C’era una volta Sammo Hung. Esperto di Kung Fu, pietra miliare della new wave di Hong Kong come attore, regista e coreografo dei combattimenti, prima insieme a Bruce Lee, poi con Jackie Chan, infine con Chow. C’era una volta, e c’è ancora, perché The Bodyguard, ritorno alla regia dopo oltre 20 anni dello storico combattente marziale che ha chiuso il Far East Film Festival di Udine edizione 2016, è infatti prima di tutto un film su Sammo, sul suo sguardo stanco, sulla sua incipiente, imponente e senza dubbio flaccida pancia, sul suo umano invecchiamento, sulla decadenza del suo corpo soldatesco – per quanto mai filiforme nemmeno in passato – che cambia, ma anche sui colpi inevitabilmente persi della sua mente, come testimoniato dal grave Alzheimer di cui soffre il protagonista Ding e dalla sua incapacità di utilizzare un semplice registratore mp3 al posto di quello, in realtà più complicato ma già presente nel suo immaginario, a cassette. The Bodyguard è uno sguardo malinconico sull’età che avanza, un trattato tutto fuorché senile sulla senilità, forse un modo inconscio e senza dubbio efficace per tenere lontana quella stessa demenza messa in scena, ma anche e soprattutto una divertita riunione fra vecchi amici e colleghi pronti a ridare spolvero al grande cinema hongkonghese di arti marziali.
Ma andiamo per ordine: Sammo interpreta Mr. Ding, ex agente della Sicurezza malinconico nei suoi grandi e piccoli rimpianti, ormai ritiratosi in pensione in una piccola regione dispersa al confine con la Russia. Quando Cherry, giovanissima vicina di casa con la quale Ding condivide un rapporto di tenera amicizia che diventerà in realtà ben presto e in barba all’assenza di legami di sangue lo stesso affetto che si può trovare fra nonno e nipote, sparisce insieme a un padre freddo e colluso con la malavita russa – segno di una Cina che cambia fra occidentalizzazioni e legami criminali –, Ding dovrà tornare ad essere un combattente, per risolvere da solo il caso e salvare la sua amica-famiglia. Sammo Hung, nelle forme dell’action di arti marziali, declina con un’acuta ironia velata di una malinconia quasi fantozziana la propria senilità in quella di Ding, il corpo e la mente – ma non certo il cuore – ormai scalfiti dal tempo, e nel frattempo riflette su una Cina in perenne mutazione geopolitica – non è certo casuale l’apertura sulla visita di Nixon a Mao nel ’72, con Ding ancora in servizio a far parte della sfilata, quasi contrapposta ai severi ritratti di Mao appesi sulle pareti di casa vicino a quell’uniforme ancora gelosamente custodita – e su un cinema glorioso che non esiste quasi più, con i veri combattimenti in genere resi poco più che un ricordo dalle “comode” innovazioni della computer grafica. Una tecnologia che Sammo Hung, esperto di arti marziali ancor prima che regista, considera fasulla, probabilmente disprezza e di sicuro rifiuta. Per far rivivere il “vero” cinema popolare di Kung-Fu, quello degli anni Sessanta e Settanta, si affida quindi agli amici di una vita, gustosi vecchietti interpretati dagli altri maestri del genere Tsui Hark, Dean Shek e Karl Maka, ma anche al contributo attoriale sempre importante di Andrew Lau; a combattimenti veri che diventano danze, vere e proprie coreografie orchestrate da un regista sorprendentemente ancora agile a dispetto della sua mole; a un intreccio sospeso fra l’action e una spy story di intrighi internazionali; all’alternanza fra lente carrellate laterali e improvvisi stacchi di un montaggio splendidamente serrato.
È poi impossibile, all’interno del discorso del regista sulla necessità di tornare carne del cinema, non aprire un breve capitolo a parte per quanto riguarda le brevi parte di animazione che si innestano nella narrazione. Si tratta di tratti semplici, teneri e fanciulleschi, il controcampo ideale – per non dire aperta opposizione – di quel “Kung-Fu Panda” con cui verrà apostrofato Sammo dai nemici a cui poco dopo romperà tutte le ossa. Infatti, la CGI contro cui si scaglia così apertamente il regista, nient’altro è che animazione, le stesse possibilità infinite a livello di immaginario date dal disegno e al contempo, con l’elaborazione digitale, la possibilità di non disegnare più, animando fondali, oggetti e persone vere con la stessa resa, o quasi, di una tradizionale ripresa in carne e ossa. All’interno del cinema live action di combattimenti, queste possibilità sono viste da Sammo alla stregua di un videogioco, una scorciatoia che tradisce i (non solo) suoi lunghi anni di apprendimento e allenamenti in una delle discipline sportive più radicate e difficili al mondo. Gli inserti in animazione tradizionale, fatti di semplicità ai confini del minimalismo, disegni a mano, acetato e china, hanno in questo senso una duplice valenza: da un lato riportano sullo schermo la piena legittimità del cartone animato all’interno della critica a solo una parte dell’animazione, dall’altro permettono di creare intimità e tenerezza, una nipote per una nipote, la necessità spasmodica di prendersi cura reciprocamente degli affetti. The Bodyguard infatti non è solo una riscoperta del cinema storico hongkonghese da parte di chi lo ha fatto e continua a farlo, né solo una riflessione, per quanto non banale, sulla senilità e la demenza da parte di chi si vede invecchiato e appesantito. The Bodyguard è infatti anche e soprattutto un film che straborda tenerezza e grande cuore, così come Sammo Hung straborda adipe al di sopra dei pantaloni. C’era una volta Sammo Hung, e c’è ancora. Più che scrivere, dirigere e interpretare un film, con The Bodyguard è diventato egli stesso un film, si è sublimato sullo schermo, ha dipinto se stesso, le sue idee, le sue paure, le sue capacità, le sue fragilità e la sua forza ancora erculea. Con The Bodyguard, presentato personalmente sul palco di Udine, Sammo Hung ha tracciato un bilancio della sua vita nei suoi molteplici aspetti. E forse, nonostante il retrogusto un po’ amaro di opera già postuma, o comunque di ultimo film, non è mai stato così vivo.
Marco Romagna