mostra un’amarezza atavica che si propaga per le generazioni, continuando a mietere vittime. Zio René, nel disordine delle sue scatole e dei suoi libri, tira in ballo le leggi di natura per descrivere come sua madre non sia stata una madre, ma anche Marianne ha pagato le sue colpe: è rimasta sola, nemesi familiare odiata da tutti, e solo in Tom riesce a trovare ancora un aggancio, un interlocutore, un minimo di affetto cristallizzato in un abbraccio – Love is in the air. E proprio con Tom, una volta tornata di nuovo in Sudafrica dopo essersi finalmente resa conto, vedendolo dopo anni, di come lo squilibrio mentale causato in René fosse “molto peggio di quanto pensassi”, Marianne litigherà un’ultima volta, tirando ancora una volta fuori i vecchi artigli e la vecchia arroganza nell’ostinato rifiuto di accettare come foto di famiglia uno scatto in cui è presente anche la fidanzata di Tom. È una scenata di gelosia in piena regola, drammatico grido impotente di fronte all’avanzare dell’età, è l’aggrapparsi fuori tempo massimo a quel fascino esercitato in gioventù, a quella capacità di sedurre che, dopo averla accompagnata per tutta la sua vita, è svanita con il passare degli anni. Ma Marianne ancora non si arrende e contrattacca, ritenendo il nipote, in quanto uomo, grossomodo un proprio diritto. A modo suo, lo ama profondamente, e Tom sente questo affetto e lo contraccambia, come nipote e come accorato filmmaker. Quelli di Marianne Hertz sono gli ultimi vagiti, gli ultimi fuochi, l’ultima incomprensione: poi è ancora la sedia a rotelle, quella telefonata impossibile con Robert, e poi la nuda terra, una lapide, un ultimo lacrimato saluto. Presentato al DocLisboa 2016 dopo, fra i non pochi passaggi festivalieri, aver vinto l’ultimo Biografilm di Bologna, A family affair è un film profondamente toccante con cui l’intera famiglia del regista ha preso reale coscienza di sé, ha imparato a conoscersi, ha imparato a perdonarsi, ha imparato ad amarsi nonostante tutto. Quello firmato da Tom Fassaert è l’intimo autoritratto di una famiglia inquieta, biografia di una “perfetta indossatrice” e pessima madre, donna al contempo mostruosa e fragile, emblema di una tristezza che forse non troverà mai una reale spiegazione. Come un mare da solcare, che si perde apparentemente infinito nello sguardo verso l’orizzonte, e nel quale naufragare è un diritto e un dovere per chiunque ami il cinema, l’umanità, la vita.
Marco Romagna