18 Agosto 2016 -

LA MONTAGNA SACRA (1973)
di Alejandro Jodorowsky

L’immaginario cinematografico sarà sempre scisso, sempre diviso, sempre diversificato. Il cinema di culto non sarà mai uno solo, non sarà mai solo la fantascienza anni ’80, non sarà mai solo lo western anni ’50, non sarà mai solo il noir anni ’40 e non sarà mai solo la New Hollywood, il pulp tarantiniano, la nouvelle vague più iconica e meno sperimentale. Jodorowsky esiste per quello: per essere simbolo dell’underground, del cinema di culto lontano dagli sche(r)mi, il cinema “weird”. E nella corrente “weird” è, con Lynch, senza dubbio il capostipite: dopo varie proiezioni notturne a New York, John Lennon e il produttore dei Beatles Allen Klein si curarono personalmente di diffondere negli Stati Uniti El Topo (1970), il secondo lungometraggio del regista cileno, l’opera che lo portò alla fama. “El Topo” — “La talpa”, l’essere che vive sotto terra, come il cinema più surreale e indigesto, ma che risale in superficie. Qui sta la differenza principale tra Jodorowsky e Lynch, i due registi più immediati nell’avvicinarsi al surrealismo post-Buñuel: Jodorowsky è una talpa che rimane sotto terra e va verso la superficie, mentre Lynch tenta di trasformare la superficie nel mondo che conosce sotto terra — e forse entrambe queste caratteristiche sono limiti, contando come il primo non riuscì a completare Dune e come il secondo finì per tramutarlo in un flop. Ma l’autore cileno è davvero il re dell’underground: la sua poetica, il suo sconforto spirituale unito alla mutilazione sensoriale di ogni simbolismo, di ogni concetto sessuale, di ogni dogma narrativo e anti-narrativo. Il suo cinema è onirismo ma è soprattutto sangue, sangue come forza vitale, spruzzi di bellezza violenta nella landa desolata che è il mondo. Jodorowsky rende bello il marcio e rende marcio il bello, dona armonia al caos e caos all’armonia, sacralità all’iconoclastia e iconoclastia alla sacralità. La montagna sacra è il suo film più formalmente assurdo ed estremo, quello in cui lo stile influenza di più la sostanza (e viceversa), forse quello più di culto per gli appassionati di stranezze nel cinema; un film che non avrebbe fatto senza il milione di dollari ottenuto grazie a Lennon e al suo manager Allen Klein. La visione in sala durante la 69esima edizione del Festival del Film Locarno è stata un’ottima occasione per riscoprire un capolavoro vero di uno degli autori più deliranti del cinema mondiale — un autore che, secondo fonti più o meno affidabili, per prepararsi a questo film ha vissuto una settimana senza dormire sotto la guida di un guru, per poi somministrare sostanze allucinogene all’intero cast.

Proponendosi come osmosi tra Il Monte Analogo. Romanzo d’avventure apline euclidee e simbolicamente autentiche (1952) di René Daumal e L’ascesa al monte Carmelo del Santo cinquecentesco detto Giovanni della Croce, La montagna sacra è sostanzialmente un film spiritualista all’interno del quale Jodorowsky ha unito i propri interessi, dalla Psicomagia (che ha sostanzialmente inventato lui) ai tarocchi, creando un paesaggio di simbolismi religiosi ed esoterici che solitamente risulta inintelligibile a chi non ha modo di approfondire gli oggetti dei suoi studi. Ex-collaboratore di Marcel Marceau e conoscitore dell’arte del mimo e del non-linguaggio dai tempi del corto Les têtes inverties (1957), Jodorowsky fa cominciare La montagna sacra con una mezz’ora praticamente priva di dialogo, in cui i pochi dialoghi pronunciati sono o pronunciati in maniera incomprensibile o espressi tramite rumori difficili da distinguere, come nell’inizio di Luci della città (1931) di Chaplin. Un uomo simile in tutto e per tutto a Gesù Cristo si ritrova in una serie di disavventure, circondato da simboli della fragilità umana: un uomo senza braccia e senza gambe, vittime della guerra uccise davanti ai suoi occhi da soldati con maschere a gas, persone trattate come cani squoiati invece che come uccelli che volano verso la libertà. L’uomo, detto il Ladro (ma che rappresenta Il Matto secondo i tarocchi), è solo uno dei tanti pezzi del puzzle che è questo mondo kitsch in cui la violenza è unita alla preghiera, il ballo alla guerra: è la visione della realtà per Jodorowsky, probabilmente; una realtà che è dolorosamente pacchiana, enfatica ed eccessiva, uno spazio in cui non esiste la connessione tra esseri umani a livello basilare ma solo la metafora, il ricordo. La storia del Messico non è un qualcosa che inquieta il popolo, bensì uno spettacolo per il popolo, in cui a rimetterci sono delle innocenti rane, truccate e messe in costume. Il Ladro perde la persona a cui tiene di più (l’uomo amputato, l’unico a mantenerlo innocente e a equilibrare la sua avarizia) ubriacandosi con degli uomini vestiti da antichi romani che lo sfruttano per costruire una serie di statue di cera di Cristo. Disperato a livello umano in quanto incapace di accettare di essere stato privato della propria identità e di essere stato collegato alla figura cristologica, il Ladro dà di matto e porta con sé una delle statue come monito della propria perdita di un’identità. Lui voleva solo essere un uomo, ma ora il suo vizio (quello di essere un ladro, un avaro) è ricollegato al Cristo, la sua vera e propria esistenza è diventata iconoclastia. Si porta dietro una serie di prostitute estremamente religiose, una delle quali è innamorata di lui, e si trova a confronto con la corruzione della Chiesa, con il vero Cristo che, in realtà, è diventato iconoclastia già per conto suo a causa della Chiesa stessa. Solo raggiungendo la libertà (mangiando la faccia della statua di Cristo e facendo volare i palloncini), al Ladro può essere aperta la strada per la cima della torre dove abita l’Alchimista (interpretato da Jodorowsky): con esso, grazie ad una serie di riti iniziatici in cui può eliminare sé stesso trovando la pace nel mondo e comprendendo quanta poca distanza c’è tra il denaro e gli escrementi, il Ladro si aggiunge ad altri otto individui completando una sorta di ricreazione surreale e astrologica dell’Enneagramma delle personalità, gruppo di nove persone connesse, grazie all’Alchimista, nello scopo di raggiungere la Montagna Sacra, capeggiata da nove saggi, per sostituirli e comandare l’ordine delle cose.

È difficile, forse impossibile, seguire il significato (e dunque anche il significante) di La montagna sacra dal suo prologo anti-dialogico al suo epilogo metafilmico la cui morale sembra essere una negazione dell’invito estremo all’ascetismo che permeava il resto del film, invitando lo spettatore a internalizzare il film ma nel contempo ad eliminarlo per entrare, a questo punto, nella vita reale, altrettanto surreale nel contenuto ma non nella forma. Possiamo ricollegare ad ognuno dei protagonisti un senso, ai loro processi personali un commento sociologico, o spirituale, politico, psicologico, esoterico. Ma sarebbe forse solamente la maniera più comoda per privare di fascino La montagna sacra e Jodorowsky tutto: perché Jodo è di tutti i registi occidentali il più orientalizzato, il più filosofo, il più magico, il più surreale, il più inspiegabile, il più irrazionale, il più istintuale, animalesco, fuori dal mondo, quello più capace di unire bellezza visiva marcia e significato implicito senza vergogna di essere eccessivamente esplicito o pacchiano nell’uso dei simbolismi. È ovvio, l’eccesso c’è, ma è un tipo di eccesso che solamente Jodorowsky riesce a mettere in scena con un tale magnetico marciume, con una tale potenza espressiva, paragonabile a quella di una valanga di immagini che invadono la retina, la soffocano, la fanno esplodere con riferimenti erotici e cristologici a strafare. E poco importa dell’unione tra caratteri religiosi nei tatuaggi sulla pelle dell’aiutante dell’Alchimista (osmosi ripresa nella “fusione” tra i simboli dei monoteismi ne La danza della realtà), o di ogni allegoria politica, economica, sessuale o religiosa dietro i vari compagni d’avventura dell’Alchimista e del Ladro: l’importante non è mai davvero solo il messaggio, è sempre però la maniera in cui il messaggio è inscenato; la follia di un cervello che diventa la follia di un mondo intero. Una follia capace di influenzare il mondo del cinema come quello della poesia, della letteratura, del fumetto, della musica, dello spiritualismo. Una follia geniale capace di inserire all’interno del film un messaggio e l’eliminazione del messaggio stesso, capace di creare un film che nega e va contro il fatto di essere esso stesso un film, capace di far vivere nella poesia surreale della vita i propri personaggi e poi a liberarli verso una realtà che nega il gioco, nega il cinema, nega il messaggio, nega la realtà. Jodorowsky insinua il dubbio e invita ogni spettatore a mettere in discussione sé stesso e il mondo che ci circonda, Jodorowsky ci invita ad evitare il Pantheon Bar dei piaceri e della follia ma anche a cercare di capire per conto nostro cosa fare, come muoversi nella realtà, dove andare per trovare la montagna sacra, quella vera, che probabilmente è dentro di noi. O forse è nel cinema, in questo film, o forse non esiste. Ma siamo noi a doverlo capire, a dover completare l’immagine con la nostra competenza e la nostra capacità di recepire l’immagin(azion)e e la vita, il sangue, il simbolo, il Cristo.

Nicola Settis

“The Holy Mountain” (1973)
114 min | Adventure, Drama, Fantasy | Mexico / USA
Regista Alejandro Jodorowsky
Sceneggiatori Alejandro Jodorowsky
Attori principali Alejandro Jodorowsky, Horacio Salinas, Zamira Saunders, Juan Ferrara
IMDb Rating 7.9

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