Tante volte per comprendere la storia stessa è necessario un passo indietro, o quantomeno avere l’umiltà di rivedere le proprie posizioni. La critica (cinematografica, e non solo) spesso ha avuto a che fare con giudizi e sviste agghiaccianti rispetto ad autori (e lavori) che tutt’ora andrebbero rivalutati su una scala di valori certamente artistica, e più espressamente funzionale rispetto all’evoluzione del linguaggio che queste opere hanno portato allo sviluppo di un arte. Tra i casi più evidentemente ignobili il dittico orientale di Fritz Lang senza dubbio occupa un posto rilevantissimo (basti pensare che questa opera negli Stati Uniti uscì solo nel 1960, scorporata e rimontata in un opera unica di 95 minuti, dal titolo Journey to the lost city). Quello che è tutt’ora da considerarsi come il più grande e leggendario autore del cinema tedesco era appena tornato in Germania (dopo il lungo e complesso esilio americano) con l’idea di chiudere la carriera attraverso film apparentemente per un grande pubblico che lo potessero quasi liberare dall’aura colta e stratificata che lo rendevano un personaggio di estrema e rigorosa creazione. Nel 1957 così decise di riprendere in mano un suo vecchio progetto (del 1920, scritto con Thea Von Harbour e chiamato Misteri d’India) per realizzare questi due film in meno di due mesi. Voleva chiudere un cerchio, per aprire un’ultima parentesi, quella dell’ultimo Mabuse, successivo e terminale film di Lang che eleva a metafora tutto il suo cinema attraverso una strutturazione dell’occhio contemporaneo e della sua deriva puramente attuale (cosa sono i social se non la non fisicità di quei mille occhi?). Nella straordinaria (ed abnorme) retrospettiva dedicata da Locarno al cinema tedesco (“Beloved and Rejected: Cinema in the young Federal Republic of Germany”) curata da Olaf Moller e Roberto Turigliatto, un piccolo ma speciale spazio è stato proprio dedicato a Lang attraverso la proiezione di questi due film e la splendida conferenza di Jean Douchet.
La tigre di Eschnapur ed Il sepolcro indiano sono fondamentalmente un’opera sola che parte dal raccontare l’esperienza di un architetto tedesco in un paese remoto, straniero e tentatore. A pensarci bene Lang fu proprio un architetto, ed è la prima linea tangente ad emergere nel tentativo di ricostruire un percorso così accidentato e complesso. Ad una prima visione, ovviamente legata alla superficie d’esposizione di queste pellicole, si assiste ad un film d’avventura particolare, formalmente ineccepibile ma quasi grezzo nell’assenza di caratterizzazione dei personaggi, nel potentissimo apparato estetico svincolato spesso da esigenze narrative, nella forzatura simbolica di elementi apparentemente decorativi. Questo forse fu anche il primo approccio del pubblico che occupò in massa le sale cinematografiche per vederlo, ma allo stesso modo anche della critica che trovatasi davanti ad oggetti così misteriosi (e probabilmente aspettandosi opere legate al rigore dell’autore) deviò drammaticamente qualsiasi tentativo di lettura dei film, etichettandoli come opere quantomeno minori ed accusandoli di “incapacità drammaturgica, indifferenza artistica e semplice cattivo gusto”. Il primo a cercarne una reale lettura fu forse nientemeno che Godard, invitandoci quasi a reinterpretarli guardandoli alla rovescia, come opere d’avanguardia concrete in cui interrogarsi sulla struttura. Proprio lì emergono i primi paradossi: laddove l’esile contenuto ideologico e il pretesto della storia esotico-romantica sono sostituiti da un’analisi stratificata degli elementi filmici puri che Lang mette in scena, il nostro rapporto sulla visione si incrina irrimediabilmente. Nella profondità della visione possibile è come se avessimo bisogno di uno sguardo altro, più penetrante, che riesca a svelare l’impalcatura della struttura per comprenderne la grandiosità. Ad incominciare dalla lucidità folle e classica, visionaria e rigorosa di qualsiasi luogo occupato all’interno del film partendo proprio dal quadro stesso dell’inquadratura, la continuità spaziale diventa imperante e claustrofobica in ogni costruzione, come se dovesse riflettere la stilizzazione dei personaggi e delle loro azioni spesso riservate solo all’essere un disegno in movimento all’interno del fotogramma. L’immagine spesso così viene spezzata e scomposta tra specchi e riflessi nel definire un’astrazione che si fa sempre più assoluta ed inquietante man mano che emerge questa perfezione formale. Basti pensare alla scena della cesta del primo dei due film. Quando la ragazza ne entra all’interno tutti noi siamo convinti che la finzione-cinema (il trucco, il Méliès) possa salvarla dai lunghi coltelli, ma proprio in quell’attimo dalla cesta scende inequivocabile verso il pavimento un rigolo di sangue, mentre tutto tace. Un “carattere dell’assolutismo” forse, di un Lang completamente flagrante e disinteressato esecutore del suo stesso cinema di colpa e redenzione, di espiazione delle carni come elemento liberatorio di un substrato psicologico fondante. Allo stesso modo pare specchiata la scena cardine del doppio incanto del film successivo all’interno del sepolcro. La danza verso il cobra è una delle immagini più forti che il cinema abbia mai potuto scrivere sul rapporto amore/morte. La sensualità delle movenze che accompagnano gli occhi spiritati della protagonista si fondono con la sinuosità del serpente, in un afflato di corpi e colori dall’innegabile fascino erotico e dall’incomparabile deformazione dello spazio. Lei non può smettere di ballare (pena la morte), e così ama il serpente come fosse il prolungamento stesso di un suo membro, si incantano a vicenda lasciando ammaliati i cortigiani ma ancora di più noi di fronte allo schermo. Allo stesso modo emergono le movenze del Lang western ma ancora più estremizzate, la macchina da presa pare fluttuare negli spazi che percorrono i personaggi, solo più figure nello spazio, schegge di luci ed ombre intervallate dalla scenografia e perennemente seguite dai nostri occhi, pedinate da mille sguardi. Gli orizzonti schiusi luminosi e decorati de La tigre di Eschnapur diventano vorticosi, oscuri, spigolosi ne Il sepolcro indiano, come se fossimo al cospetto della luna e delle sue due facce. Il cerchio così è chiuso, restano solo mille (o forse nessun) occhi che aspettano di guardarci.
Quello che rimane è un turbine di sensazioni che nulla hanno a che fare oramai con la storia da cui siamo partiti. Con questi due film Lang si pone di diritto tra i più grandi “miseur-en-scène” nella storia del film, proprio perché più il mondo prende coscienza della (sua) immagine e più lei pare scomparire, in un cinema che sempre più si rivela doppia proiezione (quella fisica dello srotolarsi di una pellicola, come quella delle ossessioni che uno stesso autore struttura sullo schermo). Pensare a questo percorso diventa oggi la stratificazione sempre più densa del guardare lo sguardo di un mondo colmo e saturo di immagini senza nessuna direzione e tanto meno senso, mostrandone una volta di più la fine della sua stessa rappresentazione, ovvero il paradosso stesso su cui si fonda la società dello spettacolo. La fortuna di (ri)vedere questi due film su grande schermo, almeno personalmente, appare come un invito a tutti noi di tornare ad interrogarci sulla purezza di un cinema che non si rappresenta più. Molto ci sarebbe da dire e molto altro, ancora più personalmente, rimane da codificare in opere dalla così straordinaria mole simbolica e dalla ancora più incombente ricerca formale. Potrebbe risultare fortemente contradditorio anche il senso stesso di uno scritto del genere, e condivido altresì il punto di vista, pensando in un modo ancora più pregnante all’infausto ruolo che la critica aveva (ha, ed avrà) nel rettificare giudizi lapidari, nel catalogare a priori, nello smembrare e disossare ciò che non può e non vuole conoscere. Allo stesso modo però nelle stesse parole che Douchet nella sua lezione-fiume ha tentato di esprimere è emerso come una guida talvolta sia necessaria per poter fruire di un’immagine, o almeno possa essere fondamentale nell’indicare un percorso che poi saranno gli stessi occhi dello spettatore a dover affrontare. Ringraziando allora anche Godard, Turigliatto (da cui io stesso ho imparato ad amare anche questi film) e tutti coloro che in un ambito molto più vicino alla cinefilia disinteressata che alla critica giudicante, hanno lavorato e lavorano per (farci) scoprire certe opere, sorge spontanea una dedica. Nell’ennesima contraddizione dello scrivere (di cinema) questo piccolo ed inutile sproloquio mi appare quasi come un atto di scusa, un tentativo forse in extremis del non sentirsi degni di penetrare ciò che si interpone tra chi crea e chi guarda, ma allo stesso modo un invito (a me stesso in primis) a continuare a scoprire e a sorprendersi di un’immagine (e non solo).
Erik Negro