Nella monografia de Il Castoro consacrata al più noto dei registi finlandesi, Patrizio Gioffredi definisce Hamlet goes Business, letteralmente Amleto si mette in affari, “una sorta di B-movie d’autore”, accostandolo a Calamari Union, l’opera seconda di Aki Kaurismäki che condivide con l’adattamento shakespeariano un gusto per l’assurdo e la fotografia in bianco e nero, formando un dittico ideale che si discosta radicalmente dalle altre opere del regista uscite negli anni Ottanta. Che si tratti della trasposizione di Dostoevskij con cui ha esordito nel lungometraggio (Delitto e castigo), della trilogia proletaria costituita da Ombre in paradiso, Ariel e La fiammiferaia (Amleto si mette in affari precede cronologicamente il secondo capitolo del trittico), oppure del delirio musicante di Leningrad Cowboys Go America, anch’esso situato in un mondo stralunato tutto suo, ma senza il cinismo che caratterizza la satira borghese che Kaurismäki ha costruito a partire dalla più nota e più grande tragedia di Shakespeare. Laddove gli altri lavori “letterari” del regista, dal già citato Delitto e castigo a Juha, passando per Vita da bohème, seguono le linee guida del cinema kaurismakiano, dove asciuttezza e understatement generano una grande catarsi emotiva, Hamlet goes business ignora tale principio e veicola le tematiche shakespeariane tramite il grottesco e l’eccesso, pur ristabilendo l’ordine naturale delle cose – per lo meno dal punto di vista di Kaurismäki – con la sequenza finale: solo i proletari (e i cani) sopravvivranno, e le macchine continuano, imperterrite, a funzionare nonostante la morte dei padroni.
Dal castello di Elsinore ci spostiamo nel mondo industriale di Helsinki, in un mondo dove i personaggi creati dal Bardo, nella visione bislacca del cineasta nordico, sono simili ai prototipi elisabettiani eppure diversi, a volte anche a livello dei nomi, resi più finnici: Claudio diventa Klaus, Laerte diventa Lauri. Ma il gioco (meta)linguistico più notevole e sublime riguarda il protagonista, introdotto in maniera buñueliana mentre si abbuffa di prosciutto, con la frase “Kinkkua, anna minulle.” (letteralmente “Il prosciutto, dammelo.”). Una battuta concepita appositamente in vista della traduzione per i sottotitoli nei mercati anglofoni, dato che in inglese tale richiesta diventa “Ham, let me.” Hamlet, me. Amleto, c’est moi. Un principe danese divenuto erede di un’azienda finlandese, il simbolo del teatro shakespeariano tramutato in maschera comica all’insegna del nonsense, interpretato alla perfezione da un volto noto della televisione finnica, Pirkka-Pekka Petelius, già al servizio di Kaurismäki in Calamari Union (era uno dei vari Frank) e accostabile, per via delle iniziali, a Pier Paolo Pasolini, uno dei registi più cari all’autore di Nuvole in viaggio (vi è anche una certa, magnifica ironia nella scelta di un attore di cui la prima metà del nome di battesimo è identica all’appellativo di un noto brand alimentare finlandese). Una presenza quasi aliena – difatti dopo questo film le strade di attore e regista non si sono più incrociate – al centro di un gruppo dove sono riconoscibili tutti i volti ricorrenti, sciupati e splendidamente umani, del cinema di Kaurismäki: Kati Outinen, Matti Pellonpää, Kari Väänänen, Esko Salminen, Elina Salo ed Esko Nikkari, tutti pronti a morire per poi risorgere, nuovamente proletari, nei film successivi (il decesso più folle e memorabile spetta a Väänänen, che nei panni di Lauri viene colpito in testa con una radio).
Riproposto dalla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 2016 in occasione della Carrozza d’Oro tributata a Kaurismäki, Hamlet goes business è l’ennesima prova che di fronte al grande cinema il tempo non passa. Lontano anni luce dalle interpretazioni dal sapore classico di Laurence Olivier, Mel Gibson e Kenneth Branagh, e anche dalla rivisitazione demenziale ad opera di Steve Coogan nella commedia musicale Hamlet 2, l’Amleto di Kaurismäki è un simbolo perfetto della propria epoca di appartenenza, uno yuppie finlandese dominato dai piaceri della carne e dall’avidità, ben saldo nelle sue forme di film-saggio secondo il quale tutto è sempre a posto e nulla in ordine. Non c’è posto, nel mondo satirico e parossistico di Kaurismäki, per l’introspezione alla “Essere o non essere”, ma solo per poche dichiarazioni prive di dubbio, come la richiesta del prosciutto o la confessione, spudoratamente anti-shakespeariana, del parricidio. Tutto il resto è beffardo silenzio, macchine che lavorano, morte.
Max Borg