All’uscita della proiezione ufficiale di Beduino, Julio si avvicina a me (mentre ero solamente -pre-occupato di cercare un accendino e mentre le mie palpebre tremavano dal sonno) per chiedermi un’opinione su cosa avevo appena visto. Beh, non mi ricordo cosa risposi, sicuramente pensai che l’unico mio motivo dell’essere, anche per poche ore, in questa Locarno era quasi unicamente per quel film. Eravamo rimasti giusto ai bordi di una tela quadripartita che segnava lo spazio dell’oblio, di ciò che è fuori campo, delle nostre ossessioni. In Tela Brilhadora Bressane fu teorizzatore e traghettatore di questo viaggio infinito con altri giovani folli e sognatori (Moa Batsow, Bruno Safadi, Rodrigo Lima) che si avventuravano oltre loro stessi. Proprio questi ossessiona(n)ti navigatori dell’abisso (della comprensione) sono lo stesso set di questo ultimo film, e come allora si muovono con gioia sapendo di potersi perdere, di poter perdere tutto. Perché ancora una volta, in questo cinema disperso, è il momento di mettere in gioco tutto, per cercare di capire, per cercare di vedere. Forse per la prima e ultima volta.
I protagonisti sono la bellissima Alessandra Negrini e Fernando Eiras, di loro non sappiamo nulla, forse solo che si devono conoscere. In causa ancora una volta c’è l’uomo, e l’idea che il suo amore non possa finire, ma solamente trasformarsi. Siamo navigatori, sì, sempre più legati al voler continuamente riferire il battito della luce alla fenomenologia di una lingua sconosciuta, alla radice di un sentimento. L’educazione sentimentale è essa stessa una diseducazione. Abitanti del deserto che viaggiano dal definito al vago, continuamente oscillante tra soggetto e oggetto, come tra autore e spettatore. Le coordinate sono subito perse, e il racconto di questo film non può far altro che riflettere la condizione del suo esercizio, l’esperienza sensibile e diretta della sua sensibilità. Lo si prova all’apertura, proprio quel set continuo in costruzione (o distruzione?) in cui il cinema trova il suo farsi come luogo in cui provare l’emozioni che sia ha paura di cercare nella vita reale. Si incontrano lungo una strada (Rua Aperana?), nessuno può sapere se si vedono, ma sicuramente non possono appartenersi. Rimane l’istante, l’attimo in cui si scontrano liberato da quel tempo. Poi, lo stacco, il teatro domestico in cui l’uno vive nell’altra, attraverso la passione che può detonare qualsiasi coscienza individuale. È lo stesso Bressane a definirlo così: “Un fotogramma introduce una letteratura. Il montaggio reintroduce il cinema, cinema che pensa il film come la storia della sua realizzazione”. Così vivono questi amati ed amanti, nel continuo e strenuo tentativo di conoscersi in un’immagine che per molti minuti attende la sua prima parola. La prima voce del film, il primo dialogo, i fonemi iniziali sono: amor / humor. È una poesia di Oswald de Andrade, essenziale ed esistenziale, come il primo (sor)riso di lei a cui lui non sa rispondere, flusso vitale e liberatorio. Il resto è la continua e indefinita reiterazione di un’impressione, passando per la letteratura (da Machado de Assis ad António Vieira), la filosofia (la roccia di Surley che ispirò a Nietzsche la teoria dell’eterno ritorno, il pendolo di Foucault che rimbalza nell’anima), la storia (l’attrice che rappresenta la difficile scena della civetta di Atena), l’uomo e la donna.
Proprio per questo sarà solo l’oggetto dell’amore a cambiare, e proprio per questo la radice non può che essere la ferita scavata nella necessità del rinnovarsi. Per questo motivo, anche nella coppia che necessariamente riapre questo capitolo di poesia strappata alla vita, l’elemento di vicinanza può solamente essere il bisogno inconscio di comprendere e comprendersi. Un altro lui e un’altra lei, che nello spazio tentano di recuperare un tempo vivo, la durata dell’immaginazione, di quella realtà sperimentata e condivisa che si fa (al) cinema. Un flusso continuo, dove il montaggio si fa struttura liquida e impavida del gioco e dell’amore, fino alla rappresentazione del battito cardiaco come dei nervi scoperti. E ogni nuova parola è scoperta, ogni svolta, ogni sogno che ritorna e che si evolve, ogni guerra casalinga si fa ludica deriva di suoni e luci, tra un’ebbrezza e una metamorfosi, un trenino giocattolo su paesaggio femminile, un sensuale spruzzo d’acqua, un’orgasmica borsetta, una piramide americana dal senso magico, una guerra. Ogni oggetto si fa specchio verso noi stessi, ogni lettera si fa pantomima erotica di una fantasia, la sensualità che si impone all’oblio, o alla sola domanda “Quem somos nós?”. Così, in un finale corroso di (s)montaggio, tra i vari frammenti dello stesso Bressane, riemergono A Fada do Oriente e soprattutto Memórias de um estrangulador de loiras, che sopravvivono nella finzione di un altra finzione, e quindi nel reale. Sarà lei ad esser strangolata, o forse no. Saranno le corde, saranno le sue stesse mani. L’ennesimo svelamento è togliere quel velo, come una parrucca. Si è (re)citato, ancora una volta, si è giocato ad amare (e forse a morire).
Diretta conseguenza di Educação Sentimental, questo film ha avuto bisogno di quattordici anni per vedere la luce, anche per questa idea di produzione possibile di qualsiasi elemento (a partire dall’emozione) che si trova in scena. Beduino è un ennesimo saggio sul manifestarsi dell’esistere umano, attraverso i gesti, le ombre, gli elementi, la materia, le forme e la traduzione intima di tutti questi significanti nel senso comune ed intimo dello scoprirsi al mondo. Una poesia dei sensi che, proprio come diceva Vieira, ci invita a vedere con le orecchie ed a udire con gli occhi. Un fiume visionario, che ci chiede ancora una volta di perderci in un cinema già perso, che qui si mostra antropofago e locale, di allontanamento e proiezione dalle infinite prospettive di una materia viva e flagrante, sempre più libera. Per tutti questi motivi a Julio non risposi se non con un sorriso, un abbraccio ed un filo di commozione. La stessa con cui lui continua a vivere il desiderio del suo cinema e a donarcelo, come un atto infinito di corpi e di lingue imperscrutabili, di immagini arcaiche e perennemente moderne, di amore folle e disperatissimo del conoscere e del conoscersi.
Erik Negro