A volte, purtroppo, non basta un argomento potenzialmente interessante per riuscire a portare a casa un buon film, nemmeno nell’ambito di un cinema documentario che, di per sé, fornisce ben più facilmente rispetto alla finzione i legami diretti con la realtà. WikiLeaks è infatti, cinematograficamente, un’arma a doppio taglio, un argomento da prendere con le pinze, un qualcosa al cui nobile intento sociale corrispondono mezzi non propriamente ortodossi né tantomeno legali. Perché WikiLeaks, se da una parte è un’encomiabile organizzazione no profit per smascherare giochi di potere, corruzione, privilegi e comportamenti poco etici di governi ed eserciti attraverso una piattaforma online per la pubblicazione anonima di documenti riservati, è anche al contempo un qualcosa di attaccato e a volte non totalmente a torto, da più parti – dal Guardian al governo statunitense, fino alle pesanti condanne per spionaggio inflitte alle sue “gole profonde” dalla magistratura – per la sua natura illegale e hackeristica, per le continue violazioni della privacy e dei documenti secretati, e in ultimo per il manifesto egocentrismo del suo fondatore Julian Assange. Come spesso accade, le situazioni sono più complesse di quanto possano apparire, la verità sta nel mezzo: Assange non è un santo, Assange non è un demonio, e piuttosto la domanda da porsi in un film basato su WikiLeaks dovrebbe essere una sola, semplicissima: “entro quali limiti il fine giustifica i mezzi?”. Una domanda alla quale nessuno, ad oggi, ha ancora cercato risposta, preferendo piuttosto abbracciare una sola delle due campane, o tutto bianco o tutto nero. Come nel 2012 c’era cascato, nella finzione e costruendo un’opera definita dallo stesso Assange “miserabile, ingannevole e propagandistica”, Bill Condon con il pessimo thriller Il quinto potere, tratto non a caso dai due libri dei giornalisti del Guardian acerrimi nemici del fondatore di WikiLeaks e clamoroso insuccesso al botteghino nell’attacco quasi frontale contro Assange, così oggi ci casca in maniera opposta, ovvero costruendo un documentario troppo pedissequamente celebrativo di una figura sì positiva, ma non eroica né integerrima, semplicemente un uomo con pregi e difetti, anche Laura Poitras con Risk, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2016.
Non può che venire alla mente, per tematiche ma non solo, CitizenFour, precedente e interessantissimo lavoro della Poitras incentrato sullo scandalo spionistico della NSA. Ma se in quel caso la regista statunitense, grazie alla segnalazione del sincero tecnico informatico Edward Snowden, si era trovata al posto giusto al momento giusto, riuscendo a documentare i mezzi poco ortodossi dei governi per controllare i propri cittadini e il conseguente putiferio mediatico nato dopo gli svelamenti, con Risk un lavoro che vorrebbe ricalcare in sostanza lo stesso schema finisce per rivelarsi una copia sbiadita del film precedente, forte di qualche punto di interesse ma nei fatti lontano anni luce da CitizenFour proprio perché “il furbetto” Assange è lontano anni luce da Snowden. WikiLeaks e Julian Assange, prima ancora che hacker, giornalisti o spie, sono ormai simboli stessi della censura e dell’accanimento giudiziario contro chi fa uscire voci scomode per i governi, gli eserciti o i grandi poteri. Nel corso degli anni in cui è stato girato Risk, nelle intenzioni della Poitras appunto un decalogo dei rischi da correre per ottenere libertà e giustizia, WikiLeaks è diventato l’apoteosi della fuga di notizie (leak in inglese significa furto, fuga), si è posto come lotta contro i segreti – di Stato, politici, militari – e contro i comportamenti non etici di governi e industrie, è stato un atto d’accusa fondamentale contro i soprusi di guerra statunitensi e l’operato spesso oscuro delle reti diplomatiche mondiali, ha intercettato telefoni, letto e-mail e documenti privatissimi, ha pubblicato fondamentali video sull’uccisione di civili e l’occultamento di cadaveri attuato dalle truppe USA in Afghanistan e Iraq e ha trovato e reso pubbliche le prove di intrighi internazionali, complotti e doppi giochi da parte di emiri, sceicchi e capi di Stato di quasi tutto il mondo. Fino a lanciare sul sito persino movimenti bancari e considerazioni private, fra le quali quelle, giustissime ma non certo eleganti, da parte dei diplomatici statunitensi riguardo i festini ad Arcore di Silvio Berlusconi, scatenando diversi incidenti diplomatici e spostando nettamente assi mondiali (fra cui, forse, pure le Primavere Arabe, nate probabilmente anche dalle rivelazioni della piattaforma). E la risposta non si è fatta attendere: il sito è stato oscurato e solo grazie a provider esteri e reti a volte pirata è riuscito a sopravvivere; il soldato Manning, accusato in sostanza senza prove di aver fornito a WikiLeaks i video che mostravano il lato più marcio e ipocrita delle “missioni di pace”, ha evitato la pena di morte per tradimento ma è stato condannato a 35 anni per spionaggio; l’amministrazione Obama ha attuato una vera e propria caccia alle streghe in cerca degli informatori del sito; quasi tutti i collaboratori non anonimi hanno subito processi in giro per il mondo; lo stesso Assange è stato arrestato in Gran Bretagna e condannato in Svezia per accuse (probabilmente costruite) di molestie sessuali, e quindi costretto a ripiegare nell’Ambasciata londinese dell’Ecuador ottenendo asilo politico come perseguitato e sfuggendo così all’estradizione. Ma in sostanza vivendo ancora oggi, da quattro anni, agli arresti domiciliari. Risk è quindi un’immersione nell’universo WikiLeaks, è un progetto lungo anni che non si sapeva assolutamente dove sarebbe andato a finire, un progetto che ha semplicemente seguito gli eventi e le persone coinvolte. Compresa l’unica sequenza davvero interessante del film, quella in cui Lady Gaga si presenta da Assange per intervistarlo, portando da un lato il paradosso dei ruoli invertiti fra giornalista e star, dall’altro divertendo con l’ingenuità della cantante in palese imbarazzo davanti a risposte troppo acute per i suoi standard. Quella di Laura Poitras è quindi una cronaca tutto sommato attenta delle conquiste e delle repressioni, delle vittorie e delle lotte, e non in ultimo delle mutazioni del corpo (di Assange) attraverso il tempo e le difficoltà. Ma se da una parte il film risulta, come già detto, troppo attaccato alla figura di Assange per rendersi conto di glorificarlo senza mai mettere nulla in dubbio dei suoi modi o delle sue eccentricità (dalla tinta dei capelli ai differenti tagli di barba, passando per una verità processuale che viene liquidata come falsa accusa senza interrogarsi su quanto ci potesse essere di vero), dall’altra è decisamente troppo televisivo nelle forme per poter funzionare sul grande schermo, procedendo nel suo pedinamento senza acuti né riflessioni sulla miriade di situazioni complesse accadute davanti all’obiettivo. Risk è un lavoro, insomma, potenzialmente interessante per completi digiuni, molto meno per chi già sa almeno approssimativamente che cosa siano le War Logs afghane e irachene e soprattutto il Cablegate, è un buon extra per un dvd, è una pubblicità. Ma, nel momento in cui il resto è retorica, questo basta per fare un film?
Marco Romagna