La fotografia è un istante, è una frazione di secondo che diventa ricordo e riproducibilità. La fotografia è rischio, è adrenalina, è la narrazione diretta di un attimo. La fotografia è guerra, e chi la scatta è un soldato che preme l’otturatore al posto del grilletto. Specialmente nel caso di Jason P. Howe, che nella vita ha deciso di essere proprio un fotoreporter di guerra. Essere, non fare, perché il lavoro di Howe non è un lavoro, ma è un modo di vivere, è lo sprezzo del pericolo, è una dipendenza, sono gli enormi rischi corsi per il bisogno ancestrale di mostrare al resto del mondo la realtà più cruda di una sua porzione, è una sana (o forse no) follia. Sono le continue domande sull’etica del proprio lavoro nel momento in cui avanti all’obiettivo si stagliano grida, sangue, dolore, morte; nel momento in cui ci si ritrova perdutamente innamorati di una sanguinaria sicaria e si decide di non seguirla nel suo lavoro perché sarebbero troppi i rimorsi a non fermarla; nel momento in cui il governo britannico, non potendo imporre la censura, istituisce blacklist di giornalisti e fotoreporter non più graditi in zona bellica. Fino ai disturbi post-traumatici da stress declinati in un uso smodato di alcool e cocaina, fino alla depressione e al panico, fino alla necessità di ritirarsi nella tranquillità per cercare di ritrovare se stessi. La fotografia è Hoka Hei, il celebre grido di battaglia di Cavallo Pazzo, tatuato su un bicipite a ricordare ogni giorno a Howe quale sia la sua reale natura.
Harold Monfils, per quanto titolare della casa di produzione Monfils Production, aveva fino a oggi girato solo pubblicità. Questo film documentario d’esordio, presentato al Biografilm Festival 2016 di Bologna, è un lavoro lungo sei anni, un pedinamento quasi costante composto da interviste in vari momenti della vita a Howe e ai suoi colleghi, un minuzioso lavoro di footage e montaggio delle immagini girate con le gopro sui caschi dagli stessi reporter, un interessante e approfondito excursus che mostra l’atto del mostrare partendo dalle fotografie e dai progetti per giungere all’uomo, racconta guerre, mutilazioni, dolori, dubbi, la necessità di essere lucidi per scattare e per rimanere in vita, i passi sui campi minati, sopravvivere per poter raccontare.
Hoka Hei – A good day to die poggia le proprie basi su un argomento giocoforza interessante e su un uomo, volenti o nolenti, ben al di fuori dell’ordinario. Viene narrata la prima esperienza come fotografo di guerra in occasione del conflitto civile in Colombia, i suoi difficili tentativi prima di avvicinare e poi di farsi accettare dai ribelli, i suoi primi scatti su pellicola in bianco e nero con le vecchie ma sempre splendide Leica, la sua vita insieme a loro e la necessità di imparare a non fermarsi nemmeno durante la morte, continuando a documentare quel che stava succedendo. Ma poi è arrivata anche la disillusione: Jason Howe ha visto gli effetti devastanti della guerra sui civili, si è reso conto che il suo pedissequo idealismo nei confronti delle istanze dei ribelli si stava sgretolando come sabbia fra le dita di fronte all’evidenza della realtà, che la situazione era ben più complicata, che gli veniva mostrato solo ciò che volevano potesse vedere e immortalare. Ma nel frattempo l’adrenalina del campo di battaglia, dei passi insicuri fra una mina e l’altra e di quello scatto particolarmente significativo ottenuto quasi miracolosamente fra i proiettili in volo era diventata una dipendenza, mentre il nome di Howe stava iniziando a girare come quello di uno dei più promettenti fotoreporter di guerra. Il freelance non ha tempo di riposarsi, di riprendersi, di fermarsi, ma deve andare, essere sempre pronto, essere sempre in prima linea. Ecco quindi l’Iraq – con tanto di nascondiglio di Saddam –, ecco l’Afghanistan, ecco ancora il Sudamerica, sempre alla ricerca di uno scatto, di un’inquadratura, di un istante: il paradigma perfetto, che sappia intrappolare tutta la guerra in un frame. La carriera di Howe è andata avanti fra esplosioni, rischi della vita, fidanzate che si sono scoperte assassine, un fratello soldato con il quale andare insieme in missione, uno con il fucile e l’altro con la Canon. Fino al soldato britannico che ha perso entrambe le gambe su una mina e che ora il fotografo torna a trovare in ospedale per tastarne la forza e la vita, per fargli rivivere quei momenti con i suoi scatti, per ricevere l’autorizzazione a pubblicarli mentre il governo britannico si impuntava con scuse assurde e puerili contro la sorta di ‘brutta pubblicità’ che la pubblicazione di quel servizio avrebbe fatto alla guerra, magari scongiurando la leva volontaria delle nuove reclute.
Monfils segue Jason Howe, ne racconta la storia, i servizi, i problemi, i drammi, l’insita follia per riuscire a sopportare ciò a cui stava assistendo e per superare la paura della morte nel pericolo, fino alla quasi certezza che prima o poi sarà di nuovo il tempo di tornare in prima linea nonostante il cambio di vita, il ritiro a vita privata e solitaria senza più droghe né eccessi, il proprio passato gettato non solo simbolicamente nel fuoco. Forse non sarà particolarmente originale dal punto di vista cinematografico, ma Hoka Hei – A good day to die è senza dubbio estremamente efficace nell’interrogarsi in continuazione sull’etica del giornalista e del fotografo-artista in tempo di guerra, sul confine a volte slabbrato fra lucidità e follia, su quello fra reflex e fucile, sulla necessità di raccontare e mostrare perché il mondo ha bisogno di sapere e capire, nella speranza che in futuro riesca a non ripetere i propri errori, rendendo il lavoro di fotoreporter di guerra completamente inutile. Del resto, la fotografia è un istante, è una frazione di secondo che diventa ricordo e riproducibilità. La fotografia è rischio, è adrenalina, è la narrazione diretta di un attimo. La fotografia è guerra, e chi la scatta è un soldato che preme l’otturatore al posto del grilletto. Ed è preciso dovere di tutti fare in modo che, di scenari del genere da fotografare, non ne esistano mai più.
Marco Romagna