Riferimenti
L’esordio di Vallo Toomla è una coproduzione estone/lettone/lituana ma a dirla tutta più che un prodotto a cavallo tra il Baltico e l’Europa orientale sembra, sin dalle primissime inquadrature, un film nordico. E non è solo per le tinte al contempo accese e pastello o per la fredda eleganza della composizione, che pure rimangono forse le cifre principali del film preso di per sé. Il fatto è che più si procede nella visione più diventa difficile prendere questo film di per sé, considerata la disinvoltura con cui il regista estone pesca a piene mani dal cinema nordico-scandinavo degli ultimi anni (e non solo, a dire il vero), senza lasciarsi sfuggire occasione per richiamare, alludere e citare.
Certo, nessun film è mai completamente scevro di riferimenti, ma quello che rende l’analisi delle citazioni più interessante del solito in questo caso è che il gioco dei rimandi è quasi sempre decisamente più scoperto e significativo nelle opere prime, più che altro perché chi esordisce alla regia di un lungometraggio, a meno che non venga da qualche altro mestiere del cinema, fino a quel momento ha quasi certamente passato più tempo a vedere film che a farne – e ogni volta che verbalizzo questa idea non riesco a evitare di pensare a quello che per me rimane l’esempio più sfacciato di questa tendenza derivativa, almeno ad alti livelli, e cioè quel primo film di Bertolucci che è di fatto un film di Godard. Non bastasse, qui a San Sebastián dedicano alle opere prime un’intera sezione (Nuevos Directoros), che peraltro in questo mio primo giorno è sembrata essere la più viva e interessante, e allora mi sono detto che forse valeva la pena passare in rassegna l’esordio di Toomla rendendo omaggio alla sua capacità di ballare a cavallo tra generi e riferimenti senza mai perdere di vista il racconto.
Crisi di coppia
Già l’apertura è un classico, una coppia (Anna e Juhan) si fa prestare da alcuni amici una casa di villeggiatura fuori dal mondo per cercare di risolvere un momento di crisi. In questo caso specifico la crisi sembra più che altro allusa, perché almeno all’inizio i due non appaiono troppo distanti. È vero, non si toccano mai, ma dormono all’unisono e in generale sembrano essere piuttosto in accordo nel negare alla realtà esterna (verrebbe da dire alla realtà in generale) qualunque possibilità d’ingresso allo spazio chiuso e autosufficiente della loro relazione.
Il primo atto scivola via lentamente, senza particolari sussulti, e si sarebbe tentati di dirlo concluso quando alla coppia protagonista se ne aggiunge un’altra (Erik e Triin), alterando uno schema che sembrava poter arrivare in fondo al film. In effetti la storia vera e propria, il viaggio di formazione, inizia con questo passaggio, ma il primo atto a questo punto è di fatto già finito da qualche minuto. Poco prima che la seconda coppia entri in scena, infatti, accade che mentre Anna e Juhan stanno facendo un bagno in mare, due sconosciuti a riva si mettono a frugare nella loro roba. Invece di intervenire, Juhan intima alla moglie di rimanere in acqua e non guardare, come se non si fossero accorti di nulla, fino a che i due si saranno allontanati, cosa che puntualmente fanno qualche attimo dopo. È questo il primo rimando che Toomla lascia sullo schermo. Citando, intenzionalmente o no (ma poco importa, se non è citazione effettiva significa solo che certe idee sono nell’aria, il che comunque ci dice parecchio sulla natura collettiva degli schemi narrativi che utilizziamo), un film tra i più riusciti della scorsa stagione svedese, Turist, il regista estone rompe l’equilibrio che aveva diligentemente costruito in scena fino a quel momento. Il maschio si macchia di un atto di codardia che frantuma l’idillio di coppia, privando quest’ultima dei suoi presupposti a livello sociale. Esattamente come nel film di Östlund – dove il protagonista scappa davanti a una valanga di neve che sta per travolgere sua moglie con i figli – nel momento in cui l’uomo non è più uomo, anche la coppia non è più coppia e diventa a quel punto necessario ridiscutere non solo i ruoli, ma l’intera rappresentazione.
Cosa pensi di loro?
Il secondo atto è una lunga seduta di autoanalisi per procura. Anna e Juhan invitano Erik e Triin, una coppia di campeggiatori in difficoltà, a restare nella casa dove sono a loro volta ospiti. A dire il vero fa tutto Anna, che per l’intera parte centrale del racconto si prende la briga di riscrivere le regole del rapporto di coppia sottolineando a ogni passaggio le inadeguatezze del marito. Per farla breve, le due coppie si scoprono molto simili (problemi con il lavoro, rapporto con la possibilità di avere dei figli, rispettivi approcci all’esistenza, etc), con i nostri protagonisti che si fanno passare per gli amici ricchi da cui hanno preso la casa in prestito, mentre impongono ai nuovi arrivati di fargli da controfigure in scena, e interrogandosi sulle personalità e la relazione degli ospiti, finiscono più o meno consapevolmente ad analizzare se stessi.
Anche questo schema narrativo non è del tutto nuovo nel panorama nordico recente. Non è la prima volta che ci troviamo davanti a una coppia in crisi che crea uno spazio ludico all’interno della propria relazione, manomettendo il patto che sta alla base della vita di coppia per riscriverne totalmente le regole. I primi due esempi che mi vengono in mente sono Det enda rationella di Jörgen Bergmark del 2009 e il recentissimo – e nettamente meno riuscito – Kollectivet di Thomas Vinterberg, ma di sicuro ce ne sono parecchi altri. Tratti essenziali richiesti per far parte del club: 1) ambienti chiusi e isolati, all’interno dei quali delimitare lo spazio in cui le nuove regole vengono stabilite e applicate, e 2) inedite intersezioni di coppia, che hanno sempre in misura maggiore o minore a che fare con la necessità di superare il concetto di proprietà privata. E proprio a proposito di quest’ultima nota, l’impressione è che questi film non cerchino quasi mai di parlare dell’individuo all’interno della coppia e utilizzino invece quest’ultima come laboratorio all’interno del quale sperimentare nuove forme di patto sociale che possano in seguito essere adattate a contesti più ampi.
Funny Games
E appunto il patto sociale. Il fatto è che in Teesklejad le regole del gioco non sono condivise, una coppia le detta, le conosce e le rispetta (di nuovo, più Anna di Juhan, ma almeno per entrambi i protagonisti il patto è chiaro), mentre l’altra non sa nemmeno di esser parte di una rappresentazione. Quando il gioco viene scoperto, la violazione del mutuo accordo fiduciario che sta alla base di qualunque interazione tra esseri umani nelle cosiddette società avanzate è tale che ogni norma, sia essa civile o di messa in scena, salta: il patto è sospeso. E il film diventa un horror.
Innanzi tutto gli eventi con ordine. Triin è indotta a credere che Erik abbia avuto un rapporto sessuale con Anna e le viene chiesto se non abbia voglia anche lei di concedersi specularmente a Juhan. Quando un confronto tra i quattro chiarisce che nulla del genere è mai accaduto, la coppia di raggirati del tutto a sorpresa si arma di un paio di grossi coltelli da cucina e inizia a dare la caccia agli altri due, colpevoli di averli appunto ingannati. Questi ultimi riescono a sfuggire agli aggressori e chiudersi in una stanza dove passano la notte, per poi risvegliarsi la mattina dopo e scoprire che nessuna traccia del loro incontro con Erik e Triin è rimasta in scena.
Per tutto l’atto conclusivo il film cambia radicalmente tono grosso modo a qualunque livello. Montaggio, temperatura colore, movimenti di macchina. Ma non è solo questo. Dal turning point che chiude il secondo atto in poi, Toomla introduce in scena alcuni dettagli che rimandano lo spettatore ai due Funny Games di Michael Haneke. A dire il vero, questi indizi vengono messi a fuoco solo durante le sequenze finali, quando esplode nel film una carica violenta soltanto allusa nei primi due terzi del racconto, ma sono presenti in scena già da prima, disseminati qua e là in maniera più o meno velata lungo tutta la pellicola – per dire, il film comincia all’interno di una macchina, con una coppia che si reca in villeggiatura, e la colonna sonora che accompagna l’intero racconto è un curioso mix di musica classica e hardcore punk. Questo in un certo senso chiude il cerchio, perché ovviamente il fatto che Funny Games sia a sua volta una riflessione sulla violenza come rappresentazione, sui rapporti umani come rappresentazione, sul cinema come rappresentazione della rappresentazione e della violenza e dei rapporti umani non è per niente casuale. Eppure il film di Toomla inciampa proprio all’ultima curva, con il regista che rimuove dal centro della scena quello spazio di rappresentazione che lui stesso aveva fino a quel momento stratificato in maniera davvero interessante e che all’ultimissimo momento decide di annullare, convinto, forse, di aggiungere così facendo un livello in più. Qualche volta viene proprio da pensare che in fondo basterebbero solo poche note di meno.
Mario Aloi