Occorre dunque che l’errore dell’animo e queste tenebre
non siano dissolte dai raggi del sole, né dai lucidi dardi del giorno,
ma dall’aspetto e dall’intima legge della natura […]
Dunque ogni cosa visibile non perisce del tutto,
poiché una cosa dall’altra la natura ricrea,
e non lascia che alcuna ne nasca se non dalla morte di un’altraLucrezio, De Rerum Natura – Libro I
Amir Naderi, probabilmente più di qualsiasi altro autore contemporaneo, ha sempre spinto all’estremo limite i suoi personaggi attraverso la codificazione e l’esperienza delle proprie ossessioni (denaro, cinema e natura, tanto per citare e chiavi delle ultime sue tre opere). In un gioco interno/esterno in cui il primo a rischiare in modo folle e assoluto è lui stesso, li mette costantemente alla prova osservando la rete di possibilità umane e poetiche in cui riescono a sopravvivere. Una continua sfida e reiterazione in qualsiasi tempo, qualsiasi luogo, qualsiasi ambiente, e in cui qualsiasi (anti)eroe forse mai potrà essere totalmente vincitore, ma mai allo stesso provvisoriamente vinto, perché quel gioco non può svincolarsi in nessun modo dall’ipoteca sto(r)ica della propria anima; domani, oggi, ma soprattutto ieri. In un momento imprecisato del tardo medioevo una famiglia qualsiasi in piena povertà lotta per la sopravvivenza in un piccolo villaggio a duemila metri. La particolarità di questo luogo è il monte possente, austero ed immenso che nega la luce ed impedisce lo sviluppo di qualsiasi forma di vita alle sue pendici. Quella casa isolata appare il limite di un cimitero di croci di coloro che quel luogo non l’hanno abbandonato mettendo in gioco la propria stessa vita. Quando tutto il paese invita la famiglia a spostarsi più a valle, il padre non cede perché in quel fazzoletto di terra arida e stanca lotta per le proprie radici in nome di un destino che non si potrà perpetuare per sempre. Ogni sforzo pare vano, la loro esistenza pare sempre più appesa a quel filo algido dell’impossibilità. Resta solo una cosa da fare, un atto estremo e simbolico, sfidare quella montagna per rivendicare il senso dello stare lì, dell’appartenere ad uno spazio che pare il segno stesso della morte.
L’uomo e la natura dunque, in un purissimo senso di conflitto che non prevede riconciliazione alcuna, e che assume immediato lo scarto dell’astrazione metaforica per cui la lotta uomo/montagna è simbolo di una battaglia culturale e sociale contro le credenze e le maledizioni. Il film parte così in questa stagnazione greve di anime in attesa della propria traiettoria, che attraversano la loro durata limitata senza essere in grado di comprenderla. Semplici figure nello spazio chiaroscurale, plastico e profondo in cui Naderi li colloca, che meccanicisticamente adempiono al loro dovere quotidiano della sopravvivenza non ponendosi la domanda (una, mille) su possibilità altre dell’esistere. Solo questa famiglia critica la metafisica di quei costumi, propone l’alternativa quasi drammatica e sacrificale di un’evoluzione che possa fuggire all’uniformità standardizzata ed alienante, ma allo stesso tempo proprio questa critica detona quella ben più grave del villaggio che, sotto forma di invito, mal sopporta quella ricerca di identità che vuole contrapporsi al quieto vivere dell’elemento naturale che la circonda, in quei passaggi/paesaggi di tempo che solo il capo famiglia appare esser cosciente di poter superare. Nel finale la lotta dei due autori (regista/protagonista) evoca la stessa rivendicazione di uno spazio in cui agire (fare film/vivere, l’infinita epopea di Cut), e non può non presupporre la corrosione di ogni elemento, fisico e astratto, naturale ed implementato, che ostacola questa tensione primordiale di libertà. L’ultima sequenza diventa così l’apoteosi di uno spazio liberatorio di magia esorcistica e fatalità (la buca verticale nella terra di Vegas e quella orizzontale nella pietra di Monte), la sfida definitiva e (im)possibile all’elemento fisico da scardinare, nella speranza di far emergere ciò che illumina, nell’attesa disperata di essere illuminati. L’esplosione, lo sguardo e il sole, (come in Zabriskie Point) finalmente le cose appaiono come realmente sono, non più sodomizzate dall’oscurità dell’immagine. Questa messa in discussione dell’eternità di leggi naturali schiude la crasi delle dualità: qualsiasi atto fisico stilizza un gesto filmico, la nudità dell’autore/protagonista è quella dello spettatore, e ogni ferita a quella montagna diventa inferta alla realtà. Lo sguardo pietrificato di chi ogni giorno assiste alla propria (dis)umana sconfitta è finalmente libero di farsi penetrare dalla luce, anzi di farsi bagnare, affogare, sublimare da un bagliore finalmente vivo ed accecante.
Naderi è un folle che cammina sul filo tesissimo della sua stessa deriva, quella del suo cinema di passione cieca ed incondizionata tra l’Iran e gli Stati Uniti, il Giappone e ora l’Italia, appunto. E in questo film, che trasuda un approccio classico, si conferma ancora più lirico e visionario, quasi tellurico come la stessa forza con cui il suo protagonista scardina le fondamenta di quella montagna. Ancora una volta di più il cinema di Naderi respira dalla propria estenuante provvisorietà, del non aderire ad un’esistenza a priori di un’immagine per cercare disperatamente di stapparla al destino. Una ricerca che mai si preoccupa di (voler) essere perché già è, nell’atto stesso di essere filmata e quindi doppiamente passata nell’occhio come nella mano di chi crea. Una reiterazione del vedere e del vedersi, quella parola mancante che per la prima ora appare costantemente bloccata e poi non necessitata dall’ardore del gesto, dalla sua infinita umanità. Il dolore radicale di chi è filmato mostra più volte la sua specularità assoluta nei confronti di chi filma, di chi include e contempla queste anime alla propria. Monte è un atto di infinita resistenza ad un cinema che si muove sempre più nella virtualità finita delle immagini proliferanti, a un voler ricondurre l’immagine e tutto il lavoro di un soggetto a una sua particolare funzione, a una serie di opere apocalittiche idiote che vorrebbero l’annientamento di noi (e di tutti) tranne dell’opera stessa che ciò decanta. Monte è un film sublime, perché definisce corpi e anime nell’atto stesso della loro pulsione vitale più vera, perché (dis)perde tonalità e suoni fino all’esplodere di quella rivendicazione che è purissimo anatema di luci e sguardi, e soprattutto perché afferma inequivocabilmente quello che per lo stesso Naderi è l’unico dono concesso alla condizione umana, ovvero la sfida. Fino a quando lo sforzo umano tirerà ancora una volta giù la montagna, facendo esplodere la luce, il sole, il colore.
Erik Negro