Béla Tarr, regista e sceneggiatore magiaro, classe 1955, è probabilmente il miglior regista vivente. Ha contornato la sua carriera di capolavori e l’ha conclusa definitivamente nel 2011 con Il cavallo di Torino, tra i più grandi risultati della storia del Cinema, pietra tombale della sua filmografia e vincitore dell’Orso d’Argento al festival di Berlino; ma tra le sue opere che hanno lasciato più il segno, merita una menzione speciale Le armonie di Werckmeister (2000), tratto dal romanzo Melancolia della resistenza del frequente collaboratore László Krasznahorkai, che ne ha curato la sceneggiatura. Infatti, il film del 2000 ha, in più rispetto ad altri film di Tarr, un’umanità ed una pietà che lo rendono più emozionale (emozionante ed emozionato) rispetto ad altri.
Nel raccontare la tragedia del protagonista Valuszka, personaggio il cui nome intitola anche un brano meravigliosamente melanconico appartenente alla colonna sonora di Mihály Vig (composta da un solo altro brano, ancor più bello, intitolato Old), il regista utilizza le scelte narrative a cui ha abituato, con Perdizione (1988) e Sàtàntangò (1994) in primis, i suoi spettatori in tutto il mondo, scelte che vanno dall’uso estensivo di suggestivi piani sequenza che dilatano i tempi ad un glaciale ma allo stesso tempo caldissimo bianco e nero, con una fotografia firmata da (ben!) sette persone in cui la luce ed il buio vengono piegati al volere di un “allegorismo realistico” che attinge alla condizione sociale dell’Ungheria, ma le condisce con una struttura narrativa meno vaga di quella dei grandi film precedenti. La perfezione del risultato finale, una triste allegoria di un totalitarismo cupo, pessimista e caotico (ricordo la scena sottostimata dei bambini che sbattono le pentole sotto le note della Marcha di Radetzky) sotto l’ombra del cadavere putrefatto di una biblica balena bianca/Leviatano, con riferimenti pittorici, da Il quarto stato all’uso dell’oscurità in Caravaggio, commosse urla di disperazione verso la crudele imbecillità del genere umano. Fino all’eterna, disturbante ed immensa scena dell’irruzione nell’ospedale, piano sequenza di una decina di minuti che culmina in una scelta registica geniale: nel climax narrativo e visivo, l’apparizione, di fronte alla violenza, di un malato anziano nudo, il massimo dell’umiltà e della fragilità, troppo imponentemente già autodistrutto per essere ulteriormente distruttibile. E’ un’immagine di una potenza tale che Tarr evita di insistere con la dilatazione temporale inquadrandolo troppo a lungo, e dopo pochi secondi lascia che la storia ed i personaggi, con un ritmo ed un’emozione diversa, tornino per la propria strada, disillusi e traumatizzati dalla potenza visiva delle loro ultime esperienze — e, per noi, del grande Cinema a cui esse fanno parte.
Il «meno cinefilo dei grandi autori» ha composto un meraviglioso affresco visuale e concettuale, mistico e sociale, un capolavoro senza tempo destinato a rimanere nella memoria di chiunque abbia la fortuna di ammirarne la pietosa bellezza, quella di un film, più che ‘armonico’, come suggerirebbe il titolo, ‘assordante’ (anche quando è silenzioso o fa finta di esserlo), che, in uno dei suoi apici emozionali, ricorda che «nelle rovine si cela la ricostruzione».
Nicola Settis