Correva l’anno duemilaundici, un caldo pomeriggio locarnese qualsiasi, di quelli in cui decidi volontariamente (o forse nemmeno…) di buttarti alla Sala, sezione Cineasti del Presente. Passava un film italiano (chi mi conosce sa che per vari motivi cerco in genere di evitarli); svogliato fumo l’ultima sigaretta a presentazione ben conclusa, ed entro. Ecco, un piccolo frammento della mia anima da (quel)la Sala non è mai uscito. Il film in questione era L’estate di Giacomo dell’allora, almeno da me, semisconosciuto Alessandro Comodin. Opera totalmente unica e sfuggente di piccole ma enormi trasformazioni, di ellissi in presa diretta, di vita nel suo atto continuo e spasmodico, di un’umanità lacerante (e potrei andare avanti così per ore, senza ovviamente mai arrivare a nessun punto). Proprio un anno prima (mi pare proprio lo stesso giorno) ci fu la splendida e toccante tavola rotonda in memoria di uno dei registi che più ha segnato la mia degenerata adolescenza, il mai troppo compianto Corso Salani. Nella foga dei mei diciannove anni, già allora forse troppi, il passo fu breve e chiesi ad Alessandro cosa ne pensasse di Corso, pensando sciaguratamente che quell’attenzione alla vita nel suo (dis)farsi proprio da lui l’avesse intra-presa. Comodin mi rispose che non lo conosceva, ma che l’avrebbe visto. Ecco forse quell’ellisse di cinque anni poteva concludersi solo ieri.
I tempi felici verranno presto è un altro film straordinario e unico, pur se molto diverso dal precedente, che riesce a mantenere la stessa forza devastante d’impressione/espressione del reale, cogliendone ogni possibile sfumatura e sublimandola continuamente in un vortice di sensazioni che ti attraversano la pelle, senza mai ferirti ma sedimentandosi in quel profondo che il regista friulano come pochi riesce a toccare. La narrazione è solo una questione di schizzi sfrenati su una tavolozza. Due ragazzi in fuga,scherzano nelle loro divise militari, paiono avercela fatta a sfuggire (dalla guerra?) e si nascondono nella foresta. Trovano una casa abbandonata e un fucile, ma anche il mondo stesso, da cui avevano cercato rifugio, che torna ad inseguirli. Molti anni dopo, in quella stessa foresta, un branco di lupi aggredisce il bestiame, mentre dei soldati in fuga nessuno oramai sa più dire nulla. Intanto nel paese corrono le leggende, la figlia malata di un allevatore si perde nel bosco con il suo mulo trovando un laghetto. Trova una grotta (cosa la conduce li?) in cui si immerge, mentre anche di lei scompaiono tutte le tracce (avrà incontrato il lupo? Sarà lei la cerva bianca?). Ben presto troverà uno dei ragazzi apparsi in apertura, uno dei due che fuggiva (il tempo della storia, e quello del racconto?). Si amano, fino a quando lui sarà costretto al carcere (cos’ha compiuto?), e si ameranno come in tutte quelle fiabe che si sporcano l’anima con il fango del reale, per sempre.
L’unico filo conduttore in questa selva di domande apparirebbe la fuga, l’idea dello spazio fisico in cui esercitare la facoltà di essere. A tutti i protagonisti di questa epopea pare negato (la guerra, l’astenia, la malattia) da forze esterne che vanno combattute allo stremo dello sparire completamente, dell’essere inghiottiti da quella porzione di realtà che non si può/deve accettare. Comodin si muove con un coraggio straordinario, e in libertà assoluta, all’interno di queste vicende lasciando scorrere i sentimenti come in un flusso anarchico di coscienza, come se la radice della complessità debba essere continuamente colta nel particolare, nella bellezza di un gesto, di una parola, di un respiro. Non esiste alcun tipo di forma, si passa dal mistico fotografato con continui tagli di luce ad interviste frontali in presa diretta giungendo al finale bressoniano racchiuso dalle sbarre. Una deriva di traiettorie universali, come se il cinema potesse ancora affidarsi alla totale poliedricità delle sue espressioni per trovare il compimento, come solo il caleidoscopio dei linguaggi riuscisse davvero a definire il reale, in falsi raccordi di esistenze che al nulla hanno preferito il dolore e la lotta. I tempi felici verranno presto è fuga, è natura, è sentimento, è simbiosi, è privazione. È un intreccio di mani attraverso le sbarre, è una grotta, è un orizzonte negato. È un manuale di fotografia intrappolato nel 4/3 di un 35mm granuloso, sporco, brillante nei colori saturi ma al contempo oscuro, come la vita, come la storia, come il cinema.
La natura pare essere quella di Straub, l’andare nel luogo, l’universo tutto compreso della sua (dis)umanità, acquario di anime perse in cui si resiste, dove non si può restare indifferenti, pena l’oblio. Uomini e animali, foglie e acqua: tutto ha lo stesso valore nella continua e drammatica provvisorietà dell’essere. La disobbedienza civile della vita nel bosco è l’unico attimo in cui loro si possono trovare a vivere, succhiandolo fino al midollo tra le due eternità del passato e del futuro solo per cercare di scrutare, almeno per pochi attimi, il presente illuminato solo dal sentimento. Nessuno può sapere se quei tempi felici potranno mai arrivare (l’emblema della didascalia finale), resta solo quell’impossibile fuga trascendentale che come vortice inghiottisce drammaticamente gli stessi spettatori di quel potente spettacolo vita/film che continua, indipendentemente da noi. Non saprei che altro aggiungere perché le complessità si susseguono e, come cinque anni fa, solo lo spaesamento può appartenere a queste parole. Solitudine, malinconia, impossibilità, rimpianti, tutto si è fuso in un conato dolce ed arido come il vento, che è il desiderio malinconico della vita stessa. Un desiderio, quello delle fiabe appunto, che in questo film (al di là delle imperfezioni apparenti) trovano una condensazione meravigliosa che toglie il fiato, e che ci fa sospirare lungo un sogno ad occhi aperti.
Erik Negro