Granny’s dancing on the table, presentato alla Cineteca di Bologna nell’ambito del Biografilm 2016 dopo la premiére lo scorso anno a Toronto, è prima di tutto un film sull’isolamento. Protagonista è Eini (la giovanissima e glaciale Blanca Engström), adolescente svedese, sul cui volto tumefatto si apre una narrazione dalle anime multiformi: da una parte le atmosfere horror di una contemporaneità live action soffocante nella casa isolata in mezzo al bosco e nel padre di una severità ossessiva e possessiva, dall’altra la sfera del passato e del sogno di Eini che vengono affidati all’animazione stop motion di pupazzi di cera. Un’animazione volutamente e necessariamente abbozzata, non sempre fluidissima ma al contrario scattosa e contraddittoria, come i pensieri, come il flusso di emozioni che vuole rappresentare, come il ricordo e lo strazio.
Hanna Skøld, regista al secondo lungometraggio di finzione, mette in scena un racconto asfittico e parzialmente autobiografico, tornando alla sua infanzia fatta di una casa ai margini del bosco, di un padre violento e ipercattolico, di nessun contatto con la realtà. Ma dove la regista viveva la propria difficile infanzia con i suoi sette fratelli, Granny’s dancing on the table aggiunge al passato di Eini la solitudine di una figlia unica e orfana di madre, pronta a tornare indietro di due generazioni nella travagliata storia della propria famiglia per ricominciare a sognare la fuga e una vita normale inserita nella società, lontana dal padre e dalle sue ripetute botte. Quella messa in scena è una famiglia disfunzionale, topos del cinema svedese, riletta attraverso generazioni di abusi e dolori e asciugata di qualsiasi forma di ironia ma resa anzi drammaticamente viva, palpabile, dolorosa. Il risultato è una sorta di fiaba disturbante e non di rado violenta, un percorso fra i generi e le tecniche cinematografiche, un film sul tempo senza tempo, una constatazione amara dell’impossibilità di provare sentimenti normali in una situazione ormai tradizionalmente paradossale, un viaggio drammatico nella depressione e nel senso di colpa, ma sempre forte di un orizzonte di speranza, della necessità di lottare – anche contro se stessi e contro la propria famiglia, se necessario – per giungere alla libertà. Oltre il bosco c’è un mondo dal quale, nonostante tutto, provare a ripartire, e la sua esistenza è l’unica ragione della protagonista per continuare a vivere.
La devastazione di Eini viene da lontano, ci dice lei stessa nella finzione cinematografica narrando in voce off la storia della sua famiglia, da quando sua nonna e la sua sorella gemella (assolutamente geniale la sequenza in cui, per introdurre la difficoltà delle loro vite, iniziano a strangolarsi già da feti) rimasero orfane e attraversarono l’oceano. Il fattore che le aveva ospitate nella landa più isolata di Svezia decise di sposare la sorella, mentre la nonna rimase incinta di chissà chi e fu forzata ad andar via verso una vita di prostituzione lasciando alla coppia il figlio, padre di Eini, a crescere in una situazione di continuo annichilimento. Hanna Skøld mette in scena una devastazione familiare fatta di religiosità esasperata, di annullamento di qualsiasi rumore, di un giardino che diventa bosco creando una barriera insormontabile fra la casa e la civiltà, di lutti familiari e di strazia(n)ti abbandoni. Traspare un senso di colpa profondo e inevitabile, fatto di traumi che diventano altri traumi e che si ripercuotono sulle generazioni successive. E anche la natura è atterrente, capace di sporcare di fango la disperazione e la solitudine, capace di venare le vite come i sassi durante il terremoto, ed è per Eini un altro elemento da superare e da bruciare, con un fuoco che è al contempo distruzione e purificazione, un fuoco che non resta che accendere prima di andare via.
La vita di Eini si snoda fra vecchie lettere e necessità di capire, fra istinti masochistici come via di fuga e una radio come unica finestra sul mondo, fra la freddezza disumana di un padre e la legittima voglia di vivere. Mentre il padre, al pari del suo altrettanto dittatoriale patrigno, vuole solo il silenzio, lo studio, la solitudine. E distribuisce punizioni, randellate, pugni sulla faccia, sfogando la sua frustrazione di una vita sulla figlia. Per Eini tutto è sbagliato, tutto è una colpa, tutto è da nascondere: le vecchie foto, i vecchi vestiti della nonna e della madre, le prime mestruazioni con tanto di biancheria insanguinata frettolosamente nascosta in mezzo ai piatti, quella radio che non sembra volersi spegnere e quindi da prendere a pietrate come se fosse un animale pericoloso prima che il padre senta qualcosa, quell’accetta con cui tagliarsi una mano come autopunizione e al contempo ribellione e sfida alle imposizioni. Ma è nel parallelo passato fra la nonna donna di mondo e la sorella chiusa, brutalizzata e depressa che Granny’s dancing on the table trova probabilmente il suo più ampio respiro, e la sua protagonista trova il coraggio per scappare e vivere, anche se sarà difficile ripartire. Rimane una città apparentemente deserta, rimane il bosco in fiamme alle spalle, rimane lo sguardo di Eini che ancora si chiede come sia il mondo, ma che nel frattempo lo ha già raggiunto. Ha lasciato indietro il passato, il terrore, le punizioni, le percosse, il malessere passato di generazione in generazione, ha smesso di essere essa stessa uno dei pupazzi di cera con cui ha immaginato la narrazione: ora è una giovane donna non più plasmabile, libera, felice, pronta alla vita. È tempo di tornare alle danze sul tavolo della nonna, alla sua felicità trovata pur nelle difficoltà, e finalmente a passare da una generazione all’altra non sono più lacrime e sangue, ma la libertà. Il film di Hanna Skøld è una bellissima sorpresa, un film accorato e originale, un film linguisticamente molto interessante nell’alternanza fra gli attori in carne e ossa e un’animazione pienamente contestualizzata che mai diventa mero esercizio di stile, capace di sorvolare la famiglia con durezza e speranza. Un film complesso e stratificato, forte, spietato e al contempo di cuore. Un film che fa stare male per poi restituire un amaro sorriso, passando dagli schiaffi ai neonati alla necessaria ribellione di una figlia. Un film da vedere, indubbiamente, e da sostenere, da vivere, da amare.
Marco Romagna