Non c’è da andare molto lontano: sono gli stessi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti a chiarire nelle note di regia del loro Spira Mirabilis, coraggiosamente inserito in Concorso alla 73esima Mostra del cinema di Venezia, di aver voluto fare un film “molto poco cinematografico”, che fosse anche “fuori dalla dinamica del conflitto, fuori dal dramma nella sua accezione più classica”. Un film contemplativo ed estatico, addirittura rabdomantico nella sua ermetica chiusura rispetto alla produzione e alla decodificazione diretta del senso, attraverso il quale raccontare l’immortalità per mezzo dei quattro elementi della natura (fuoco, terra, aria, acqua, più la quinta aggiunta aristotelica dell’etere). Un documentario dalle ambizioni siderali e cosmologiche, universali e da far tremare i polsi, che però non ha spaventato la coppia di documentaristi milanesi, alle prese con tale progetto per oltre tre anni, con nel mezzo il riuscitissimo L’infinita fabbrica del Duomo. Duomo di Milano che ritroviamo in Spira Mirabilis come archetipo legato alla terra, al quale vanno ad affiancarsi i nativi d’America per quanto riguarda il fuoco e una coppia di musicisti inventori di strumenti in metallo, Felix Rohner e Sabina Schärer, per quel che concerne l’aria. La vita eterna direttamente connessa all’acqua è invece esemplificata dalla figura di Shin Kubota, uno scienziato cantante giapponese che studia la Turritopsis, una piccola medusa immortale. I punti di riferimenti scelti da D’Anolfi e Parenti sono esotici e affascinanti, arcani e misteriosi: i destinatari del loro sguardo, raccolti in diverse parti del mondo al fine di comporre una sinfonia visiva opportunamente segmentata al suo interno, delineano un alternarsi polifonico di suggestioni ed elementi ora armoniosi ora dissonanti, sotto il profilo sia visivo che uditivo. Uno scorrere immobile e statuario di immagini lontane e metafisiche, che paiono astratte e sopraelevate anche quando tutto porterebbe a ritenerle a stretto contatto con la fisicità e con l’immanenza.
Non stupisce e non deve sorprendere: fine ultimi di D’Anolfi e Parenti era proprio esplorare nelle pieghe più recondite un altrove inviolato dove, per citare il Borges declamato da Marina Vlady in un cinema fantasma (l’etere), “accettiamo facilmente la realtà, forse perché intuiamo che nulla è reale”. Il loro impasto più distaccato che avvolgente di suoni, rumori e icone va sempre in questa direzione, tentando costantemente di trasfigurare il reale assoggettandolo al divino e al perfettibile (e dunque anche all’irreale e all’intangibile). I rischi di tale pretenzioso quanto avventato desiderio artistico, che risulta fuori portata anche per due documentaristi a dir poco geniali nell’esplorare chirurgicamente le pieghe del reale, si palesano ben presto e Spira Mirabilis, nonostante l’impressionante ambizione carica d’interesse del mosaico complessivo, si riduce ben presto alle fattezze monolitiche di un corpo morto. Un’operazionale oggettuale e oggettivante, che non sembra potere e volere fare a meno dello spettatore perché già di suo sprofondata nelle spire della propria struttura alienante e di un sistema di pensiero rigidissimo e inviolabile.
Non sembrano in fin dei conti nemmeno del tutto interessati all’immortalità, D’Anolfi e Parenti, quanto piuttosto alla rigidità di una natura che riesce a perpetuare se stessa all’infinito, che è cosa ben diversa. C’è una componente squisitamente meccanicista e autoptica nel loro immortalare – è proprio il caso di dirlo – le proprie fonti d’ispirazione: una vocazione entomologica che rende loro Spira Mirabilis più un cadavere da sezionare a caccia di gemme preziose e segreti inusitati che un film da guardare in senso tradizionale. Un’opera che si spinge persino oltre le installazioni concettuali più estreme, invocando un’autonomia che prescinda dall’osservazione altrui e che faccia a meno dell’umanità, dell’informazione, della mappatura, della nota a margine, del corollario, della divagazione, perfino, in ultima istanza, del cuore.
Il risultato, con queste premesse, non può che essere un film dai contorni quasi esotetici, un oracolo divinatorio ma silente, senza alcunché da profetizzare né tantomeno un uditorio tangibile al quale destinare il proprio vero o presunto vaticinio. Anche in virtù di tali difetti, le ragioni di interesse di Spira Mirabilis come operazione anti-cinematografica sono comunque moltissime, a cominciare dal dominio della tecnica come sublime punto di contatto tra arte e scienza. Le uniche due discipline – loro sì – capaci di aprire all’uomo le porte della vita eterna, in scia a un’elevazione della vita terrena che non a caso non può che passare anche dalla sublimazione del cinema e della letteratura da consumare all’interno di una sala spoglia che resiste e continua a proiettare, nonostante tutto. Per quanto sia un film inespresso e cifrato, Spira Mirabilis non può fare a meno di convocare in automatico tali spunti di riflessione, al di là della sua incapacità di costruire connessioni interne non solo tra il particolare e l’universale, alla maniera del Terrence Malick più ispirato (non necessariamente quello di Voyage of Time), ma anche, più banalmente, tra le diverse anime e i molteplici capitoli di un film raggelante e cerebrale che, nonostante qualche frammento di calore (la bambina alle prese con le paperelle, ad esempio), si rivela tristemente un inaspettato passo indietro per i due autori.
Davide Stanzione