A volte, nella vita, quello che conta è alzare il volume dell’autoradio o dell’amplificatore, suonare, cantare, muovere la testa a tempo. Con il blues sparisce l’età, sparisce il dolore, sparisce il male, c’è solo il ritmo di chi suona, il suo cuore, la sua anima: estro, ispirazione e talento. Presentato al DocLisboa2016, I am the blues, film documentario a firma del filmmaker canadese Daniel Cross, da sempre vicino alle minoranze e attivista nella giustizia sociale, è un continuo viaggio su e giù per il Mississippi, fra le maggiori leggende del blues e la profonda identità culturale che la musica sempre porta in dote, e che soprattutto ha portato alla comunità afroamericana nel corso degli anni dell’emancipazione. Il blues è uno spirito guida, è un grido di libertà, è un rincorrersi suadente di emozioni, note, arpeggi, ghirigori vocali e caldi soffi nell’armonica. Rimbalzando fra i confini con il Tennessee, l’Arkansas e la Louisiana, il film di Cross incontra e fa duettare ancora bluesmen del calibro di Lil Sinegan, Carol Fran, Lazy Lester, Little Freddie King, Henry Gray, Barbara Lynn, Bobby Rush e Jimmy Duck Holmes, proprietario del leggendario Blue Front Cafe. I am the blues è un viaggio lungo il Mississippi Blues Trail, fra i luoghi storici, uomini e donne che questa storia l’hanno scritta, chini sulle proprie Fender e a piena voce nei microfoni. Il blues, cifra culturale e grido di libertà, rimane oltre i brutti tempi, oltre gli abusi di polizia, oltre le peripezie della vita. È passione, è esibirsi per poco o anche solo un hamburger e per stare insieme, è un modo di vivere, simbolo di quell’America nera che, dopo schiavitù, privazioni, razzismo ed emarginazione, ora gestisce città e declina nella musica il proprio grido di libertà. È (anche) grazie al blues che la comunità afroamericana si è emancipata, ha acquisito dignità e diritti, ha iniziato davvero a sentirsi parte di un qualcosa, gente e non più “negri”. È il canto di una cultura, è una lotta vinta e ancora celebrata, è la dignità di un Popolo, il suo simbolo, il suo orgoglio. Grossomodo quello che avrebbe voluto fare con il rap Spike Lee con l’ultimo, vergognoso, Chi-Raq, ma dove I am the blues va a segno nell’alternanza di musiche, parole e persone che portano avanti un tempo e una tradizione, il noto razzismo di ritorno del cineasta di Atlanta aveva trasformato la cultura rap in macchietta senza cuore, scatenando diverse lamentele anche da parte di quella stessa comunità afroamericana che avrebbe voluto/dovuto sostenere. Ma questa, per fortuna, è un’altra storia.
I am the blues è improvvisazione e appartenenza fra uomini e musica, fra Fender e Epiphone, fra acustiche e Stratocaster, fra armoniche e tastiere. È ritmo, è arpeggio, è memoria e orgoglio. È una chitarra nel cuore, perché nel blues non conta tanto la canzone, quanto la storia che ci sta dietro. Il blues è la fame, è la famiglia persa, è l’amore, è il dolore, ma soprattutto è la gioia di aver superato tutto questo, di guardare avanti, di declinare in musica le proprie sensazioni. “Non posso rifarlo, è passato qualche secondo e ora mi sento diverso, sento un’altra emozione”. E mentre le cameriere dell’hotel devono, come se una mano le avesse afferrate, fermarsi ad ascoltare i duetti che avvengono nei saloni in cui stanno i bluesmen, il film lascia esplodere tutta l’anima black dell’America, fra Chevrolet e GMC, fra strumenti a corda e vecchie radio, fino alle puntine che vibrano sui solchi dei vecchi vinili, la chitarra come una Bibbia: “Keep on singin’, boy!”. E proprio come una Bibbia tratta le sue Ibanez anche il reverendo John Wilkins, noto per le sue messe blues. La “musica del diavolo” diventa musica sacra, celeste, come l’elaborazione più pura e interiore del gospel. Del resto, il blues è convivialità, è stare insieme, è condividere, mangiare e cantare, fra un mi cantino che salta e un’armonica che resta come sospesa. Ma il blues è anche, ed è questo il vero punto del documentario, un qualcosa che sta rischiando di sparire. Quasi nessuno fa più “black blues”, nemmeno i neri, e a “tenere lo campo” sono rimasti solo i grandi maestri, eternamente giovani nello spirito ma ormai tutti intorno, quando non parecchio oltre, il traguardo dell’ottantina. Hanno alle spalle oltre sessant’anni di carriera, centinaia di dischi registrati, e hanno da anni perso il conto delle migliaia di corde cambiate. Vanno avanti, perché si divertono ancora, perché ci credono ancora, perché si emozionano ancora, ma ogni tanto si ritrovano a piangere qualcuno del gruppo, e non vedono all’orizzonte nessuno che ne sappia realmente seguire le orme. Vanno avanti, perché “Il blues potrà anche essere dimenticato, ma finché l’ultimo vecchio uomo lo canterà, tutti gli altri potranno solo chiudere gli occhi e ascoltarlo”. Perché i veri musicisti non si ritirano mai, solo la morte può decidere quando non andranno più in scena. Quello del Mississippi Blues Trail è un mondo in crisi, che sta sparendo, senza soldi e senza nuove leve che ne portino avanti l’anima. È un mondo che rifiuta il mercato discografico e che si basa solo sul cuore e sul proprio sconfinato orgoglio, come un fuoco che ancora arde, bruciando quei campi sui ci si è fondata una civiltà sonora. Un mondo di jam session, dita che corrono veloci sulle corde o sui tasti, fra precisi tocchi di batteria e vibrati delle ugole. I am the blues è un viaggio, è un omaggio, è un grido, è un soffio, è un Amico fragile, alleato contro la solitudine, le incomprensioni e i dolori: “Pensavo è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra”.
Marco Romagna