5 Luglio 2016 - e

GUIDA AL (LENTO/VIOLENTO) LAVORO (2016)
di Matteo Arcamone

Come già accaduto l’anno scorso con I racconti dell’orso di Samuele Sestieri e Olmo Amato, ci ritroviamo di fronte al felice quanto spinoso problema di recensire un film di un amico; e non solo un amico di professione e di passione, ma un amico stretto, di lunga data, vicino e anche sofferto. Matteo Arcamone, così come Samuele e Olmo non saranno mai “Sestieri e Amato”, per noi non sarà mai “Matteo Arcamone”, ma sempre “Matte”, o meglio ancora “Arcatteo”, abbreviato in genere con un “Archie” che quasi ricorda il sapore polveroso degli spaghetti western. Sarà sempre quel ragazzo incapace di odiare che abbiamo conosciuto a un Torino Film Festival di diversi anni fa e con cui da quel momento condividiamo case, viaggi, ospitalità, piatti, Festival, birre, sigarette, idee, passioni, risate, disordine, delusioni, cattivi odori, amicizie, emozioni, cuore. Tanto che nei primissimi giorni di gennaio 2016, aneddoto curioso e del quale sotto sotto andiamo orgogliosi, Matteo ha terminato il montaggio e renderizzato Guida al (Lento/Violento) lavoro proprio nella sede legale di CineLapsus a Genova. Un film finito sette mesi fa dopo più di un anno in naftalina quasi solo per se stesso, per un’intima necessità di declinarsi in immagini in una sorta di lettera aperta – ai genitori, a se stesso, al mondo – nella quale spiegare i (non) motivi per i quali non (si) può lavorare, caricato su youtube quasi per caso e che mai e poi mai Archie avrebbe pensato di poter presentare a un Festival. L’occasione insperata è stata fornita dalla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, la cui sezione Satellite si occupa di mettere in comunicazione, in barba alle anteprime e alle esclusive, realtà cinematografiche indipendenti e giovani autori: una conquista, una sorpresa, un sogno ad occhi aperti.

Guida al (Lento/Violento) lavoro è un film sul quale noi di CineLapsus siamo dunque ostentatamente di parte: ne conosciamo la genesi, ne possiamo certificare personalmente l’assoluta veridicità e sincerità, sappiamo quanto ci sia di Arcatteo sullo schermo e quanto sia sofferto per lui, al contempo istrionico e timido, essersi messo in scena e a nudo in modo così profondo. Riconosciamo i luoghi, quella Torino di Piazza Statuto e dintorni, il bagno di Archie, quel salotto di via Tenivelli in cui mille volte abbiamo dormito e riguardato immagini del nostro amatissimo Alberto Grifi, che apparirà infatti quasi subliminale, come un angelo custode e una stella cometa, anche nel film. Riconosciamo l’Arci “La Cadrega” in cui si apre e chiude Guida al lavoro, con ancora alle pareti la locandina degli incontri del 2014 su Bela Tarr. Riconosciamo i volti, Fabio, Bianca, quel ditino irriverente e quel sorriso distratto. Riconosciamo l’indole meravigliosamente pasticciona del regista, interprete e argomento del film, la sua tenerezza palpitante sotto la scorza del provocatore ribelle, il suo caos che si fa microcosmo, il tedio atterrente che si fa disagio e continua odissea senza punti di partenza né di arrivo. E riconosciamo anche le allusioni e i dettagli che può cogliere solo chi conosce a fondo la vita di Matteo, ma noi, da amici, non li riveleremo di sicuro a mezzo stampa. Quello di Arcatteo è quindi un film sul quale siamo già in partenza in un conflitto di interessi che non è in alcun modo economico ma è oltremodo umano e affettivo, è un film che sentiamo sotto la pelle perché, seppure a latere se non altro per motivi geografici – uno scrivente ha base a Genova, l’altro a Pisa –, sentiamo in qualche modo di farne parte. Tuttavia, com’è necessario fare in questi casi, ci pare giusto provare a dare un giudizio il più possibile distaccato, obiettivo e sincero; perché è quello che l’opera di Matteo Arcamone si merita: uno sguardo onesto, anche umile, ma non disinteressato, che cerchi di metterne sul piatto anche i difetti linguistici – si tratta pur sempre dell’esordio al lungometraggio di un ventiquattrenne – per farne emergere, questo sì, il grande cuore.

Guida al (Lento/Violento) lavoro è un film nato sostanzialmente per caso, dall’unione delle riprese fatte da Arcatteo alla propria vita durante il 2014; ed è un film sostanzialmente di montaggio, caratterizzato da un’alternanza di formato e di contenuto che va dal 16:9 HD di una piccola handycam nella sfera del – disastroso e irresistibilmente spassoso – tentativo di lavoro nello studio di un commercialista (Guida al lavoro), al 4:3 intimo della vita sociale e privata, a casa, in giro e per strada (Lento/Violento, citando Gigi d’Agostino), girato nel low-fi di una vecchia Video8 anni Novanta, pixel sgranati e ultime linee orizzontali in fondo al fotogramma che virano verso destra nello scorrere del nastro. Dall’unione dei due filoni, emerge un videodiario sfilacciato fra due mondi apparentemente incompatibili nella vita della stessa persona, che parte da una distruggidocumenti rotta da un Arcatteo atavicamente incapace di inserire un solo foglio per volta – perfetto paradigma della sua indole buona e disordinata, non lo fa apposta, è semplicemente fatto così – per arrivare a una noia vuota e agghiacciante: un caleidoscopico viaggio in tondo nel nulla, fra un magazzino da riempire e le evoluzioni sempre uguali degli skater. La sua programmatica e annoiata lentezza descrive il ritmo di una routine vuota di cui l’autore/attore è protagonista, carnefice e nel contempo vittima. Per portare a termine questo nobile intento, Arcatteo si serve di ritmi narrativi a tratti estenuanti nelle inquadrature fisse, inserisce nel montaggio discorsi fra amici e telefonate smaccatamente inutili come tangibile metafora del vuoto esistenziale, indugia su Torino, su quel muretto vicino a casa e sulla fauna umana che ogni pomeriggio lo colonizza. Restituisce il suo tedio creando tedio, a costo di appesantire un film di sicuro non per tutti, forse troppo lungo nei suoi 90 minuti abbondanti, a tratti ossessivo in durate non sempre gestite alla perfezione, ma forte di una sincerità debordante, fino alla pura lirica finale.

Guida al (Lento/Violento) lavoro è una ricerca linguistica che parte dall’assenza di linguaggio cinematografico, lo erode, lo scarnifica, lo rende sfacciatamente libero rompendo sia con le regole della narrazione sia con quelle del documentario, rifiutando la tecnica per abbracciare una poetica essenziale e “vera” che si pone l’obiettivo al contempo di usare le immagini per ricreare le emozioni e gli stravolgimenti di Archie. Con un’idea di cinema forse ancora immatura, ma già chiara, lampante, riconoscibile, forte. Il film funge così come una testimonianza, un capitolo semplice ma necessario, probabilmente, nello sguardo di una post-adolescenza italiana annoiata e annullata. Una gioventù che non sa più se credere nella bellezza, e quindi osserva le montagne, contemplando un’incontemplabilità disperata davanti alla quale mancano le parole, mancano le espressioni, manca proprio la capacità di includere quelle montagne nella propria vita, nel proprio sguardo, e dunque nel proprio film. Questo documentario casalingo è materia grezza, è un film personale e sperimentale su sé stessi, non sull’atto del guardare né tantomeno sulla tecnica del filmare. Non è una critica sociale, perché non si pone la necessità di attaccare un qualcosa, non ha un sistema da colpevolizzare, ma è piuttosto una confessione, uno sviscerarsi, un cercare disperatamente di comprendersi. Matteo Arcamone vuole solamente restituire uno sguardo, farlo comprendere, mostrare i colori e l’assenza di colori di questa testimonianza, con i suoi ritmi lenti e tragicomici, con la sua fluidità anticronologica sempre in sospeso tra il cinema pop e il cinema diretto. E anzi, Guida al (Lento/Violento) lavoro si conclude con una nota nostalgica, con lo sguardo in avanti verso il paesaggio oscuro che scompare (fatto ormai di linee e non più di forme) e lo sguardo indietro che recupera le riprese della vita casalinga precedente, i momenti, le persone da conservare. E, nel frattempo, risuona Lontano Lontano di Luigi Tenco, tingendo di sano romanticismo la solitudine e la noia, tingendo di impossibile e di bellissimo ciò che invece può mangiare l’anima e il corpo; con il cinema che osserva, lontano, vicino, e ancora lontano lontano, nel mondo.

Marco Romagna, Nicola Settis

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